Emanuele Tesauro nasce a Torino nel 1592 da nobile famiglia che fa seguire la sua educazione dai gesuiti nel cui ordine entro nel 1611. Seguiti gli studi superiori di filosofia insegnò a Cremona e Milano diventando maestro di retorica. Nel 1635 si stacca dalla compagnia di Gesù in polemica e si mette sotto la protezione del principe di Carignano scrivendo panegirici per trasferirsi definitivamente a Torino come precettore sempre della famiglia Carignano. Ricordiamo le sue opere storiche: i Campeggiamenti di Fiandre (1646), e l’epitomeDel regno d’Italia sotto i Barbari (1654). Nel 1654 elaborò il Cannocchiale Aristotelico, il più importante trattato di retorica barocca ristampato in varie edizioni cone notevole successo
Il cannocchiale aristotelico, o sia idea dell’arguta e ingegnosa elocuzione che serve a tutta l’arte oratoria, lapidaria e simbolica esaminata co’ principi del divino Aristotele dal conte e cavaliere di gran croce Emanuele Tesauro patrizio torinese.
Questo è il lungo titolo del trattato del Tesauro che si cimenta in un trattato di retorica che coglie le evoluzioni linguistiche del barocco italiano e le tramuta in metodo in trattato appunto. Già il titolo presenta un ossimoro che l’autore usa per attrarre l’attenzione di come la nuova retorica da lui concepita si rifa ad Aristotele ne segue il metodo ma ne aggiorna i contenuti e ne corregge i difetti. Nel trattato Tesauro esamina tutti gli strumenti della retorica classica ma si ferma ed approfondisce il concetto di arguzia. L’arguzia, intesa dal linguista, è una facoltà intellettuale che si compone di intuizione di capacità combinatoria capace di cogliere connessioni e differenze; lo sviluppo dell’arguzia e dell’ingegno attraverso l’uso di figure retoriche è considerato il principale strumento per arrivare al successo comunicativo.
Tesauro considera la lingua un gioco in cui le parole e simboli formano le basi per intavolare i discorsi e nei quali il giocatore o giocoliere goica spostando le parole come fossero fiche (pedine da gioco) simulando e dicendo senza dire. In questa concezione della comunicazione la metafora ne è la figura principale ed il Tesauro ne tratta abbondantemente illustrandone le funzioni in modo pieno ed esaustivo per quanto per noi moderni pedante.
Il Cannocchiale Aristotelico
In queste pagine Tesauro vuole insegnare come essere arguti creando diletto intellettuale fondendo abilità e conoscenza per suscitare nell’ascoltatore la meraviglia.
Restano le arguzie umane; delle quali assai poco dovremmo dir qua, essendone sparto il volume. Ma poiché siamo nelle cagioni efficienti delle argutezze questo è il proprio luogo di ragionare quali uomini sian più dispositi a fabricarle. Il nostro autore discorrendo della metafora, la quale possiam chiamare gran madre di tutte le argutezze, ci ‘nsegna che tre cose or separate, or con giunte fecondano la mente umana di sì maravigliosi concetti: cioè l’ingegno, il furore e l’esercizio Talché tre generi di persone son più condizionati al for mar simboli arguti: cioè ingegnosi, furiosi, esercitati.
L’ingegno naturale è una maravigliosa forza dell’intelletto, che comprende due naturali talenti: perspicacia e versatilità. La perspicacia penetra le più lontane e minute circostanze di ogni suggetto, come sostanza, materia, forma, accidente, proprietà, cagioni, effetti, fini, simpatie, il simile, il contrario, l’uguale, il superiore, l’inferiore, le insegne i nomi propri e gli equivochi: le quali cose giacciono in qualunque suggetto aggomitolate e ascose, come a suo luogo diremo.
La versabilità velocemente raffronta tutte queste circonstanze infra loro o col suggetto le annoda o divide, le cresce o minuisce, deduce l’una dall’al tra, accenna l’una per l’altra’, e con maravigliosa destrezza pon l’una in luogo dell’altra, come i giocolieri i lor calcoli. E questa è la metafora, madre delle poesie, de’ simboli e delle imprese. E quegli è più ingegnoso, che può conoscere e accoppiar circonstanze più lontane, come diremo.
Non piccola differenza dunque passa fra la prudenza e l’ingegno. Però che l’ingegno è più perspicace, la prudenza è più sensata: quello è più veloce, questa è più salda; quello considera le apparenze, questa la verità; e dove que sta ha per fine la propria utilità, quello ambisce l’ammirazione e l’applauso de popolari. Quindi non senza qualche ragione gli uomini ingegnosi fur chiamati divini. Però che, sì come Iddio di quel che non è produce quel che è ‘ così l’ingegno di non ente fa ente, fa che il leone divenga un uomo e l’aquila una città. Inesta una femina sopra un pesce e fabrica una Sirena per simbolo dell’adulatore. Accoppia un busto di capra al deretano di un serpe e forma la Chimera per ieroglifico della pazzia. Onde fra gli antiqui filosofi alcuni chiamarono l’ingegno particella della mente divina, e altri un regalo mandato da Iddio a’ suoi più cari. Benché, per dir vero, gli amici d’Iddio dovrebbero con più caldi voti chieder prudenza che ingegno, però che la prudenza comanda alla fortuna, ma gli ‘ngegnosi (se non se per miracolo) sono sfortunati: e dove quella conduce gli uomini alle dignità e agli agi, questo gli ‘nvia allo spedale. Ma perché molti antipongono la gloria dell’ingegno a tutti i beni della fortuna, io dico che gli uomini più ingegnosi hanno dalla antura maggior attitudine alle argutezze; anzi tanto vale la voce «arguto», quanto in gegnoso.
Questo appare assai chiaro nella pittura e nella scultura: però che color che sanno perfettamente imitar la simmetria de’ corpi naturali si chiamano artefi ci dotti; ma quei soli che pingono argutamente si chiamano ingegnosi. Pittore ingegnoso era Timante, perciò che (sì come scrive Plinio Secondo) «in omnibus eius operibus intelligitur plus semper quam pingitur»: ecco l’argutezza laconica: «et cum ars summa sit, ingenium tamen supra artem est».
Niuna pittura, adunque, niuna scultura merita il glorioso titolo d’ingegno sa, se non è arguta: e il medesimo dico io dell’architettura, gli cui studiosi son chiamati ingegneri per l’argutezza delle ingegnose lor opre. Questo appare in tante bizzarrie di ornamenti vagamente scherzanti nelle facciate de’ sontuosi edifici: capitelli fogliati, rabeschi de’ fregi, triglifi metope mascaroni, cariatidi termini modiglioni, tutte metafore di pietra e simboli muti, che aggiungono vaghezza all’opra e mistero alla vaghezza. Ma io non so se angelico o umano ingegno fu quello dell’Ollandese che pur a’ nostri giorni con due optici specchietti, quasi con due ale di vetro, portò la vista umana per una forata canna là dove uccello non giunge. Con essi tragitta il mar senza vele; ti fa veder di presso le navi, le selve e le città che fuggono l’arbitrio della pupilla anzi, volando al cielo in un lampo, osserva le macchie nel sole, scopre le corna di Vulcano in fronte a Venere misura i monti e i mari nel globo della luna, numera i pargoletti di Giove e ciò che Iddio ci nascose, un piccol vetro ti rivela. Onde puoi tu conoscere quanto sia il mondo invecchiato poiché gli bisognano occhialoni di così lunga veduta. Qual cosa è dunque oggidì alla malizia umana assai cautelata e secreta?
Argutamente invero scherzò Maurizio principe di Orange a cui fu il primo cannocchiale dedicato dall’inventore ne’ tempi apunto che si trattava la triegua infra Spagnuoli e Ollandesi; la qual egli come soldato attraversava a più potere. Però che, sì come io leggo nelle istorie, avendo egli portato nel Senato di Ollanda quel visivo e non più veduto ordigno disse: — Io vi pr sento, o signori, un instrumento novello, con cui possiate conoscere dalla lunga le astutezze degli Spagnuoli in questa triegua.
Or non più dell’ingegno dirò del furore, il qual significa un’alterazion della mente cagionata o da passione o da affiato o da pazzia. Talché tre sor ti di persone, benché non fossero grandemente ingegnose né argute, il divengono: passionati, affiati e matti.
Egli è certa cosa che le passioni dell’animo arruotano l’acume dell’ingegno umano e, come parla il nostro autore, la perturbazione aggiugne forza alla persuasione. E la ragione è che l’affetto accende gli spiriti, i quali son le facelle dell’intelletto: e la imaginazione, affitta a quel solo obietto in quell’uno minutamente osserva tutte le circostanze benché lontane. E come alterato, stranamente alterandole, accrescendole e accoppiandole, ne fabrica iperbolici e capricciosamente figurati concetti.
L’altro furore arguto è l’affiato, grecamente chiamato entusiasmo.Questo si vedea chiaro ne’ sacri profeti, le cui maravigliose visioni altro non erano che simboli metaforici e argutezze divine, suggerite loro dal sacro Spirito: nelle quali più non abbiamo ad indugiare ora qua, avendone assai detto più sopra. Similmente degli oracoli profani, alcuni si rendevano per affiato, come nell’antro delfico e nel trofonio , dove persone illiterate e rozze, allo spirar di un’aura vaporosa di sotterra, precantavano cose maravigliose in arguti e misteriosi carmi di giusto e nobilissimo stile.
L’ultimo furore è quel de’ matti, i quali meglio che i sani sono condizionati a fabricar nella lor fantasia metafore facete e simboli arguti; anzi la pazzia altro non è che metafora, la qual prende una cosa per altra. Quinci ordinariamente succede che i matti son di bellissimo ingegno e gli ‘ngegni più sottili, come poeti e matematici, più son proclivi ad ammattire Però che quanto la fantasia è più gagliarda, tanto è veramente più disposita ad imprimersi li fantasmi delle scienze ma un sol fantasma troppo altamente impresso e riscaldato, divien sovente fantasticheria: e questa invecchiata divien pazzia Onde puoi tu conoscere in quanto fragil vaso quanto tesoro si serbi: poiché sì vicina all’insania è la sapienza. Tal da Galeno ci vien dipinta la fantasia di colui il qual così profonda s’improntò la imagine di un grande doglio di terra da lui veduto, che gli entrò la frenesia di esser quel doglio. Onde gridava ad ogni passaggiere: «Fatti in costà, che tu non m’infragni perché io sono il doglio». Né osava caminar, né corcarsi, ma ritto su’ piè, con le mani su le anche, pareva un doglio manicato e come doglio, stranamente amando il vino, diceva: «Colmiamo il doglio, acciò che asciutto non muffi»
Or questa pazzia altro non era che metafora di un fantasma per un altro: di cui nasceva l’arguta allegoria. Però che quanto facesse o dicesse, consequentemente si riferiva a quel suo doglio. Più ridicoloso fu Nicoletto da Gattia, il qua, immaginandosi divenuto un tizzone, pregava ciascuno a volergli soffiare adosso per avvivarlo. E più ancora Petruccio da Prato il qual, credendosi un granel di senape, e veduto in mercato un grande orcio di mostarda, vi si tufò dicendo che mostarda senza senape non sape nulla.Che dirò di quell’altro che ficcatosi nel capriccio sé essere un gallo, nelle più nobili raunanze, quando se gli moveva quella pazza imaginazione, repente ringalluzzava e stendendo il collo e scotendo le ascelle in guisa di ale, mandava una cotal voce acuta e rantacosa come di gallo, a cui tutti i galli facean tenore.
L’ultimo e più efficace sussidio di quest’arte è l’esercizio, che in tutte le arti umane è il suffraganeo dell’ingegno, essendo assai più giovevole e sicuro l’esercizio senza grande ingegno, che un grande ingegno senza esercizio. Che se l’un con l’altro conspira, pervien l’artefice a segno, che più non pare uom terreno, ma un celestial nume nell’arte sua Onde il nostro autore per la investigazione delle lontane notizie, sì nelle filosofali che nelle poetiche e argute composizioni, ricerca ingegno congiunto con l’esercizio. Per più maniere adunque in questa vaga e nobil arte si può esercitar lo stilo erudito: cioè per pratica, per lettura, per reflessione, per indice categorico e per imitazione.
L’ultimo esercizio più di tutti efficace e ingegnoso è la imitazione. Questa fu l’anziana maestra di tutti gli uomini a’ quali troppo restia par che sia stata Natura nel voler che con molta fatica un uomo sia discepolo dell’altro; dove agli animali essa medesima è maestra. Il parlare, il caminare, il nuotare, il cantare, lo scrivere, dalla sola imitazione s’insegnano. Le virtù e le civili creanze nella cera dell’animo tenerello si ‘mprimono con la sola imitazion de’ padri e nutritori. Finalmente le arti tutte, così fabrili come ingenue si apprendonodagli esemplari di ottimi artefici: e questi le appresero dalla imitazione degli animali Il trar di arco fu lor mostrato dall’istrice; l’architettura dalle api; la navigazione da’ cigni; la musica da’ rusignuoli: la pittura dal ribattimento dell’ombra. Talché l’imitazione si può chiamar maestra de’ maestri. Questa dunque (come saggiamente discorre il nostro autore) fu la primiera insegnatrice della poesia, la cui anima consiste nell’imita re. E poiché la metafora, e conseguentemente l’argutezza e tutti i simboli, son parti e parte della poesia forza è che per essi la imitazione sia il più sicuro e necessario esercizio di tutti gli altri. Egli è il vero che l’imitare non è usurpar le metafore e le argutezze quali quali tu le odi o leggi però che tu non ne riporteresti laude d’imitatore, ma biasimo d’involatore. Non imita l’Apolli ne di Prassitele chi transporta quella statua dal giardino di Belvedere nella sua loggia ma chi modella un altro sasso alle medesime proporzioni: talché Prassitele, vedendolo, possa dir con maraviglia: «Cotesto Apolline non è il mio, e pur è mio». Oltreché, ad ogni parto arguto è necessaria la novità, senza cui 150 la maraviglia dilegua, e con la maraviglia la grazia e l’applauso. Chiamo io dunque imitazione una sagacità con cui, propostoti una metafora o altro fiore dell’umano ingegno, tu attentamente consideri le sue radici e, traspiantandole in differenti categorie come in suolo sativo e fecondo, ne propaghi altri fiori della medesima spezie, ma non gli medesimi individui. Un solo esempio ti ba sterà di soperchio.
Nessun salutò la eloquenza così di lungi che sovente non abbia udito quella rettorica figura «prata rident», per dire «prata vernant, amena sunt» . Questa veramente argutezza intera non è, ma simplice metafora: feconda genitrice, però, d’innumerabili argutezze. Egli è dunque un bel fior rettorico, ma fiore oggimai sfiorito e così calpestato per le scuole, che incomincia putire Laonde se in un tuo discorso academico tu pompeggiassi di questa metafora così nuda: «prata rident», vedresti rider gli uomini e non gli prati. Così ci fa ridere l’udire i «liquidi cristalli» e i «raggi di Febo». Ella pertanto ringiovenirà se, considerate le sue radici, l’anderai variando con leggiadria.
Ed eccoci alla fin pervenuti grado per grado al più alto colmo delle figure ingegnose, a paragon delle quali tutte le altre figure fin qui recitate perdono il pregio, essendo la metafora il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino e mirabile, il più gioviale e giovevole il più facondo e fecondo parto dell’umano intelletto. Ingegnosissimo veramente, però che, se l’ingegno consiste nel ligare insieme le remote e separate nozioni degli propositi obietti, questo apunto è l’officio della metafora, e non di aicun’altra figura: perciò che, traendo la mente, non men che la parola, da un genere all’altro, esprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso, trovando in cose dissimiglianti la simiglianza. Onde conchiude il nostro autore che il fabricar metafore sia fatica di un perspicace e agilissimo ingegno. E per consequente ell’è fra le figure la più acuta: però che l’altre quasi grammaticalmente si formano e si fermano nella superficie dei vocabulo, ma questa riflessivamente penetra e investiga le più astruse nozioni per accoppiarle; e dove quelle vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di concetti.
Quinci eli’è di tutte l’altre la più pellegrina per la novità dell’ingegnoso ac coppiamento: senza la qual novità l’ingegno perde la sua gloria e la metafora la sua forza. Onde ci avisa il nostro autore che la sola metafora vuoi essere da noi partorita, e non altronde, quasi supposito parto, cercata in prestito’.
E di qui nasce la maraviglia’ mentre che l’animo dell’uditore, dalla novità soprafatto, considera l’acutezza dell’ingegno rappresentante e la inaspettata imagine dell’obietto rappresentato.Che s’ella è tanto ammirabile, altretanto gioviale e dilettevole convien che sia però che dalla maraviglia nasce il diletto, come da’ repentini cambia menti delle scene e da’ mai più veduti spettacoli tu sperimenti Che se il di letto recatoci dalle retoriche figure procede (come ci ‘nsegna il nostro autore) da quella cupidità delle menti umane d’imparar cose nuove senza fatica e molte cose in piccol volume certamente più dilettevole di tutte l’altre ingegnose figure sarà la metafora: che, portando a volo la nostra mente dà un genere all’altro, ci fa travedere in una sola parola più di un obietto. Perciò che se tu di’: «Prata amoena sunt», altro non mi rappresenti che il verdeggiar de’ prati; ma se tu dirai: «Prata rident», tu mi farai (come dissi) veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l’amenità il riso lieto. Tal ché in una paroletta transpaiono tutte queste nozioni di generi differenti: terra, prato, amenità, uomo, anima, riso, letizia. E reciprocamente con veloce tragitto osservo nella faccia umana le nozioni de’ prati e tutte le che passano fra queste e quelle, da me altra volta non osservate. E questo è quel veloce e facile insegnamento da cui nasce il diletto, parendo alla mente di chi ode vedere in un vocabulo solo un pien teatro di meraviglie.Né men giovevole a’ dicitor che dilettevole agli uditori è la metafora. Sì perch’ella spesse fiate providamente sovviene alla mendicità della lingua e, ove manchi il vocabulo proprio, supplisce necessariamente il translato come se tu volessi dir Co’ vocabuli propri «vites gemmant» e «sol lucem spar git», tu non sapresti. Onde ben avvisò Cicerone, le metafore simigliare alle vesti, che, ritrovate di necessità, servono ancor di gala e di ornamento.
La retorica, strumento della comunicazione barocca Musica e retorica nel periodo barocco Architettura e retorica in età barocca