Il termine "natura morta" nacque nel Settecento ma in origine il suo significato era spregiativo, contrapposto alla "natura vivente" delle opere a soggetto narrativo, uniche degne di rappresentare la "grande" pittura, in senso accademico.
Più propria, come definizione obiettiva è la terminologia secentesca delle botteghe transalpine, la fiamminga "still-leven", in tedesco "stilleben" e in inglese "stille-life", letteralmente "vita immota, silenziosa".
Anche se una "natura morta" era presente già nell'antichità, l'origine storica del termine impone di attenersi il più possibile a una precisa circoscrizione sei-settecentesca del fenomeno, con radici nel secondo Cinquecento e con una ripresa dalla metà dell'Ottocento.
Questo filone pittorico si suole farlo derivare dal manierismo raffaellesco, attraverso la ripresa, come motivo pittorico autonomo ed esclusivo, delle decorazioni floreali "classiche", specialità di Giovanni da Udine. Tale ripresa si unì nella Fiandra, nel tardo Cinquecento, a una tradizione di tono scientifico documentario: iniziatori del genere furono i fiamminghi Jan Sadeler e Roelant Savery, subito seguiti da Jan Brueghel dei Velluti e Daniel Seghers.
Il passaggio a Milano di Jan Brueghel, chiamato da Federico Borromeo, lasciò traccia nei quadri di fiori e frutta di Fede Galizia, iniziatrice di una pittura di fiori lombarda.
In Spagna la pittura di fiori fiamminga si innestò sul sottofondo locale derivante dalle decorazioni raffaellesche di Giovanni da Udine; parimenti a Napoli l'influsso di Jan Brueghel e la tradizione decorativa cinquecentesca si unirono in Giacomo Recco, padre dei più noti Giuseppe e Giovanni Battista.
La più sontuosa pittura di fiori barocca trionfò, nella terra d'origine, con Willem Van Aelst e Rachel Ruysch, il cui corrispettivo italiano può essere individuato nel lombardo-emiliano Pier Francesco Cittadini. Con essi, a metà Seicento, siamo già però a un momento in cui i filoni originari della "natura morta" hanno perso valore di autonomia e distinzione, e la scelta è fondamentalmente fra una rigorosa tendenza naturalistica (fiamminghi, caravaggeschi, filone spagnolo di Cotàn, centri olandesi di Leida ed Haarlem) e tendenza illusionistica sontuosamente barocca (filone fiammingo rubensiano, ambiente romano di Cerquozzi e napoletano di Ruoppolo): tendenze tuttavia assai intrecciate, a loro volta.
Accanto ai fiori, si possono distinguere le "mostre" di frutta, verdura, cacciagione, con figure che rappresentano il ricordo formale dell'origine cinquecentesca non profana (cene sacre, storie bibliche, allegorie delle stagioni e degli elementi), e le cosiddette "intavolature", rappresentazioni di oggetti naturali o manufatti, più legate all'illusionismo del trompe-l'oeil.
Iniziatori di entrambi i generi sono senza dubbio gli artisti fiamminghi, ma in entrambi i casi non possiamo dimenticare i fenomeni italiani, dalle tarsie alla vocazione realistica lombardo-veneta, per le cosiddette mostre. Gli archetipi dei quadri di mostre, quelli di Pieter Aertsen e del nipote Joachim Beuckelaer, sono opere di pittori di indubbia cultura italiana settentrionale, e mostrano il fondamentale passaggio dal soggetto sacro sospinto sul fondo, alla diretta rappresentazione del mercato e della cucina. Non a caso gli immediati esiti del genere sono italiani, con il cremonese Vincenzo Campi e il bolognese Bartolomeo Passarotti. L'opera dell'uno e dell'altro ebbe fondamentale influsso, in diverse aree italiane e anche fuori d'Italia. Il Campi fu in Spagna nel 1584, e a lui e al Passarotti si riallacciano i primi autori spagnoli di "bodegones" (raffigurazioni di usi e tavole imbandite); il processo culmina poi nei personalissimi, e caravaggeschi, bodegones giovanili di Velasquez. Fondamentale è la diretta derivazione bolognese nei quadri di Annibale Carracci (tipica la "Bottega del macellaio).
Riguardo alle "intavolature", i primi esempi in senso proprio risalgono al tardo Cinquecento fiammingo, soprattutto con Jan Van Kessel il Vecchio, con chiaro accento simbolico-didascalico alludente alla "vanitas" delle cose terrene (frequente la presenza del teschio), che diverrà una specialità e un motivo della scuola olandese di Leida.
All'Aia, la tradizione della natura morta assume accento definitivamente barocco decorativo, con Abraham Van Beyeren, culminando nel luminismo di ascendenza rembrandtiana di Willem Kalf.
Gli esiti dei fiamminghi si riscontrano nell'opera di pittori di ogni contrada europea, dal tedesco Georg Flegel al francese Baugin fino allo spagnolo Juan Sànchez Cotàn, necessaria premessa ai supremi risultati di Francisco de Zurbaràn.
In Italia il parallelo del rigoroso naturalismo nordico è rappresentato da Caravaggio, che compie il decisivo passo di preservare il più assoluto rigore antidecorativo e antimitizzante nella presa diretta sul reale, che discioglie ogni secchezza simbolica e metafisica dell'oggetto di natura.
La tradizione diretta caravaggesca è rappresentata a Roma da Tommaso Salini, a Napoli da Luca Forte e attraverso di lui da Paolo Porpora, nel nord da Evaristo Baschenis, cui si riconnette inizialmente il napoletano Giuseppe Recco. Ma ben presto, anche questa ondata caravaggesca si discioglie e si mescola all'opulenza barocca rubensiana.
L'altro polo secentesco è infatti rappresentato dall'opera di Rubens in Fiandra: tramite l'allievo e collaboratore Frans Snyders, le rappresentazioni di nature morte si profondono in ricchezza cromatica, in complicazione compositiva perfettamente parallela al "quadro di storie", persino in dimensioni.
Diffusori europei furono fra gli altri Jan Fyt e Jan Roos, stabilitosi a Genova e iniziatore di una scuola rappresentata da Antonio Maria Vassallo, Sinibaldo Scorza, soprattutto G. B. Castiglione detto il Grechetto, che estende poi la sua influenza nel secondo Seicento in Lombardia, con Felice Boselli, fino al settecentesco Londonio.
A Roma, il caravaggismo originario di Michelangelo Cerquozzi si dilata in "rappresentazioni sceneggiate" sui fondi paesistici, aprendo la strada a transalpini italianizzanti come Abraham Brueghel e Christian Berentz.
Il parallelo napoletano del Cerquozzi è rappresentato da Giovanni Battista Ruoppolo, mentre, sempre a Napoli, al caravaggismo si mantengono fedeli, sia pur con accentuata ricchezza illustrativa e decorativa, i fratelli Giuseppe e Giovanni Battista Recco.
Il definitivo affermarsi della tendenza barocca, con la sua sostanziale indifferenza decorativa, il suo superamento dei precisi filoni di specializzazione e di mestiere che costituivano in effetti il nerbo anche poetico della grande natura morta secentesca, prepara il rapido decadimento settecentesco del genere, che si scinde in una modesta pratica artigianale di decorazione (imitatori provinciali dei modelli precedenti) e in isolate prestazioni di grandi personalità, di cui sono esempio le nature morte di Giuseppe Maria Crespi e soprattutto di J. B. Chardin, che rievoca, in coerenza con la propria visione, i più "rigorosi" esempi del secolo precedente, fino alla potenza tragica, senza paragoni, dei rari esempi di Goya, fondamentali per la rinascita realistica a metà Ottocento.