Un esercito di “turisti” scapestrati
La pittura del primo '600 romano è caratterizzata dalla presenza di giovani scapestrati e talentuosi che da ogni angolo d'Europa giungono per specializzarsi nell'arte della pittura, per ispirarsi ai grandi artisti del Rinascimento e per abbeverarsi alle nuove tendenze di Caravaggio, Reni e della nascente arte barocca.
Tra questi giovani, soprattutto fiamminghi, tedeschi e francesi, spiccano nomi che faranno a lungo parlare di loro: Simon Vouet, Pieter Van Laer (detto il Bamboccio), Nicolas Tournier, Abraham Bosse. Sono ottimi artisti, già contesi da illustri committenze della nobilità romana e frequentatori di salotti cardinalizi, ma sono anche giovani assetati di divertimento e piaceri: frequentano le locande più sordide e passano il loro tempo tra prostitute, risse e giochi d'azzardo. E ovviamente non si fanno alcuno scrupolo di rendere questa Roma di bassifondi oggetto della loro arte pittorica, tra verismo, caricatura e allegoria moralizzatrice.
Volgarità e richiami sessuali, tra verismo e finzione
In un mondo dove le regole del decoro, della prudenza e della decenza occupano un ruolo di primo piano, le personificazioni dello sproloquio, della volgarità e della scorrettezza acquistano paradossalmente grande importanza, proseguendo il solco segnato dalle cosidette “pitture ridicole” del '500, in cui il riso acquisisce la virtù catartica di spingere alla moralità.
Nei dipinti, come su un palcoscenico teatrale, tutte le licenze sono permesse: la voluttà dei sensi e la sregolatezza dei costumi, l'inganno e la frode, persino l'oltraggio ai potenti da parte degli oppressi.
Così, in una società dalla rigida etichetta formale basata sulla probità dei costumi, la rappresentazione del gesto della fica , ovvero il pollice tra l'indice e il medio che evoca la penetrazione e/o il sesso femminile, è emblematica di quel gioco tra realtà e finzione nel quale lo spettatore, sfidato dall'immagine che indica l'insulto supremo, resta intrappolato dalla messinscena e dall'insolenza del pittore.
Genesi di un gestaccio
Il gesto della fica è conosciuto sin dall'antichità greco romana: sono ifatti stati rinvenuti a Pompei molti amuleti scaramantici con questo gesto.
E' esplicitamente osceno e ingiurioso fin dalla sua menzione nell'Inferno della Divina Commedia di Dante e nell' Immensa Dei Misericordia di Erasmo da Rotterdam.
Il sommo poeta ci descrive infatti come Vanni Fucci, ladro confesso, concluda il suo empio discorso levando dal suo girone infernale verso Dio entrambe le mani con il gesto delle fiche e gridando la bestemmia “Togli Dio, ch'a te le squadro!”(Guarda Dio, come te le mostro apertamente!), subito interrotto da serpenti che gli serrano la gola e gli legano le braccia.
Se a cavallo del XVII la sua polisemia come scongiuro dai malefici, connotazione sessuale, espressione di disprezzo, di scherno e di blasfemia, è ancora in uso, proprio allora questa mimica si impone come il più grave e il più frequente gesto di insulto.
In sostanza, l'equivalente di un “dito medio” odierno.
Il suo uso nel '600 è soprattutto volgare, ironico e offensivo e contraddistingue i ceti sociali più bassi e degradati, certi frequentatori di quelle taverne visitate anche dai giovani pittori stranieri in “vacanza-studio” a Roma.
Il più imbarazzante dei francesi a Roma: Simon Vouet
Prima di diventare il pittore “istituzionale” della corte di Luigi XIII, il francese Simon Vouet (1590- 1649) ebbe un turbolento quanto proficuo apprendistato romano tra il 1612 e il 1627.
Non fece fatica ad entrare nei più raffinati salotti romani e nelle grazie del Cardinal Del Monte, ma con la stessa disinvoltura frequentava i bassifondi della città, osservandone i costumi osceni e dissipati.
Nel suo ritratto di Giovane con fichi (1615 circa) si spinge ben oltre la semplice volgarità di quel gesto delle fiche che chissà quante volte aveva osservato fare nelle locande e nei bordelli: il giovane del quadro indossa un abito di foggia femminile, ha lineamenti ambigui e un'espressione ammiccante e infine tiene con una mano il cui braccio è scoperto due fichi dal chiaro rimando “vaginale”. Più esplicito di così?
Non conosciamo opere paragonabili e tutto fa pensare ad una commissione privata legata ad una situazione particolare in cui il modello aveva un ruolo preciso. La critica propenderebbe per un travestito partecipante a feste private dell'èlite romana, come ad esempio i festini del Cardinal Del Monte, grande mecenate di Caravaggio prima e di Vouet poi.
Anche gli stessi Musici di Caravaggio pare possano essere ricondotti all'ambientazione di quegli intrattenimenti ambigui a sfondo erotico-sessuale. Questa tesi spiega inoltre la rarità di soggetti come questo, probabilmente andati intenzionalmente distrutti nel corso dei secoli per evitare “scandali”.
Il vituperato gesto compare nuovamente in altri dipinti di Vouet: La ragazza che suona il tamburello (1616) e La Buona Ventura (1617), nel quale un giovane dall'espressione alquanto grulla e ingenua (probabilmente un mungitore, dallo sgabello che porta a spalla), viene braccato da una bella sibilla che gli legge la mano mentre una vecchia complice lo deruba della sua scarsella.
Il soggetto delle sibille seduttrici è quello inaugurato da Caravaggio nel 1595, ma in questo caso il malcapitato viene doppiamente sbeffeggiato e derubato: la vecchia infatti ostenta il gesto della fica a simboleggiare che lo stordimento dei sensi provocato dal sex appeal della zingara getta il giovane in uno stato confusionale che lo mette alla mercè delle due donne, del furto e quindi del Male.
Per molto tempo attribuito dalle fonti di fine '600 a Caravaggio prima e ad anonimi caravaggeschi poi, il Bravo che fa il gesto della fica è oggi invece un “sospetto” Vouet.
In un primo piano quasi da grand angolo campeggiano i lineamenti iper-realisti di un bravaccio da osteria, che ammiccando in una smorfia grottesca, compie un gesto della fica che punta dritto allo spettatore. Non ci si può sottrarre da quel dettaglio erotico di quel pollice rosso che appare tra le dita irrompe dal chiaroscuro.
Lo spettatore è preso in trappola dal dipinto e, snervato dalla platealità del gesto, non può che rispondere afferrando la tela per distruggerla. Ma allo stesso tempo è la stessa realistica platealità del gesto a relegare l'opera su un piano burlesco e canzonatorio che subito solleva lo spettatore dal sentirsi davvero offeso.