E’ l’unico artista nordico a venire in stretto contatto con l’atmosfera romana di Carracci e del Caravaggio. Fiammingo, giunge a Roma nel 1600, all’età di 23 anni. Deve aver assistito a molte fervide polemiche artistiche e studiato una quantità di opere antiche e moderne, non solo a Roma ma anche a Genova e Mantova, dove dimora per qualche tempo. Non sembra però che abbia aderito a qualche movimento o gruppo. In cuor suo rimane sempre un artista fiammingo, il paese di Van Eyck, van der Weyden e Bruegel: pittori che amavano le superfici variegate degli oggetti e tentavano ogni mezzo per esprimere la trama di un tessuto, o la grana della pelle. Non si preoccupavano dei canoni e dei modelli così cari ai loro colleghi italiani, e non avevano mostrato interesse per i soggetti paludati. In questa tradizione era cresciuto Rubens.
La pittura di Rubens
Ammira la nuova arte che si sta formando in Italia, ma ciò non scuote la sua convinzione fondamentale: compito del pittore è dipingere il mondo che lo attornia, dipingendo ciò che gli piace, comunicando il proprio godimento di fronte alla bellezza delle cose. L’arte di Carracci e Caravaggio non contrasta con questo orientamento: Rubens ammira il modo in cui Carracci risuscita i miti classici, e allo stesso modo ammira la sincerità intransigente con cui Caravaggio studia la natura.
La maturità
Nel 1608 torna ad Anversa. Ha 31 anni e ha imparato tutto quello che c’era da imparare: ha acquistato una tale disinvoltura nel maneggiare pennelli e colori, nel disporre nudi e drappeggi, armature e gioielli, animali e paesaggi da non avere più rivali a nord delle Alpi. Porta con sé dall’Italia la predilezione per le vaste tele destinate alla decorazione delle chiese e dei palazzi. La sua capacità di progettare quadri vastissimi con sicurezza di visione e di tocco fa sì che venga ben presto sommerso dalle ordinazioni di principi ed ecclesiastici. Ma non gli manca neppure l’abilità organizzativa, e parecchi buoni pittori fiamminghi sono orgogliosi di lavorare sotto la sua guida e di imparare da lui. Spesso Rubens si limita a fare soltanto un bozzetto a colori e lascia agli allievi il compito di trasferire lo schizzo su una tela grande. Solo quando il lavoro di preparazione è finito Rubens riprende in mano il pennello ritoccando un volto, una veste di seta, un contrasto troppo violento, fidandosi della capacità del suo pennello di infondere vita in qualsiasi cosa. Il Ritratto del figlio Nicola (1620) è un disegno che Rubens realizza per proprio piacere. In questo come nella Testa di bimba (1616, ritratto della figlia) non ci sono trucchi di composizione, manti splendidi o fasci di luce: nient’altro che il viso di un bambino. Eppure questi visi sembrano respirare e palpitare come carne viva. Perfino più di Tiziano, Rubens considera strumento essenziale il pennello: i suoi dipinti non sono disegni ricoperti accuratamente di colore, ma sono creati con mezzi pittorici e ciò ne accresce l’impressione di vitalità vigorosa.
Diana cacciatrice
Pittore di corte
I Paesi Bassi sono divisi, all’epoca, tra l’Olanda protestante e le Fiandre cattoliche governate da Anversa, possedimento spagnolo. E’ in quanto pittore del partito cattolico che Rubens riesce a conquistare la sua posizione straordinaria. Accetta incarichi dai gesuiti di Anversa e dai governatori cattolici delle Fiandre; da Luigi XIII di Francia e dalla madre di questi, Maria de’ Medici; da Filippo III di Spagna e da Carlo I d’Inghilterra, che lo eleva al rango di cavaliere. Viaggiando di corte in corte viene spesso incaricato di delicate missioni diplomatiche e politiche, prima fra tutte un tentativo di riconciliazione tra Spagna e Inghilterra per promuovere quello che oggi chiameremmo un “blocco reazionario”. Rimane in contatto con gli studiosi del tempo e tiene una dotta corrispondenza in Latino su questioni artistiche e archeologiche. E naturalmente, continuano ad uscire dai suoi studi di Anversa quadri di un’abilità straordinaria. Per mano sua, le leggende classiche e le invenzioni allegoriche acquistano la vivacità e la forza di persuasione del Ritratto della figlia.
L'arrivo di Maria de' Medici a Marsiglia (1622-25).
Rubens ospitò forse la regina nella sua casa di Colonia, e la immortalò in ventidue celebri tele allegoriche oggi conservate al Louvre.
Le allegorie e lo stile
All’epoca di Rubens le pitture allegoriche hanno una chiara funzione comunicativa. Sembra che L’Allegoria dei benefici della pace (1629-30) sia stata portata in dono da Rubens a Carlo I d’Inghilterra quando tentò d’indurlo a riappacificarsi con la Spagna. Il dipinto mette in contrasto i vantaggi della pace e gli orrori della guerra: Minerva (con l’elmo), dea della saggezza e delle arti apportatrici di civiltà, scaccia Marte che sta quasi per ripiegare, mentre la sua terribile compagna, la Furia guerresca, ha già voltato le spalle. Sotto la protezione di Minerva le gioie della pace si spiegano davanti ai nostri occhi con simboli di prosperità e abbondanza: la Pace offre il seno a un fanciullo, un fauno adocchia beatamente la frutta sgargiante, le Menadi danzano fra ori e tesori, il leopardo gioca pacifico come un grosso gattone. A destra, tre fanciulli con sguardi ansiosi fuggono dall’orrore della guerra verso il rifugio della pace, mentre un genietto li incorona. E’ un quadro di contrasti vivaci e colori molto caldi: Rubens non riesce ad apprezzare le forme “ideali” della bellezza classica, che gli sembrano remote e astratte. I suoi personaggi sono esseri viventi. E poiché a quel tempo la snellezza non era di moda nelle Fiandre, viene spesso rimproverato di dipingere troppe “donne grasse”. Ma è proprio il gusto della vita esuberante e chiassosa a salvare Rubens dal pericolo del mero virtuosismo. A fare delle sue pitture non delle semplici decorazioni barocche per le sale dei ricchi, ma capolavori capaci di conservare la loro vitalità anche nell’atmosfera gelida dei musei.
Il giardino dell'amore - 1630