Le origini
Pietro Berrettini nasce a Cortona nel 1597 e giunge a Roma nel 1612 con il suo maestro, il Fiorentino Andrea Commodi.
Qui la sua cultura pittorica toscana si alimenta con lo studio dell'antichità classica, di Raffaello, di Michelangelo e l'interesse per la nuova pittura di Simon Vouet e di Rubens, all'epoca punti di riferimento per gli artisti nell'Urbe. Già nei primissimi anni venti raggiunge una maturità artistica favorita dal talento e dal costante studio, che gli permette di ricevere committenze di alto livello. Tra i suoi primi mecenati figurano l'erudito Cassiano Dal Pozzo, già mentore di Borromini, e la famiglia toscana Sacchetti, per la quale affresca Villa Sacchetti (oggi Chigi) a Castelfusano, nei pressi di Ostia.
Nel 1626 esegue l'Adorazione dei pastori per la cappella della famiglia Orsini in San Salvatore in Lauro e "da questo quadro nacque la sua buona fortuna" , come ricorda il suo biografo Passeri.
Al servizio dei Barberini
Gli affreschi per la chiesa di Santa Bibiana sono la prima commissione di prestigio che Pietro esegue per i Barberini; l'incarico si inserisce in un progetto voluto dal papa Urbano VIII di ricostruire l'edificio a seguito del ritrovamento del corpo della santa. Siamo nel 1624 e del progetto architettonico si occuperà un giovanissimo Bernini, agli esordi della sua carriera: questa è un'occasione per stabilire tra i due artisti un contatto proficuo e duraturo.
Pietro da Cortona lavora al progetto due anni, affrescando la parte sinistra della navata centrale con alcuni episodi di vita della santa.
Per i Barberini Pietro esplorerà anche il suo talento di scenografo "dell'effimero", progettando apparati e macchine sceniche per spettacoli pubblici e privati celebrativi e teatrali. Per fare solo un esempio, nel 1632 realizza le scene per il dramma Sant'Alessio di Stefano Landi che inaugura il teatro di palazzo Barberini, occasione dalla quale scaturiscono anche due dipinti con sant'Alessio morente, uno per Anna Colonna, moglie di Taddeo Barberini, e uno per il Granduca di Toscana.
Nel 1632 lavora alla cappella di palazzo Berberini eseguendo la Crocifissione, mentre la restante decorazione spetta ai suoi collaboratori. Proprio nello stesso anno cade la committenza che segna il culmine dell'attività di Pietro per Urbano VIII e un "punto di svolta" epocale nella decorazione e nella pittura illusiva di tutto il barocco: la decorazione della volta del grande salone di famiglia con il trionfo della Divina Provvidenza, con il quale Pietro chiude il percorso iniziato da Annibale Carracci sulla volta del salone di Palazzo Farnese e diventa a sua volta paradigma imprescindibile.
Il progetto iconografico è tratto da un poema di Francesco Bracciolini, poeta di corte e membro del cenacolo culturale di Urbano VIII: lo scritto celebra l'elezione al soglio pontificio di Maffeo Barberini per volontà divina glorificando il suo potere, quello della sua famiglia e, in parallelo, quello della Chiesa tutta.
Pietro sceglie per "raccontare" il poema di Bracciolini un complesso coacervo di elementi allegorici, mitologici e figurativi e sviluppa le moderne concezioni spaziali secentesche e la poetica barocca dello stupore e del coinvolgimento emotivo attraverso il dinamismo delle scene e delle figure, il virtuosisimo degli scorci, la forza dei colori e la soluzione compositiva. Questa unisce un' architettura dipinta a finto stucco, mascheroni, elementi floreali, conchiglie, ghirlande e nudi maschili che le animano, con uno sfondato di cielo aperto che "passa dietro" la divisione architettonica, lasciando quindi intatta la sensazione di contiuità dello spazio aereo.
L'effetto finale è strabliante e il punto di vista ottimale di visione è concepito in funzione del visitatore che accede dal grande scalone, progettato da Bernini, testimoniando ancora un volta che il fine dell'arte barocca è quello di creare un senso di stupore continuo e crescente che mette sempre al centro lo spettatore e lo "chiama in causa" direttamente, coinvolgendolo e rendendolo parte attiva di una "scena viva" in cui si fondono architettura, pittura, scultura, decorazione, ottica e scienza. Un grande, infinito spettacolo che è concepito per l'uomo e intorno all'uomo e che torna in scena ogni volta ugualmente magnifico per ogni "spettatore" che compia quel percorso, fosse egli un membro della famiglia Barberini nella Roma del '600 o un turista dei nostri giorni.
L'architettura e i Pamphilj
A Firenze, nel 1637-47, decorò con stucchi e ori la stanza della stufa e l'apparatmento di parata di Palazzo Pitti, dipingendovi scene mitologiche.
Tornato a Roma, Pietro esercita il suo talento anche come architetto, apportando innovazioni significative soprattutto nelle cupole e nll'articolazione degli spazi. Ridisegna completamente la pianta, l'assetto e la facciata della chiesa dei Santi Martina e Luca, su richiesta di Urbano VIII e Francesco Barberini in seguito al ritrovamento del corpo della santa. Per segnalare la presenza della chiesa come luogo di culto all'interno di quello che già all'epoca era una zona con un tessuto urbano molto fitto e articolto, Pietro, attua un'espediente innvoativo: eleva la cupola molto più in altezza che in larghezza e per compensare la sproporzione, crea grandi volute per raccordare in modo armonico calotta e tamburo. Una soluzione cinquecentesca ma qui reinterpretata alla luce dello spirito barocco e controriformista.
Tra il 1651 e il 1654 lavora alla decorazione di Palazzo Pamphilj in piazza Venezia, su richiesta del nuovo papa Innocenzo X : anche in questo caso, come per i Barberini, il ciclo ha la funzione di celebrare e di esaltare la famiglia raccontando episodi della vita di Enea, personaggio dal quale i Pamphilj vantano la discendenza.
Due fattori impongono scelte formali molto diverse da quelle attuate a Palazzo Barberini: da un lato la volontà di Innocenzo X di celebrare il prestigio e il ruolo morale della famiglia, che contrariamente ai Barberini poteva vantare nobili origini, e la politica di equità e di giustizia inaugurata dal suo pontificato; dall'atro lato il diverso spazio fisico in cui il pittore deve intervenire.
La galleria è infatti stretta e lunga, e si configura come luogo di passaggio e di collegamento tra vari ambienti del palazzo, non come un ambiente di rappresentanza. Ne deriva l'adozione di soluzioni più tradizionali, con le sette scene separate da una cornice dipinta color oro e decorata da fregi vegetali, cartelle, nudi. Il cielo azzurro unifica le scene, che invece sono risolte all'interno della cornice, quindi con andamento meno mosso e sorprendente rispetto alla volta Barberini.
Non si provoca più uno sconvolgimento dei sensi ma un coinvolgimento della mente, che legge le vicende di Enea analizzandole con calma. Nonostante il carattere più "meditativo" e intellettuale di questo lavoro, Pietro traduce i movimenti e i dettagli narrativi con il vigore, la teatralità e l'enfasi che gli sono proprie, proseguendo stilisticamente ciò che aveva iniziato nelle sale dei Pianeti di Palazzo Pitti.
Eseguì tre cappelle in San Pietro con la tecnica del mosaico e si dimostrò anche un buon pittore "da cavalletto", realizzando tele di ottima qualità come la Madonna con bambino e santi.
Per il suo legame con la committenza romana non potè mai accettare gli inviti di Filippo IV di Spagna e di Luigi XIV, che lo avrebbero portato a rimanere lontano da Roma troppo tempo, ma lavorò lungo tutto lo stivale, direttamente o tramite i numerosi allievi della sua bottega.
Morì a Roma nel 1669.