Parallelamente allo sviluppo della commedeja pe' mmusica l'espulsione del comico dall'opera seria portò alla formazione di un'altra realtà teatrale indipendente dal dramma, ma ancora fortemente legata all'estetica delle vecchie scene buffe: l'intermezzo.
Un primo segnale di sviluppo in questa direzione lo si può rintracciare a Venezia nella stampa a parte del testo delle scene buffe, sintomo questo di una ritrovata identità comica che cerca di rendersi indipendente dall'opera seria fin dall'ultimo decennio del XVII secolo. Questo primo ed essenziale impulso lo si deve principalmente al sodalizio artistico stretto fra Giovanni Battista Cavana, elogiato interprete di scene comiche, e il librettista Pietro Pariati, i quali raccolsero un discreto numero di scene buffe trasformandole in piccole operine intitolate col nome dei protagonisti. Il successo di tale iniziativa fu tale che già nei primissimi anni del Settecento molti compositori si dedicarono alla composizione di "operine" leggere sviluppate in un paio di scene contenenti qualche arietta di semplice scrittura e concluse da un breve duetto.
Nacquero così gli intermezzi, brevi momenti comici da rappresentarsi tra un atto e l’altro dell'opera seria. Da Venezia l'intermezzo si espanse presto in tutta la penisola approdando a Napoli dove, unitamente al successo già riscosso dalla commedia per musica in dialetto, suggellò la definitiva rivincita dell'opera comica su quella seria. Dall'incontro fra l'intermezzo veneziano e la commedia napoletana nacque quello straordinario movimento culturale che formò le due “scuole” più importanti del secolo, quella Veneziana e quella Napoletana. Da questo importante sviluppo emersero musicisti come Giovanni Battista Pergolesi che nel 1733 unirà le diverse esperienze producendosi nel capolavoro assoluto del genere: La serva padrona.
Dalla Serva Padrona di Giambattista Pergolesi, Stizzoso mio stizzoso
Sul trascinante successo dell’intermezzo, che si conquistò sempre più spazio fino a raggiungere le dimensioni di “piccola opera in musica”, si sviluppò la farsa, genere che indirizzò con successo la critica pungente dei suoi libretti verso mondo paludato dell’opera seria. Un esempio chiarificatore in questo senso può essere indicato ne La Dirindina di Domenico Scarlatti (1685-1757) rappresentata con grandissimo successo a Lucca nel 1715.
Inizialmente la struttura musicale degli intermezzi, così come quella delle farse, si presentava piuttosto semplice, basata su una costante ricerca di adesione fra testo e musica, senza che quest’ultima prendesse mai il sopravvento sul senso del libretto come accadeva invece nell’opera seria. Mancava un’introduzione strumentale e le semplici ariette erano separate solo da brevi recitativi secchi, anche se non mancano esempi con recitativi accompagnati, spesso riservati al momento culminante della vicenda. Ben presto però, con il veloce svilupparsi del genere e la rappresentazione dei pretenziosi lavori di Giambattista Pergolesi, Domenico Scarlatti e Niccolò Jommelli, la struttura dell’intermezzo si sviluppa arrivando a comprendere arie vere e proprie, duetti e terzetti seguiti da complicate scene d’assieme. Allo strumentale, fino ad ora composto solo da pochi archi, si uniscono gli strumenti a fiato e i recitativi vengono accompagnati al basso continuo.
Le vicende vissute dai personaggi sono ispirate al quotidiano e si riferiscono a temi fissi quali finti processi, matrimoni segreti, militari ubriachi, malattie curiose di improbabile origine esotica o buffe incomprensioni fra stranieri. Il loro testo, che inizialmente poteva comunque contare su una certa raffinatezza d'espressione ereditata dall'opera seria, si infarcisce nel tempo di volgarità e doppi sensi avvicinandosi sempre di più ai modi d’espressione del volgo. La familiarità dell'intermezzo portò dunque a una volgarizzazione dell'opera e di conseguenza dei suoi esecutori. I primi a doversi adattare a questa nuova veste del teatro musicale furono le voci, arricchite nella loro compagine dalla presenza di quelle femminili, ridottissima se non del tutto assente nell'opera seria. I nuovi artisti dell'intermezzo e della farsa dovettero quindi lavorare molto sulle proprie doti attoriali poiché la sola voce non bastava più ad attirare il pubblico nelle sale. Ai cantanti della nuova generazione si chiede soprattutto agilità fisica, più che vocale, e un innato senso del teatro.
Dopo questa prima fase di grande sviluppo l'intermezzo si trova costretto a cedere il passo ad una sempre crescente richiesta di soggetti più complicati, magari sviluppati in più atti e su vicende molto intricate, quindi non più rappresentabili tra un atto e l'altro di un dramma. Il pubblico e gli impresari chiedono ai compositori vere e proprie opere su soggetto comico, lavori che non tarderanno ad arrivare a partire dagli anni Quaranta con le produzioni di Baldassarre Galuppi, Niccolò Piccinni, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa e più tardi di Pasquale Anfossi.
Le finte contesse, intermezzo a quattro voci di Giovanni Paisiello: aria di Lauretta Zitto lì, non più parole
Tuttavia sarebbe errato pensare a un repentino declino dell’intermezzo che sopravviverà fino agli ultimi anni del Settecento come genere di piacevole ed elegante intrattenimento. Tra i capolavori "napoletani" di fine secolo si ricordano i riuscitissimi La serva padrona (1781), Le finte contesse (1776) di Giovanni Paisiello e I due baroni (XXX) di Domenico Cimarosa.