"Con mia grande sorpresa vidi che stavano demolendo una chiesa per far posto ad un teatro."
Thomas Jones
Dal Salone Margherita al Regio Ducal Teatro
A Milano, all'interno del cortile di Palazzo Reale (per chi osserva la facciata del Duomo, sulla destra) esisteva fin dal 1598 un teatro chiamato Salone Margherita, in onore di Margherita d'Austria moglie di Filippo III di Spagna che regnava sulla Lombardia. Sia pure attraverso modifiche e incendi, il Salone Margherita ebbe lunga vita, almeno fino al 5 gennaio 1708, anno in cui subì un incendio che lo distrusse totalmente. Come era allora consuetudine, fu costruito subito un nuovo teatro, su progetto di Gerolamo Quadrio, che già il 21 giugno di quello stesso anno riprendeva l'attività. Era però un teatro molto piccolo e i milanesi ottennero dalle autorità austriache succedute a quelle spagnole il permesso di costruire, in parte a proprie spese, un nuovo teatro, sempre nello stesso luogo, su progetto questa volta di Gian Domenico Barbieri, allievo dei Bibiena.
Così il Regio Ducal Teatro iniziò la sua attività il 26 dicembre del 1717. Con cinque ordini di palchi e un monumentale busto dell'imperatore Carlo VI al suo ingresso, era ritenuto uno dei più belli e maestosi d'Italia.
L'inaugurazione del Teatro Ducale e i concerti pubblici al Castello Sforzesco (1749) furono i due avvenimenti più significativi per l'organizzazione musicale a Milano, nel Settecento. Il Teatro inaugurato con il "Costantino" di Gasparini, ebbe funzione di guida anche in campo strumentale poichè vantava una delle maggiori orchestre europee con un organico stabile di cinquanta musicisti e vide le prime rappresentazioni di opere di Porpora, Albinoni, Gluck, Paisiello, e soprattutto delle prime opere serie del giovanissimo Mozart, senza dimenticare la collaborazione degli scenografi Galliari e la partecipazione di cantanti celebri come Gasparo Pacchiarotti.
I concerti del Castello, affidati ad un'orchestra altrettanto numerosa guidata dal Sammartini, proponevano tre programmi sinfonici alla settimana nei mesi estivi. La rimanente attività strumentale era concentrata nelle case nobiliari, attorno alle numerose cappelle (di Santa Maria della Scala, di San Fedele e di Sant'Ambrogio le più rinomate) e attraverso l'attività delle accademie, tra cui l'Bologna e l'Accademia filarmonica costituita nel 1758 con l'impegno di fornire al complesso orchestrale aggregato Sonate e Ouverture. Sammartini era un esponente dell'Accademia e si capisce come da questo e altri gruppi simili sia venuta la maggiore spinta verso la musica sinfonica.
Il Regio Ducal Teatro va in fiamme
Come tutti i teatri che l'avevano preceduto, anche il Ducale era costruito in legno, per la difficoltà di innalzare soffitti a grande arcata in muratura senza colonne di sostegno, ed era particolarmente esposto agli incendi, in quanto l'illuminazione era affidata alla fiamma libera delle candele; esisteva anche una pericolosa tradizione: utilizzare la platea, che non aveva posti fissi a sedere, per le grandi feste di carnevale. All'inizio del 1776, appena concluse le recite de La Merope di Tommaso Traetta, il teatro aveva aperto la platea per il ballo del Sabato grasso (24 febbraio) che si era svolto regolarmente. Forse non erano state spente accuratamente tutte le candele, forse qualcuno aveva agito per dolo (secondo quanto denunciato da una lettera anonima), o forse era colpa di un funesto anno bisestile, fatto sta che nel primo pomeriggio della domenica di Pasqua le fiamme divorarono in poche ore il teatro Ducale del quale restarono soltanto le rovine fumanti.
Trascorsi alcuni giorni, la nobiltà milanese, riunita in assemblea, già invocava la costruzione di un nuovo teatro, impegnandosi a sostenere tutte le spese, in cambio della proprietà dei palchi. L'accorta amministrazione austriaca, di fronte a tanta disponibilità, si mostrò particolarmente sollecita, e il 15 luglio Maria Teresa firmò il decreto addirittura per due teatri, uno grande e uno piccolo, entrambi affidati ai progetti di Giuseppe Piermarini, architetto di corte, decidendo inoltre per una costruzione in muratura che avrebbe dovuto sfidare la minaccia sempre incombente di incendi. Poichè una simile costruzione avrebbe richiesto del tempo, l'architetto disegnò in pochi giorni un teatro provvisorio che sorse presso la chiesa di San Giovanni in Conca, con il nome di Teatro Interinale; era in legno, con il tetto in rame, disponeva di 120 palchi, e già il 13 settembre del 1776 entrò in funzione.
Intanto era stato individuato il luogo dove sarebbe sorto il nuovo grande teatro, non più all'interno di un cortile, ma in uno spazio aperto, nella vicina contrada del Giardino, sul luogo di una vecchia chiesa ormai diroccata del 1381, Santa Maria della Scala (così chiamata perchè fondata da Beatrice Regina della Scala, moglie di Bernabò Visconti, signore di Milano).
Giulio Pompeo Litta "quale primo rappresentante del Corpo generale dei proprietari di Palchi nel Regio Ducal Teatro, acquistò dal Demanio il sito della Scala e curò la realizzazione del progetto del Piermarini".
I lavori di demolizione iniziarono il 5 agosto del 1776, e proseguirono solleciti l'anno successivo, mentre i milanesi continuarono ad ascoltare opere nel Teatro Interinale. Nel frattempo proseguivano i lavori per il teatro più piccolo, la Canobbiana (che iniziò la sua attività il 21 agosto del 1779), tuttora esistente ma totalmente trasformato nel 1894 con il nome di Teatro Lirico.
La Scala, il sacro tempio della musica e del melodramma
"La Scala è il primo teatro del mondo, perchè è quello che da il massimo godimento musicale"
Stendhal
I lavori per la costruzione del Teatro Grande, terminarono nella primavera del 1778, e già il 28 maggio si effettuarono le prime prove di acustica. L'inaugurazione di quello che dapprima era chiamato Nuovo Regio Ducal Teatro, e avrà poi il nome di Teatro alla Scala, ebbe luogo il 3 agosto 1778, con l'Europa riconosciuta, opera di Antonio Salieri composta su libretto dell'abate Mattia Verazi e con Troia distrutta di Antonio Morellari, dedicate a Ferdinando d'Asburgo Lorena, figlio di Maria Teresa e duca di Milano e arciduca d'Austria, e a sua moglie Maria Beatrice Ricciarda d'Este, presenti con il loro seguito nel palco reale. L'arciduca, inguaribilmente mondano, e amante del teatro era stato in un certo senso il primo a caldeggiare, assieme ai nobili milanesi, la ricostruzione del teatro, convincendo la madre, Maria Teresa, estremamente sparagnina, a finanziare i lavori di costruzione, mettendo a carico dello stato il tetto e gli esterni.
Vedeva in questo modo la luce, quello che era destinato a diventare e a restare fino ai giorni nostri, nella considerazione di tutto il mondo, il sacro tempio della lirica e del melodramma.
L'aspetto artistico
L'orchestra, dapprima formata da circa settanta strumentisti, era guidata dal cosiddetto "primo violino e capo d'orchestra", che aveva il compito, detto un pò brutalmente, di "battere il tempo". Il primo violino della Scala fu Luca Roscio, coadiuvato da Giuseppe Perruccone per la musica dei balli.
Molto più importante, per la preparazione dello spettacolo era il "maestro di cembalo", quasi sempre un compositore che istruiva i cantanti, dava indicazioni agli scenografi, seguiva le prove, provvedeva a coordinare voci e strumenti. Il primo maestro al cembalo fu il noto compositore Giovanni Battista Lampugnani.
Un aspetto particolarmente rilevante dello spettacolo riguardava la scenografia, curata dai fratelli Galliari e da Pietro Gonzaga; gli scenografi della Scala ricorrevano limitatamente alle scene convenzionali, adatte a diverse opere, ma tendevano a creare ogni volta degli ambienti studiati in funzione dell'effetto generale dello spettacolo.
Scriveva Pietro Verri al fratello Alessandro: " La pompa dei vestiti è somma, le comparse ti popolano il palco di più di cento figure e fanno il loro dovere...gli occhi sono sempre occupati....tutto è sistemato...." e poi "mentre te ne stai aspettando quando si dia principio, ascoltati un tuono, poi uno scoppio di fulmine, e questo è il segnale perchè l'orchestra cominci l'ouverture, al momento s'alza il sipario, vedi un mare in burrasca, fulmini, piante sulla riva scosse dal vento, navi che vanno naufragando, e la sinfonia imita la pioggia, il vento, il muggito delle onde, le grida dei naufraganti, poco a poco si calma, si rasserena il cielo, scendono gli attori da una nave e il coro e alcune voci sole cominciano l'azione".
L'amministrazione e le stagioni teatrali
Di grande importanza era l'aspetto amministrativo, affidato dapprima a una società formata da un gruppo di palchettisti, il conte Carlo Ercole di Castelbarco, il marchese Giacomo Fagnani, il marchese Bartolomeo Calderara, il principe Menafoglio di Rocca Sinibalda. In seguito la titolarità dell'impresa resta affidata ai più bei nomi della nobiltà milanese, fra cui il conte Angelo della Somaglia e il duca Carlo Visconti di Modrone.
La programmazione si organizzava in una serie di stagioni ben caratterizzate: l'attività iniziava il giorno di Santo Stefano, 26 dicembre (il 7 dicembre solo nel 1940, e poi stabilmente dal 1952), con la Stagione di Carnevale, destinata alle opere serie che, quasi sempre in tre o quattro atti, ospitavano negli intervalli due o tre balli, che molto spesso non avevano alcuna analogia con il soggetto dell'opera. La stagione si concludeva alla vigilia della settimana di carnevale, quando il teatro si apriva ai balli e al veglione del Sabato grasso.
Terminata la Quaresima, potevano svolgersi alcune altre brevi stagioni, secondo la richiesta del pubblico e la disponibilità dell'impresario, ed erano tutte dedicate all'opera buffa e alla commedia, con o senza inserimenti di balli. Queste stagioni, che duravano poco più di un mese, prendevano il nome di Primavera, Estate, Autunno.
La facciata e gli interni
La facciata della Scala, che nel corso degli anni ha subito diverse modifiche, si apriva allora su una strada, la corsia del Giardino (oggi via Manzoni), e questo giustificava la presenza del portico centrale sporgente, quasi un invito al passaggio e alla fermata delle carrozze. Il sobrio stile neoclassico del Piermarini, arricchito nel timpano dal bassorilievo con il carro d'Apollo trainato da quattro cavalli, contrastava con la ricchezza dell'interno: cinque file di palchi, le prime di trentasei ciascuna per lasciare spazio al palco centrale, le due superiori di trentanove palchi, più un'altra per il loggione, e inoltre otto palchi di proscenio. Il palcoscenico era molto sporgente verso la platea, e l'orchestra trovava posto su un piano lievemente inclinato al di qua del proscenio. Il primo sipario fu dipinto da Domenico Riccardo su un soggetto suggerito daParini, raffigurante le Muse del Parnaso. La platea, all'inizio destinata alle classi meno abbienti, poteva contenere più di seicento persone, con il pavimento di legno e soltanto un numero molto limitato di sedie fisse, il che permetteva un ampio spazio disponibile per i balli di carnevale, quando veniva tolto anche il piano inclinato dell'orchestra.
Arthur Young, quando vi entrò nel 1789, non ebbe dubbi: "Rimasi stupito di trovare il teatro per tre quarti pieno, i palchi s'affittano fino a quaranta luigi d'oro; come mai una città con poco commercio e poche manifatture può spendere così allegramente? Tutto si deve all'aratro". " E' immensa, non credo ne esista una più grande" ebbe a dire Elisabeth Vigeè le Brun.
L'illuminazione
All'illuminazione provvedevano le lampade ad olio e le candele che naturalmente non illuminavano nulla ma al contrario appestavano l'ambiente con il loro fumo; per farlo uscire c'erano dei buchi nel tetto che in inverno lasciavano entrare il freddo trasformando il teatro in una ghiacciaia. Nel ridotto c'era un'unica stufa, sulla quale, negli intervalli, tutti si avventavano.
L'illuminazione creava non pochi problemi e Pietro Verri, scrivendo a Roma al fratello Alessandro, osservava che "il teatro non riesce bene illuminato: si scusa sulla distanza delle scene, attesa la vastità; ma questo non sarà di alcun peso, sin tanto che non si tenti di porre dei riflettori ai lumi e non si scelga meglio la maniera per illuminare". E infatti nel 1787 si provvederà proprio in questo senso, e alle nuove lampade a olio verrà applicato un bulbo di vetro, sia alle 996 appese variamente al soffitto.
La Scala, il salotto di Milano
Malgrado queste deficienze, la Scala divenne subito il Foro, la vetrina e il salotto della mondanità milanese. A darle il tono erano naturalmente i palchi, di cui erano titolari le famiglie nobili. Esteriormente, erano tutti uguali ma ognuno recava sulla balaustra lo stemma gentilizio, e la decorazione interna era lasciata al gusto e al capriccio dell'inquilino. Questi vi si comportava come in un suo appartamento privato organizzandovi cene, partite a carte, e anche altre cose meno confessabili. A proteggerne la privatezza c'era una tenda, che di solito veniva aperta solo al momento di un pezzo musicale topico.
La Scala non era solo spettacolo ma anche gioco: il ridotto, che si apre verso la terrazza sovrastante il portico, era destinato al gioco d'azzardo, che fin dal 1788 era severamente proibito. Il settore più pittoresco era la platea, gremita di "sedie volanti" e di canapè a due o a tre posti, e capace di circa 700 persone. Una grossa aliquota era riservata alle cosiddette Cappe nere, i servitori dei palchettisti, pronti ad accorrere ad un cenno del loro padrone; il loro ingresso era tacitamente gratuito, una sorta di diritto acquisito, e nessun impresario riuscì mai a far pagare loro il biglietto anche perchè fra di loro c'erano i servitori di personalità del governo.
I cantanti spesso si comportavano come il pubblico, fingendo di cantare muovendo la bocca; risparmiavano in questo modo la voce per la cavatina, quando le tende dei palchi si aprivano e per un attimo il brusio si quietava. Altrimenti fiutavano tabacco, discorrevano con gli spettatori, litigavano con l'orchestra; erano talmente capricciosi e bizzosi che gli impresari avevano fatto costruire sotto il palcoscenico un camerino-prigione per i più agitati.
Quest'aria da fiera e bazar sconcertava gli stranieri. Scrive il De Brosses a proposito dei teatri italiani: " La platea è pazza o ubriaca, o l'una e l'altra cosa insieme: nemmeno al mercato si fa tanto chiasso. Non basta che ognuno faccia conversazione gridando a perdifiato e saluti con urli i cantanti quando si presentano e mentre cantano, senza ascoltarli. No, i signori della platea esprimono la loro ammirazione picchiando i loro bastoni sui banchi. E a questo segnale, gli spettatori del loggione lanciano milioni di fogli stampati con sonetti di lode del virtuoso o della virtuosa". Il baccano era tale che spesso i palchettisti con le tendine del palco abbassate non si accorgevano della fine dello spettacolo.
Per la Milano del Settecento il palco della Scala fu quello che per Parigi era il salotto: il punto di ritrovo tra mondanità e cultura, tra politici e intellettuali. Qui, tra un intermezzo e un do di petto, il Parini dava in anteprima qualche saggio dei suoi versi, qui i Verri e il Beccaria, mettevano a punto gli articoli per il Caffè, qui si discutevano le riforme, si pettegolava, scoppiavano litigi e si preparavano duelli. Ecco perchè Milano è ancora così visceralmente attaccata al suo teatro: esso è parte della sua storia.