“...farmachi insigni possedea, che in dono ebbe da Polidamma, dalla moglie di Tonc nell'Egitto ove possenti succhi diversi la feconda terra produce, quai salubri e quai mortali”.
Omero – Iliade
Delle tre professioni mediche, quella del farmacista si occupa di studiare gli effetti sull'organismo umano di vari tipi di sostanze e di imparare a miscelarle; le origini della farmacia sono certamente antichissime: anche l'uomo della pietra conosceva l'azione medicamentosa di alcuni vegetali.
All'inizio della storia della medicina era tuttavia difficile distinguere tra medico e farmacista perché chi curava preparava di persona i farmaci da somministrare al paziente. Nel Medioevo le due figure iniziarono a differenziarsi e comparve lo speziale, che si occupava di preparare le medicine prescritte dal medico (quelli che oggi si chiamano preparati galenici).
In genere lo speziale aveva una bottega dove vendeva non solo erbe medicinali e spezie ma anche profumi, essenze, candele, carta, inchiostro e colori usati dai pittori.
La posizione intermedia dei farmacisti, tra medico e paziente, richiedeva grande professionalità, tanto che già nel Trecento fu garantita loro l'appartenenza alla corporazione dei medici e speziali. Oggi possiamo solo immaginare come poteva presentarsi la bottega di uno speziale: semplici diversi, erbe, sementi, radici, acque stilate, spezie aromatiche, sciroppi, olii, unguenti, pillole, spugne imbevute di sostanze anestetiche.
A lungo confusi con i droghieri e con i ceraioli, gli speziali lottarono a lungo per i loro privilegi e la loro indipendenza. Per sei secoli editti reali, bolle pontificie e altre patenti dettero loro statuti che ne regolamentavano la formazione tecnica e l'esercizio delle funzioni. Il loro ruolo scomparve quando sorse la figura del farmacista; tuttavia la corporazione parigina degli speziali durò fino al 1792.
Fino al XVII secolo però non si può parlare di scienza farmaceutica; la pratica medica del Seicento non riuscì a far propri i sistemi iatromeccanici, per cui ci fu un ritorno ad Ippocrate e ad una medicina empirica fatta di rimedi semplici, unguenti, purganti, salassi, ferri roventi nonostante la farmacologia avesse acquisito l'utilizzo di importanti medicamenti come la china e l'ipecacuana. Le droghe venivano usate senza che si conoscesse il loro meccanismo d'azione; trionfavano gli antidoti, la teriaca e gli elettuari; si attribuivano alle spezie innumerevoli proprietà medicinali (cataplasmi di pepe come revulsivo, cura dei dolori gastrici con lo zenzero e la noce moscata, uso della cannella come tonico, ecc).
Si diffidava dei primi chimici, considerati imbroglioni e ciarlatani. La farmacologia aveva in effetti registrato l'introduzione di varie sostanze chimiche ad opera di Paracelso ma la sua evoluzione fu bloccata dalla dottrina delle segnature.
La teoria delle segnature
Alla fine del Cinquecento un allievo di Paracelso, il chimico Osvaldo Crollio, propose la teoria delle segnature secondo la quale la forma, il colore e il gusto di una pianta sarebbero stati segni analogici posti dalla natura per farne comprendere le virtù terapeutiche.
Ad esempio la peonia provvista di un pistillo a forma di cervello, veniva utilizzata per le malattie cerebrali, l'iperico che ha foglie bucherellate curava ferite provocate da corpi appuntiti; la salvia la cui foglia somiglia vagamente alla lingua, soprattutto per la sua rugosità, fu esaltata quale rimedio nel trattamento delle malattie della lingua e del cavo oro-faringeo; l'asparago da sempre considerato un simbolo fallico era utilizzato per curare impotenza e come afrodisiaco ecc.
I giardini dei semplici
Nel ‘500 con il fiorire della medicina popolare si svilupparono gli Orti Botanici nei quali si raccoglievano le erbe medicinali utili alla farmacopea. Nel latino medievale si indicava come “medicamentum simplex” un'erba che aveva proprietà medicamentose, e anche la droga, nel senso letterale della parola, che da essa se ne ricavava. Da ciò è facile dedurre il significato di “orto dei semplici” come il luogo nel quale venivano coltivate essenze con proprietà medicinali; queste, più tardi, vennero coltivate negli Orti Botanici che cominciarono a fiorire in Italia, con priorità assoluta nel mondo, nel XVI secolo.
La “lettura dei semplici” era una materia che veniva insegnata nelle facoltà di medicina di tutte le Università italiane, affinché i medici fossero in grado di conoscere i mezzi dei quali potevano disporre nelle terapie dei vari malanni; in un primo tempo essa costituì uno dei settori della “medicina pratica” che riguardava tutti i medicamenti, sia di origine minerale che animale o vegetale, ma nel 1513 a Roma e poi a Padova, a Bologna e a Pisa fu staccata da queste e costituita in cattedra distinta. La “lettura dei semplici” comprendeva, oltre alla conoscenza delle piante, anche le proprietà farmacologiche ad esse connesse. Nel 1561, a Padova, fu istituita l'ostensio simplicium in horto o “ostensione dei semplici” che era la dimostrazione pratica, l'esercitazione sul materiale vegetale che, appunto nell'orto dei semplici, veniva coltivato. Fino alla fine del XVIII secolo gli orti botanici furono utilizzati prevalentemente per studi sopra le piante medicinali.
Gli speziali conventuali
A partire dal Medioevo le spezierie conventuali svolsero un ruolo indiscusso per il vasto consenso che riscuotevano da parte del pubblico e per alcune preparazioni medicamentose che producevano e vendevano ad un prezzo estremamente contenuto.
Anche se non ufficialmente le spezierie conventuali erano aperte al pubblico; molte di queste erano dotate di ampi locali, attrezzature idonee e personale decisamente clalificato anche se non avevano frequentato nessuna scuola di farmacia e non possedevano alcun titolo professionale che li abilitava ad esercitare l'Arte della Spezieria; la loro professionalità veniva trasmessa da padre in padre come ebbe a dire un vecchio frate di un convento romano. Alcune di queste farmacie sono ancora oggi in attività anche se notevolmente mutate nella loro struttura originaria.
Il rapporto tra queste istituzioni e la corporazione degli speziali fu sempre difficile a causa della tendenza delle prime a occuparsi di un campo che non spettava loro. Esse erano preferite a causa del minor prezzo che praticavano nella vendita dei medicamenti. Nonostante tutto le spezierie conventuali erano molto stimate e frequentate anche dalla nobiltà e dall'alto clero, per alcune loro particolari preparazioni come ad esempio l'Acqua Melissa Antisterica, la Teriaca, il cerotto giallo di S. Teresa, l'elisir dei carmelitani, le polveri di corteccia di china dei Gesuiti, l'Acqua Antipestilenziale, le compresse della salute, il Balsamo Innocenziano, ecc.
Ricettari barocchi
Verso la fine del XV secolo iniziarono ad essere stampati i primi ricettari. Questi testi, si ricordano in particolare l' Universale Theatro Farmaceutico di Antonio Sgobbis del 1667 e il Teatro Farmaceutico di Giuseppe Donzelli sempre del 1667, portarono una vera e propria rivoluzione. In essi venivano resi omogenei la preparazione e il modo di distribuire un farmaco al paziente. Il tutto veniva reso accessibile ai più tramite un linguaggio più semplice.
Queste due opere furono importantissime per la scienza farmaceutica fino all'Ottocento. Tuttavia passò molto tempo prima che la farmacia popolare lasciasse il posto a quella ufficiale. La bottega di uno speziale viveva di ricette tramandate da generazioni e di pozioni segrete che continuarono ad essere largamente utilizzate anche dai privilegiati.
Un grande passo avanti fu quello di stabilire la scadenza dei farmaci ad opera del medico siciliano Castelli. Quest'ultimo trovò grande opposizione a Roma da parte degli speziali che su suo ordine erano stati costretti ad eliminare dalle botteghe parecchi farmaci scaduti.
Le pozioni contro il dolore
Il primo a sintetizzare l'etere, mischiando acido solforico con alcol, era stato il tedesco Valerius Cordus, che nel 1564 lo aveva battezzato “vetriolo dolce”.
Tuttavia per molto tempo ancora le pozioni contro il dolore si basarono su antiche ricette e metodi che sembravano usciti da un laboratorio di streghe.
Giovanni Battista Della Porta, nel suo trattato Magiae naturalis, dà precise istruzioni per preparare “mele” soporifere (pomum somnificum): “Prendi una manciata di oppio, mandragora, succo di cicuta, semi di giusquiamo, feccia di vino, raccogli in un masso nei mortai, ne prendi tanto quanto ne può contenere un pugno e annusandolo più volte strofini gli occhi e li chiudi nel sonno”.
I viaggi in America aggiunsero nuovi ingredienti ai più diffusi intrugli soporiferi. Per esempio le foglie di coca, che gli indios usavano per non avvertire la fatica e per rendere insensibili lingua e labbra, oppure la Strychnos toxifera (una liana amazzonica) descritta dall'esploratore inglese Walter Raleigh nel 1595, da cui si estrae il curaro, un miorilassante in grado di paralizzare i muscoli e usato dagli indigeni per avvelenare le frecce.
L'amore per la scienza, indubbiamente chiarificante, un po' alla volta fece diminuire l'importanza terapeutica di alcune droghe, il cui uso andò sempre più scemando d'importanza.
I balsami
Contro le distorsioni e i dolori reumatici si usava il Balsamo nervino o Unguento nervino, composto da una mescolanza di olio di papavero, midollo di bue, burro di noce moscata, olio di girasole e naturalmente olio di rosmarino, al quale venivano aggiunti della canfora e del balsamo di Tolù.
Famoso era il Balsamo Tranquillo, così detto perché l'artefice fu un cappuccino, padre Tranquillo, che lo inventò assieme ad un confratello, padre Rousseau, costituito da ben 18 componenti.
Esisteva anche una mirabolante conserva di fiori di rosmarino, che il Donzelli così descrive nel suo “Teatro farmaceutico”: “Piglia di fiori di rosmarino libbre una, zucchero libbre tre. Si cuoce lo zucchero a cottura di manuschristi e si lascia raffreddare, e poi vi si meschiano li fiori sani, e si fanno cuocere poco, perché così facendo resta il loro colore nativo. Conforta il cerebro humido, giova al cuore e corrobora le membra nervose”.
L'acqua della Regina d'Ungheria
In passato venivano attribuite al rosmarino proprietà medicinali mirabolanti. Una pozione a base di rosmarino è l'Acqua della Regina d'Ungheria, ancora oggi utilizzata come tonico per il viso.
“Prendete l'acqua distillata, quattro volte 30 once , 20 once di fiori di rosmarino, ponete tutto in un vaso ben chiuso, per lo spazio di 50 ore: poi distillate con alambicco a bagnomaria. Prendete una volta alla settimana una dramma di questa pozione con qualche altro liquore o bevanda o anche con la carne. Questo rimedio rinnova le forze, solleva lo spirito, pulisce le midolla, dà nuova lena, restituisce la vista e la conserva per lungo tempo; è eccellente per lo stomaco e il petto”.
Si narra che Luigi XIV guarì, grazie a quest'acqua portentosa, da un reumatismo al braccio e alla spalla. Madame de Sévigné la esaltava dicendo: “Essa è divina; io me ne inebrio ogni giorno. Lo trovo buona contro la tristezza. Ne sono folle, è il sollievo di tutti i dispiaceri”.
L'aceto dei quattro ladri
Altrettanto portentoso fu nel Seicento l'Aceto dei quattro ladri. Fece la sua comparsa durante l'epidemia di e peste che colpì Tolosa fra il 1628 e il 1631. Secondo quanto attestano i registri della città, quattro ladri arrestati in flagrante mentre stavano saccheggiando le case degli appestati furono costretti a confessare, dietro promessa di aver salva la vita, qual era la misteriosa sostanza che preservava dal contagio. Ma appena ne rivelarono la formula furono impiccati.
La ricetta prevedeva, oltre al rosmarino, altre piante che variavano da luogo a luogo. In Germania si usava sciogliere in 300 parti di alcol una parte di olio etereo di lavanda, di menta piperita, di rosmarino, di ginepro e di cannella, e due parti di olio di cedro e di garofano; quindi si aggiungevano 450 parti d'acido acetico diluito in 1200 parti di acqua. Si agitava per alcuni giorni il liquido ottenuto e infine lo si filtrava. Mescolato con acqua veniva adoperato non solo contro la peste, ma anche per lavature della bocca e per affezioni scorbutiche alle gengive; più raramente per uso interno alla dose di 1 o 2 cucchiaini da caffè al giorno col vino, con l'acqua zuccherata e anche come sostanza odorante.
Curarsi nel secolo decimosettimo
I farmaci dell'epoca di distinguevano principalmente in farmaci officinali, preparati dallo speziale nella sua bottega, e in farmaci magistrali, preparati dallo speziale su precisa ordinazione medica.
Ci si curava con poche medicine, qualche erba, molti scongiuri e preghiere; ma soprattutto con l'indifferenza.
Le cure erano a base di erbe medicinali: il rabarbaro del Levante, dalle proprietà non ben precise ma limitatamente dannoso; la sena, sua concorrente tradizionale, dagli effetti più energici; la manna (in realtà infuso di frassino), per i clisteri; la china, contro la febbre, che sarà adottata via via più frequentemente come aperitivo.
La terapia delle gemme disciolte veniva usata abbastanza di rado, e, beninteso, solo per signori e principi, laici o ecclesiastici.
Per il popolo c'era il cavolo, una vera e propria panacea: lo si usava crudo, bollito, filtrato, per fare impacchi, unguenti o acqua da bere.
Per evitare che una ferita si infettasse i medici utilizzavano un preparato di olio bollente da versare sulla ferita. Fu il medico Ambroise Paré che inventò un metodo meno devastante: una miscela di bianco d'uovo, olio di rosa e trementina, e osservò che le ferite erano meno dolenti, si gonfiavano meno ed erano meno infiammate di quelle trattate con l'olio.
Per aiutare la digestione veniva utilizzata un'antica ricetta: la “piperata” a base di droghe orientali e di pepe avente anche la duplice funzione di antinfiammatorio.
“Riposo, caldo e liquori aiutano a far riprendere i pazienti e a calmare gli effetti di un attacco di “angina”. L'oppio preso prima di coricarsi, previene gli attacchi notturni.”
I medici ordinavano alle nobildonne cure in città termali; Voltaire non perdeva occasione per dire che questi soggiorni erano stati inventati per le donne che si annoiavano a casa loro. Note erano in Francia le acque di Vichy, quelle di Bourbon l'Archambault e quelle di Forges.
La chemiatria, preparò la strada ad una farmacia più semplice e più razionale ponendo le basi per lo sviluppo della chimica farmaceutica. Con l'avvento della chimica la farmacia si emancipò respingendo definitivamente le formule usate da secoli.
Medicine e terapie in epoca barocca