Robert Boyle scienziato
Scritto da Stefano Torselli. Pubblicato in scienza e scienziati
Robert Boyle (1627-1691) oggi lo si ricorda principalmente per la legge di Boyle per una data quantità di gas, a una data temperatura, la pressione è inversamente proporzionale al volume". La sua validità di scienziato e uomo secentesco è ampia e la lettura delle sue opere ci fanno scoprire un affascinante mondo di ricerca e una solida personalità scientifica.
Ragione e sperimento
«Il libro della natura è un grande e bell’arazzo che non possiamo vedere tutto in una volta, ma dobbiamo accontentarci di attendere la scoperta della sua bellezza e della sua simmetria a poco a poco». Questo ritrae la versatilità e la tenacia sperimentale con cui Boyle si accostò ai problemi naturali.
Teologia e utilitarismo sono le mete a cui si indirizza la scienza boyliana, una fede che non serve come giustificazione a posteriori del lavoro dello scienziato e un utilitarismo che non è una concessione alla moda puritana. Boyle si muove contro la tradizione culturale della sua epoca nel desiderio di creare una nuova mentalità scientifica, strettamente legata, e dipendente, dalle esigenze della società del tempo. Il suo disgusto per la scuola sono un aspetto della sua noia verso una cultura che rispondeva stancamente ai quesiti del passato. Boyle modella così un ideale alternativo a quello del dotto, il non dotto, cioè il virtuoso, sa di dover sempre imparare. Ma non è facile cambiare repentinamente una mentalità né persuadere un docente togato che la sua cultura è qualitativamente uguale a quella di un minatore che, attraverso la lezione culturale del lavoro quotidiano, conosce concretamente gli aspetti e il comportamento della natura.
Boyle convinto della difficoltà di porre a confronto due mondi così diversi e, rendendosi conto che l’uomo di cultura può imparare dall’artigiano mentre il processo inverso è problematico, sottolinea l’esigenza di una società intermedia, quella dei virtuosi, i quali potevano sintetizzare, nella forma più ampiamente divulgativa, quelle esigenze scientifiche e teologiche che avevano giustificato l’esistenza delle classi dotte.
Un mondo in lenta trasformazione
In quella epoca nelle regioni nordiche appariva chiara la fine dell’aristocrazia terriera e la nascita della borghesia artigianale e commerciale. Tale nascita potrebbe recare la data dell’ Atto di navigazione (1651), quando la società inglese dovette competere col commercio marittimo dell’Olanda, anche se, in realtà, non si trattò di una nascita, ma della lenta evoluzione di un sistema economico. Che in tale fase di rinnovamento economico e sociale la cultura non potesse più limitarsi a un piacevole otium appariva chiaramente a Boyle, che diresse la sua attenzione alla nuova società artigianale e alle sue istanze conoscitive. Ma perché l’artigiano fosse un buon artigiano si doveva curare la sua alfabetizzazione scientifica, mediante l’informazione e la divulgazione, e indurlo a iniziarsi ai segreti della natura.
Il mondo privato dello scienziato
Boyle non amava i viaggi, un lungo viaggio per l’Europa compiuto da ragazzo dovette sembrargli un’esperienza sufficiente. Gli scritti autobiografici sono ricchi di descrizioni di acciacchi; una caduta da cavallo, avvenuta in età giovanile, pare fosse all’origine di una salute sempre malferma. Le descrizioni del viaggio in Europa sono popolate di postiglioni ubriachi, letti scomodi, alloggi mal riscaldati. La sua vista gli dette sempre molte preoccupazioni, la malaria lo tormentava periodicamente: nulla di meglio che vivere tranquillo in un laboratorio domestico. Ma, in tale laboratorio, Boyle cerca le erbe e le gemme della salute, studia le funzioni corporee, la respirazione e la digestione, confeziona lassativi e diaforetici, sonniferi e contravveleni. Anche nelle trattazioni scientifiche più lontane dalla medicina l’idea che qualche sostanza, quale l’antimonio, possa giovare alla salute, fa capolino ma sempre con occhio attento e aperto alle nuove scoperte conscio che la natura sia tutta da scoprire. Ciascun esperimento è un dato curioso, perché non siamo mai certi della sua ripetibilità. Perciò Boyle lo ripete più volte, con sfumature ambientali diverse, al chiuso e all’aperto. La ripetizione, in questo caso, è alla base di un’intuizione probabilistica, di un progressivo accostamento alla verità. E, se la verità scientifica è anche la verità della rivelazione, la conoscenza sperimentale non potrà che procedere per approssimazioni successive. Come potrebbe un solo esperimento essere sufficiente a stabilire una legge? Boyle, a dispetto della tradizione, non formulò alcuna legge. Ma i suoi esperimenti, ripetuti più volte, offrirono al Mariotte una raccolta di dati sufficiente a formularla.
Una ricerca non accademica tra alchimia e scienza
Robert Boyle appartenne a quella cerchia di studiosi che intendevano rifiutare la cultura ufficiale e opporsi all’inquadramento del pensiero e della ricerca, sostituendo alla gerarchia della legge generale e dei casi particolari l’anarchia delle istanze solitarie. Così, quando presentò il trattato Of a Degradation of Gold (1678), Newton diresse una violenta critica a tale iniziativa e, in una lettera all’Oldenburg, gli raccomandava, per il futuro, di far cadere il silenzio sopra simili ricerche, cosa che contribuì a far pubblicare l’opera in forma anonima.
Rifiutando i paradigmi della cultura tradizionale, diveniva implicito anche il rifiuto di quella scienza, che, pur distaccandosi dall’insegnamento aristotelico, ne aveva ereditato le aspirazioni e gli intenti. Il fatto che Newton ricercasse e stabilisse, una legge unica che governava l’universo e che egli volesse indicare l’unità nella diversità dei moti e dei comportamenti dei corpi celesti, non poteva soddisfare la mentalità «curiosa e indagatrice » che caratterizzava il mondo dei virtuosi.
Il mondo dell’alchimia era ancora molto ricco a quel tempo, numerosi erano coloro che studiavano e interpretavano la natura secondo quei metodi dai quali Descartes e Newton intendevano appunto differenziarsi. Anche l’alchimia aveva la sua veste ufficiale e il suo nome prestigioso: la dottrina spagirica e la personalità di Paracelso. Ma il mondo alchimistico al quale si rifà Boyle non è quello dei seguaci di Paracelso, poiché egli è dichiaratamente polemico contro gli Spagirici che, avendo sostituito ai quattro princìpi aristotelici i tre principi dello zolfo, del sale e del mercurio, avevano ricercato nuovamente degli elementi unitari nella complessità inesauribile dell’universo. Per dimostrare la validità della propria intuizione pluralistica, Boyle compie numerosi esperimenti: prende uno zucchino, lo pianta e lo fa innaffiare soltanto con acqua piovana o di sorgente, al fine di evitare che l’acqua sia impura. La pianta cresce in fretta, nonostante la stagione inadatta e Boyle ne desume che l’acqua, per avere il potere di nutrire e di far crescere la pianta, deve essere un elemento composto. La sperimentazione relativa alla composizione dell’acqua e alla sua capacità di nutrire altri corpi è ripetuta frequentemente dal Boyle, nella terra e in fiala, e poiché il risultato lo conduce sempre a negare il carattere semplice dell’acqua, così ritiene di poter concludere che la sua convinzione è in armonia con la tradizione biblica.
Dice Boyle: Non vedo perché si debba immaginare che l’acqua, di cui si parla all’inizio del Genesi come della materia universale, fosse acqua semplice ed elementare. Anche se dovessimo supporre che essa fosse una congerie o ammasso in movimento, costituito di una grande varietà di princìpi ed elementi seminali, e di altri corpuscoli adatti a essere da questi assoggettati e plasmati, poteva sempre essere una sostanza fluida come l’acqua, nel caso che i corpuscoli che la costituiscono fossero stati fatti sufficientemente piccoli dal loro creatore, e messi in effettivo movimento, tale da farli scivolare l’uno contro l’altro. E, come diciamo che il mare è fatto di acqua, nonostante le sostanze saline, terrose e altre... così quel liquido si può ‘enissimo chiamare acqua, perché quello era il corpo più grande allora conosciuto che vi rassomigliasse ».
La trasmutazione che Boyle ritiene di aver operato con il passaggio dall’acqua alla terra e di cui ci riferisce nel The Origine of Forms and Qualities è però solo uno dei tanti esperimenti compiuti per dimostrare il carattere non primario degli elementi aristotelici. Ora, sia nel caso dell’acqua, sia nel caso dell’oro, Boyle mostra di muoversi su un terreno alchimistico e di voler rielaborare quei temi magici che l’esperienza di secoli aveva accumulato. La definizione aristotelica delle qualità, per cui si dice che una cosa è qualis, non sodisfa Boyle: sarebbe come definire la bianchezza come ciò per cui una cosa si dice bianca. È vero che, prescindendo dall’esistenza dell’universo, potremmo attribuire ai corpi soltanto le qualità primarie, mentre le secondarie non sarebbero definibili, ma gli uomini vivono nell’universo e hanno bisogno di conoscerlo, ed è un peccato che essi siano propensi a credere che esista la bianchezza, la cecità e la morte come sostanze, mentre esse non sono che qualità dei corpi. Su tali argomentazioni Boyle si sofferma in diverse opere, servendosi degli esempi più semplici e più aderenti alla vita quotidiana, esempi che ci sembra superfluo elencare, dal momento che l’intento di Boyle non è di farci conoscere le proprietà delle singole qualità, quanto di eliminare una nostra eventuale fiducia nell’esistenza di principi primi che ci indurrebbero a scambiare le qualità con le sostanze.
Nella trattazione delle qualità, che è alla base della ricerca alchimistica di Boyle, si delinea la mirabile fusione di diversi elementi culturali secenteschi, poiché la trattazione ampia e, talora, prolissa delle qualità significava, da una parte, tentare di spiegare l’universo secondo l’interpretazione corpuscolaristica, dall’altra, assumere un atteggiamento molto peculiare nei riguardi dell’alchimia. L’interpretazione della struttura della materia in termini corpuscolaristici non era una novità nel Seicento.
Di fronte alle concezioni atomistiche, Boyle assunse l’atteggiamento di rifiuto, unito, in questo caso, a una viva preoccupazione per tale religione scientifica che sconfinava nel materialismo e nell’ateismo. Di fronte al problema della struttura della materia, lo scienziato si comporta con la solita pazienza sperimentale, cercando di individuare la scomponibilità dei corpi e la possibilità della loro trasmutazione. Ma Boyle vede sempre la mano della divinità, cosicché il suo meccanicismo è ben distinto dal materialismo cartesiano: esso è un meccanicismo divino in quanto voluto da Dio. Boyle rifiuta l’atomismo come teoria affrettata e il suo conseguente materialismo come teoria empia.
L'horror vacui
La tematica corpuscolaristica, che tanta incidenza ebbe sulla cultura del Seicento, postulava, in sede naturalistica e in sede filosofica, l’accettazione del vuoto e il rifiuto di quelle teorie pienistiche che erano state stabilite da Aristotele come horror vacui e che venivano largamente accettate dalla corrente cartesiana. Vacuisti e "pienisti" si contendevano il campo dell’interpretazione scientifica della natura e le loro polemiche non vennero sedate neppure dai primi esperimenti di pneumatica che rivelavano la possibilità di fare il vuoto o, almeno, di ottenere dell’aria rarefatta.
Nel 1643 Evangelista Torricelli aveva compiuto il famoso esperimento con il tubo di mercurio e, dopo di lui, molti altri naturalisti avevano cercato di studiare il problema del vuoto e di perfezionare i relativi dispositivi pneumatici. In Francia, Mersenne e Pascal si occuparono del vuoto soprattutto dal punto di vista barometrico, mentre, in Germania, dove era prevalente la necessità pratica di prosciugare le miniere, Otto von Guericke, nel famoso esperimento di Magdeburgo, trovò che il vuoto o, meglio, la pressione atmosferica poteva esercitare quella grande forza meccanica che, più tardi, sarebbe stata impiegata nella tecnica mineraria. Le peculiarità del vuoto e le sue utilizzazioni pratiche, da un lato, le caratteristiche dell’aria e la sua importanza per la vita umana, dall’altro, offrivano a Boyle un campo di ricerca che univa alla « curiosità» naturalistica anche la possibilità di concreti sviluppi tecnici.
Pareva però a Boyle che il vuoto, di cui tanto si discorreva, fosse argomento scientifico troppo recente perché si potesse affermare qualche cosa in proposito. Per poterne discutere era necessario cominciare a scriverne la storia sperimentale e costruire una pompa pneumatica abbastanza capace da poter contenere oggetti e animali, allo scopo di dimostrare quale importanza avesse l’aria per i fenomeni naturali e quale fosse la potenza del vuoto. Essendo l’aria tanto necessaria alla vita umana che non solo la maggior parte degli uomini, ma quasi tutte le creature che respirano non possono vivere molti minuti senza di essa, appare probabile che qualsiasi scoperta di un certo valore sulla sua natura si dimostri importante per l’umanità dice Boyle. Aiutato da valenti artigiani, che lo assistevano anche durante lo svolgimento degli esperimenti, Boyle costruì una pompa pneumatica, alla quale apportò successive modificazioni tecniche, con l’intento di osservare il maggior numero possibile di fenomeni naturali, allora conosciuti, nella curiosa condizione del sotto vuoto. In realtà, si trattava di aria rarefatta, cosa di cui Boyle era perfettamente consapevole e che attribuiva alla modestia delle possibilità tecniche del tempo. La cautela di Boyle a proposito del concetto di vuoto rispondeva sì alla sua abituale prudenza circa l’accettazione di teorie non confermate, ma nasceva anche dall’esigenza di conciliare l’idea del vuoto con la teoria meccanicistica cartesiana, con quegli urti a catena tra i corpuscoli che, in assenza totale di aria, non sarebbero stati possibili e giustificati in un contesto naturalistico che rifiutava l’idea dell’azione a distanza. Fortunatamente per Boyle, nella pompa non si produce il vuoto, ma soltanto l’aria rarefatta; vi sono sempre delle particelle d’aria in grado di giustificare, per esempio dal punto di vista di tale meccanicismo, perché il fenomeno luminoso non sia ostacolato all’interno del recipiente. La stessa cosa si può sottolineare per altri fenomeni naturali che, di fatto, non rivelavano comportamenti troppo differenti rispetto a quelli condotti all’aria libera. Il famoso esperimento galileiano delle due lastre che restano attaccate l’una all’altra per coesione non presentò variazioni di comportamento quando il Boyle introdusse due lastre perfettamente levigate nel recipiente della pompa pneumatica. Possiamo quindi dire che il Boyle si servì di tale apparecchio non per un’accurata disamina del vuoto, ma per uno studio attento dell’aria. Le sue conclusioni rispetto alla polemica tra "vacuisti" e "pienisti" sono infatti molto più vaghe di quanto convenisse alla sua abituale prudenza. Dice Boyle: se per vuoto noi intendiamo uno spazio perfettamente privo di qualsiasi sostanza corporea, si può sostenere, in modo abbastanza plausibile, che non esista una cosa simile al mondo. Ma la più importante affermazione di Boyle è quella che si riferisce alla definizione dell’elemento chimico. L’elemento chimico, secondo Boyle, non può essere stabilito e riconosciuto a priori, ma deve essere determinato dall’esperienza. E' un elemento un corpo indecomposto che non è decomponibile, cioè che non si riesce a decomporre coi mezzi chimici di cui si dispone.
Questa definizione metodologica dell’elemento, evitando di fissare a priori l’elemento e incoraggiando lo sviluppo dell’analisi, si può dire che segni l’inizio della chimica moderna.
L’aria appare allo scienziato come un corpo elastico le cui particelle si comportano come un vello di lana che, a lungo compresso nella mano, tende, una volta eliminata tale pressione, a riprendere il suo volume precedente. Allo stesso modo, le particelle d’aria rimaste nel recipiente tendono a espandersi con facilità, data la poca resistenza offerta dalle poche particelle presenti. Più tardi Boyle si accorgerà pressione e volume agiscono in proporzione inversa e ne darà una relazione scritta durante la riunione tenuta al Gresham College il 18 settembre del 1661, presentandola però come un’ipotesi. L’aria rivelò ancora al Boyle la sua importanza per il fenomeno della combustione, quando una candela accesa brillava nel recipiente pieno d’aria e si spegneva in condizioni di rarefazione ed è questo certamente uno dei punti più importanti dello studio pneumatico del Boyle; ma, soprattutto, gli apparve chiaramente l’importanza vitale dell’aria per la respirazione, quando dei piccoli animali, inseriti nel recipiente svuotato, morivano per soffocamento. Allora Boyle, assimilando il fenomeno della combustione a quello della respirazione animale, ne deduce che il corpo vivente è dotato di una fiamma vitalis, raggiungendo un duplice scopo: rendere visibili, oltre a quelli dell’aria, anche gli effetti del fuoco, anch’esso ritenuto occulto.
Principio e metodo
La polemica del Boyle contro gli spagirici è, prima di tutto, una questione di principio e di metodo. Essi non sono dei buoni alchimisti, perché hanno sostituito una teoria a una ricerca perenne, togliendo alla propria arte il carattere dell’utilità. I loro scritti non hanno più carattere di relazione sperimentale, ma piuttosto di una confusa filosofia, dove la teoria, sovrapponendosi a un genuino studio della natura, crea pericolosi equivoci e arreca danno a coloro che ne prendono sul serio le ricette e i consigli pratici. Essi, secondo Boyle, giocano sull’equivoco del segreto e, con tale pretesto, raccontano fandonie non controllabili e, con la scusa del carattere esoterico del loro sapere, giustificano la confusione dei loro scritti che, invece, rispecchiano la confusione della mente dei loro autori.
Il carattere utilitaristico della ricerca boyliana è forse la sua nota più evidente, ma, se di utilitarismo si parlasse in una visione razionalistica come aveva detto Descartes, la cosa non meriterebbe altrettanto rilievo. Sarebbe semplicistico, d’altro canto, dire che, con l’opera di Boyle, si attua il passaggio da una forma scientifica qualitativa a una quantitativa, passaggio che fu talmente lento, contraddittorio e rapsodico da non poter certo essere contenuto nell’opera di un solo pensatore, per quanto accurato e prolifico. È piuttosto importante sottolineare che l’alchimia del Boyle rifuggiva dal segreto, si apriva alla divulgazione e invitava alla collaborazione tutti gli uomini di buona volontà.
Scienziato e filantropo
Boyle era un gentiluomo di campagna che la situazione politica, i disordini e la minaccia degli espropri avevano sospinto verso la città, prima a Oxford, poi a Londra, senza che tale inurbamento ne mutasse le abitudini e l’amore per la ricerca. Come aveva fatto nella tranquilla vita di Stalbridge, quando la cura delle sue terre lo sollecitava alla risoluzione dei problemi artigianali inerenti all’agricoltura, così il Boyle si comporta da cittadino, estendendo però i suoi problemi pratici a tutto il mondo artigianale. Non lo attrassero le cariche o gli onori. Rifiutò la presidenza della Royal Society , di cui fu sempre membro attivo, ma umile. Il mondo accademico lo ignorò ed egli ignorò la casta dei professori. Gli venne conferita la laurea honoris causa dall’università di Oxford, ma ciò non cambiò affatto la sua politica solitaria, schiva, forse sprezzante. Del resto, aveva attorno a sé valenti collaboratori, quali Hooke; le sue rendite gli consentivano però di provvedere al costoso funzionamento del suo laboratorio, alla retribuzione dei suoi tecnici e all’acquisto di quelle abbondanti quantità di materiali che si solevano impiegare in tempo di sperimentazioni su scala macroscopica: l’oro si usava a libbre; le gemme dovevano essere molto voluminose per rendere visibili i risultati. Tutto ciò era indubbiamente dispendioso, ma a Boyle, pur tanto cauto amministratore, non appariva uno spreco, ma un saggio investimento. Se avesse potuto migliorare le condizioni economiche e fisiche della società, ciò sarebbe stato di giovamento a tutti; una meta molto lontana.
Il carattere privato della sua ricerca fu intaccato soltanto dalla nomina a presidente delle Miniere Reali, ma ricondusse tale attività nel suo campo abituale di ricerca e nel suo spirito filantropico, perché i suoi studi sulla respirazione e sugli effetti della carenza di aria sul corpo umano potevano permettere di salvare la vita di molti minatori. Vivendo un’autentica fede scientifica, Boyle imparava ogni giorno un significato diverso del termine cultura, ne ampliava il disegno, senza avvertire l’esigenza di definirla per un uditorio di giovani con attitudini ripetitive.
Essendosi iniziato da solo alla ricerca scientifica, non ebbe maestri, ma seppe farsi allievo della natura.