Et in Arcadia ego
Quando la regina Cristina di Svezia abdicò si trasferì a Roma e qui fondò il più importante cenacolo culturale del secolo: l’Accademia reale. Alla morte della basilissa, come veniva chiamata l’ex regina di Svezia, nel 1689, i frequentatori dell’Accademia reale si ritrovarono senza un tetto dove potersi riunire. Seguitarono a raccogliersi ma non in un posto fisso. Erano uomini di diverse estrazioni sociali, ma accomunati dalle stesse passioni artistiche e letterarie e soprattutto dall’onesto intento di liberare la letteratura italiana dalle ridondanze barocche. Un giorno uno di loro recitò una poesia in stile petrarchesco e il Taya affermò che ciò gli ricordava un romanzo del Sannazzaro, l’Arcadia; il Crescimbeni propose d’intitolare ad essa la società.
Il Crescimbeni, marchigiano di nascita e arciprete di professione, non era un gran letterato, in compenso era un ottimo organizzatore, autoritario ed efficiente; trasformò l’Arcadia in una specie di partito con tanto di statuto fissato in dodici tavole dal Gravina, e una sede centrale e varie succursali in quasi tutte le altre città italiane.
Secondo lo Satuto, l’Accademia doveva rimanere libera ma questo rimase nei fatti solo un sogno: solo un mercato su cui smerciare i propri prodotti, avrebbe consentito all’Arcadia di diventarlo ma il mercato non c’era in quanto non c’erano lettori. Dunque anche l’Arcadia dovette piegarsi a ricorrere al solito mecenate impegnandosi a pagare un pedaggio.
Di mecenati ce ne furono vari a cominciare dal papa Clemente XI, assiduo frequentatore del salotto della defunta regina Cristina. Il papa mise a disposizione degli Arcadi, addirittura il Campidoglio per solennizzare le loro celebrazioni.
Il Crescimbeni riuscì ad ottenere una sede stabile grazie alla geniale idea di nominare “primo e massimo pastore” (pressappoco la carica di presidente onorario), il re Giovanni V del Portogallo. Lusingato il sovrano donò all’Accademia 4000 scudi per l’acquisto di un terreno ai piedi del Gianicolo che prese il nome di Bosco Parrasio e ospitò anche un teatro.
Di Accademie ce n’erano sempre state, anche nell’antica Grecia, ma il secolo d’oro fu il Seicento, come conseguenza dello scientismo, cioè dello sviluppo del pensiero scientifico. A differenza del pittore o del poeta che può lavorare anche in solitudine, lo scienziato deve tenersi al corrente degli studi e delle sperimentazioni altrui, con un continuo bisogno di scambi. L’Accademia divenne, in un secolo in cui mancava la stampa, la radio e la televisione, l’unico tramite: Galileo per esempio comunicava con i Lincei che diffondevano in tutto il mondo le sue scoperte e il suo pensiero e ne raccoglievano per lui.
A favorire l’Accademia era anche la solitudine degli intellettuali che, fattore fondamentale, non avevano un pubblico e quindi non potevano che confrontarsi tra loro. Fu questa situazione che di fatto rese necessaria la nascita dell’Arcadia senza la quale gli intellettuali non avrebbero potuto comunicare nemmeno tra loro. L’Arcadia riuscì a costituire una specie di repubblica culturale al di sopra degli stati in cui il Paese era frazionato e questo fu, senza dubbio, un risultato positivo, creando negli italiani il senso di una comunità, sia pure solo letteraria.
Le città della penisola ebbero quasi tutte la loro filiale, cui facevano capo i “notabili” locali. Nei registri dell’Accademia troviamo iscritti anche i nomi di uomini che in realtà con l’Arcadia e i suoi modelli non avevano nulla a che fare. Come Alfieri, Goldoni e Vico, ma questa è appunto un’altra prova dell’importanza che essa aveva raggiunto. Iscriversi all’Arcadia era allora ciò che oggi corrisponde all’iscrizione al “Rotary”; una consacrazione e un passaporto. Essa fu copiata anche all’estero e alla sua anagrafe troviamo registrati uomini come Voltaire e Goethe.
Il suo successo lo dobbiamo soprattutto alle capacità organizzative del Crescimbeni che in trentotto anni di direzione portò le succursali a quaranta mantenendo una fitta corrispondenza con tutti i letterati d’Europa, raccogliendo e pubblicando un’antologia della poesia arcadica in nove volumi, più tre di prose e quattro di biografie dei maggiori protagonisti dell’Accademia. La sua direzione provocò anche molti malcontenti. Il Gravina, in una lettera al Maffei, denunciò con parole forti i metodì pittosto autoritari del Crescimbeni accusandolo di tradire lo spirito dell’Accademia accogliendovi, anche persone di poco conto.
Nel 1711 ci fu la rottura e i secessionisti fondarono l’Accademia dei Quirini ma il Crescimbeni, grazie alle sue doti ne venne subito a capo anche grazie all’intervento dei gesuiti, allora potentissimi, che vedevano nell’Accademia un mezzo di distrazione per gli intellettuali più pericolosi. Ed era questo il lato negativo dell’Arcadia che aveva sì dato una patria alla cultura italiana ma una patria astratta, completamente estranea dai reali interessi e problemi del paese. I temi dell’Accademia erano di interesse solo per gli Arcadi che esercitavano la loro fantasia rispolverando i miti greci. Nei loro club non c’era posto che per pastori e pastorelle, ne adottavano i nomi assumendone le pose e copiandone i riti; consumavano fiato ed inchiostro per dimostrare che il loro precursore era stato Cristo per l’omaggio ricevuto in culla dai pastori. Discutevano sulla derivazione di certe parole, chiamando in soccorso Virgilio e Petrarca come modelli. Chiusi nella loro Accademia, gli Arcadi seguitarono a dibattere sulla lana caprina, sulla stringa di Pan, sul ripristino del calendario greco-romano, sulla lunghezza dei versi e sulla ripartizione di platonici feudi come la Beozia e la Tessaglia. Questa chiusura condannò gli Arcadi alla sterilità m a ciò era la reazione allo stile spagnolo del Seicento, ampolloso e gremito di metafore ed iperboli. Accusati di vaniloquio gli Arcadi cominciarono a vergognarsi di esserlo: uno dei suoi esponenti più illustri, Metastasio, rifiutò addirittura gli allori dell’Accademia e Goldoni che apparteneva all’Arcadia solo per convenienza, la corbellò in una sua commedia.
Nel 1766, l’Accademia decise di incoronare “pastorella” Maddalena Morelli con lo pseudonimo di Corilla Olimpica. Come poetessa valeva pochissimo ma era la favorita del principe Gonzaga. La cerimonia venne celebrata di notte per sottrarsi agli schiamazzi della folla. A Roma, sulla statua di Pasquino furono appese tali satire che i due amanti preferirono allontanarsi per un pezzo da Roma.
Nel Settecento spirava un altro vento: quello di una cultura impegnata dedita a risolvere i problemi reali della società come la politica, l’economia, le leggi penali e civili. Questo tipo di cultura proveniva da Oltralpe e si chiamava Illuminismo ma la sua eco in Italia fu debole appunto perché si seguitava a correre dietro alle pastorellate dell’Arcadia. L’Accademia aveva posto la parola fine ad un costume letterario falso e artificioso ma ne aveva creato un altro non meno lezioso e convenzionale.