È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l'eccellente, non del goffo):
chi non sa far stupir, vada a la striglia. G. B. Marino
La letteratura del Seicento contiene in sé due grandi filoni: quello classicistico, ispirato al decoro formale rinascimentale ed al richiamo dei modelli latini e greci, e quello barocco, che rifiutò regole e canoni rinascimentali; nel secondo possiamo rinvenire le caratteristiche fondamentali, e cioè la ricerca di novità, l’uso esasperato della metafora (la capacità di attribuire ad un vocabolo un senso figurato),il bisogno di ottenere il consenso del pubblico (essenziale fu per il poeta dell’età del barocco l’esigenza di piacere ad una platea vasta di lettori).
Il più importante poeta di questo periodo, che improntò di sé a tal punto la poesia da originare una vera e propria corrente letteraria, che ne imitò la poetica e le forme, il marinismo, fu Giovan Battista Marino, convinto sostenitore che la grandezza del poeta si misurasse in base alla capacità di stupire il pubblico.
Tracce biografiche
Giovan Battista Marino, Il re del secolo, il gran maestro della parola (De Sanctis), nacque a Napoli il 14 ottobre 1569, e sin dall’adolescenza fu attratto dalla lettura dei grandi autori del Cinquecento.
Figlio di un avvocato, fu avviato agli studi di giurisprudenza, ma bruscamente li abbandonò per quelli letterari, allettato dalla carriera di poeta cortigiano, consapevole che, pur se sottoposto ad omaggiare i potenti, avrebbe potuto, però, dedicarsi alla sua passione, la poesia.
Cacciato di casa dal padre, trascorse la giovinezza diviso tra la vita mondana e l’attività letteraria offrendo i suoi servigi a vari Signori, tra cui Matteo di Capua, principe di Conca, alla cui corte entrò nel 1596, ma fu ospitato da molti illustri mecenati napoletani, dedicandosi attivamente allo studio ed alle composizioni poetiche, sempre continuando a condurre una vita sregolata, e più di una volta finì in prigione.
Entrò in carcere per la prima volta nel 1598, forse (ma non è certo) accusato di sodomia, o per aver provocato, in seguito ad un aborto, la morte della giovane figlia di un ricco mercante, Antonella Testa, che aveva sedotto; e due anni dopo, nel 1600, ancora fu rinchiuso nel carcere di Napoli per aver falsificato, per compiacere un amico, alcune bolle vescovili, ma riuscì a fuggire, e riparò a Roma.
Affascinato dall’ambiente culturale dell’Urbe, entrò al servizio del cardinale Piero Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, noto per aver già ospitato letterati di fama, come il Tasso; l’elezione a papa di Leone XI indussero, però, il cardinale, ormai privo della protezione dallo zio, a ritirarsi nella sua diocesi di Ravenna nel 1605, dove il Marino si trasferì.
Ma la cittànon gli piaceva, perciò accettò volentieri di seguire l’Aldobrandini in varie corti del nord, tra cui Bologna, Venezia (dove pubblicò una parte delle Rime, composte a Napoli ma ancora inedite), Genova, Modena, partecipando attivamente al dibattito tra classicisti ed innovatori, distaccandosi dall’esempio tassiano, e sperimentando nuove forme letterarie.
Nel 1608, quando ormai era un poeta famoso, al seguito del cardinale, si recò a Torino per le nozze dell’infanta di Savoia con Alfonso d’Este, e qui scrisse un componimento in omaggio di Carlo Emanuele I, preceduto da una lettera dedicatoria al principe Vittorio Amedeo, che gli valse grande successo e il favore di casa Savoia, tanto da esserenominato cavaliere dell’Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro.
Si stabilì, così, a Torino, alla corte del duca, suscitandola rivalità del poeta genovese Gaspare Murtola, segretario ducale di Carlo Emanuele, al quale il Marino desiderava succedere nella prestigiosa carica; tra i due nacque un’aspra polemica, conscambio di sonetti satirici, La Murtoleide e La Marineide, in cui entrambi si insultarono scambiandosi invettive feroci ed oscene. Il Murtola, licenziato, non si limitò più alle sole invettive verbali, ma cercò di uccidere il Marino, che, però, scampato ai colpi di pistola, chiese ed ottenne la grazia per il rivale.
Ma nuovi intrighi tramavano alle spalle del poeta: nel 1611 fu arrestato nuovamente con l’accusa di maldicenza nei confronti del duca, l’anno successivo riuscì ad ottenere la libertà e, fino al 1615, restò a Torino; qui pubblicò le Dicerie sacre e continuò la stesura del suo capolavoro, l’Adone.
Nel 1615, invitato da Maria de' Medici, vedova di Enrico IV, lasciò Torino per la Francia, dove fu magnificamente accolto e visse molti anni sotto la protezione del re e dell'intera corte: finalmente era arrivato il successo tanto desiderato!
Famoso, ricco, onorato, restò a Parigi otto anni, componendo intensamente; nacquero Il tempio, La sferza, La galeria, La sampogna, La strage degli innocenti, ed altre opere minori, e nel 1623 pubblicò il poema l’Adone, dedicato alla regina, che ebbe subito un grandissimo successo.
Malandato in salute, “risolutissimo” a far ritorno in patria, “Io sento una passione d’Italia incredibile, e notte e giorno sospiro la patria” (Epistolario, I, p.276), nel 1623 rientrò in Italia, prima a Torino, poi a Roma, accolto trionfalmente, consacrato definitivamente nella sua gloria di scrittore, non solo dai nobili e dai letterati, ma anche dal popolo.
Nella primavera del 1924 tornò nella sua amata Napoli (“la mia vita voglio che sia il verno in Roma e la state in Napoli”), fra l’entusiasmo della nobiltà e delle locali accademie, e qui fu eletto principe dell’Accademia degli Oziosi, ma poco, ormai, gli restava da vivere; amareggiato dalle critiche rivolte all’Adone (la cui “lascivia” aveva messo in allarme le autorità ecclesiastiche) vi si spense, il 25 marzo 1625.
Le opere
Copiosa la sua produzione; trale sue opere più importati furono La lira (1608), Gli epitalami (1616), La galeria(1619), raccolta di componimenti che descrivono celebri opere d'arte, La sampogna (1620), “idilli” mitologico-pastorali (La galeria e La sampogna dense, entrambe, di echi virgiliani e ovidiani), oltre alle giovanili Egloghe boscherecce, ma il suo capolavoro fu l’Adone, un poema mitologico di 20 canti in ottave di endecasillabi.
A queste opere occorre aggiungere la Murtoleide, l’insieme delle poesie nate dalla polemica col Murtola, il poemetto La strage degli innocenti, pubblicato postumo, nel 1632, e le opere in prosa,le vivaci Lettere, serie e burlesche, e le Dicerie sacre, trattazioni in stile oratorio di argomenti religiosi.
Madrigali
La poetica del Marino si fondò sul “diletto” e sulla “meraviglia”, ma anche fu idillica, sensuale, ampiamente descrittiva, melica.
Nella Lira, la sua più importante raccolta poetica, particolarmente emulata dai seguaci, che comprende oltre 800 componimenti, sonetti e madrigali, rime d’occasione e d’omaggio, canzoni e stanze, propose temi vari e ricchi del virtuosismo tipico della lirica del tempo,e molti versi dedicati alle donne e ai loro vezzi (velo, anello, ventaglio, etc.).
Tra i madrigali più famosi del Marino, tratto dalla Lira, c’è sicuramente, “Pallidetto mio sol”, che prende spunto da un altro del Tasso in lode di una bella signora dal pallido volto: Al tuo vago pallore la rosa il pregio cede, che per lo scorno or più arrossir si vede.
Nel suo componimento il Marino, con dolcezza ed affettività teneramente fanciullesca, invoca la donna amata, paragonata al sole della propria vita con tre appellativi, ai quali associa l’attributo del pallore, “giocando” col termine.
Mio sole, mia morte, amor mio/ languore, consunzione, abbandono: pallida è la donna, pallida è la morte, ma è più ricco di fascino il pallore dell’amata che il rosato dell’aurora, e persino la rosa dai colori purpurei perde la sua vantata bellezza confrontata al suo pallore.
Gioco poetico, d’immaginazione e di colori, pause e ritmi, sospiri e melodie, non appassionate, certo,studiate, la grazia che simula il sentimento: palese è l’artificio ricercato, ma non è forse questo il fascino seduttivo, pur se ingannevole, della poesia del Marino?
Pallidetto mio sole,
ai tuoi dolci pallori
perde l'alba vermiglia i suoi colori.
Pallidetta mia morte,
a le tue dolci e pallide vïole
la porpora amorosa
perde, vinta, la rosa.
Oh, piaccia a la mia sorte
che dolce teco impallidisca anch'io,
pallidetto amor mio!
L’Adone
L'Adone, un poema vastissimo, di oltre 40000 versi, dalla trama esile e semplice, vero “caso” letterario sul quale si scatenarono sostenitori e oppositori, incorso nella condanna della Chiesa, tema di dispute letterarie anche dopo la morte dell’autore, pur trattando di una nota favola mitologica, èanticlassico e barocco, vera e propria galleria di meraviglie, in cui s’intrecciano avvenimenti secondari e digressioni derivanti da fonti diverse (autori greci, latini, italiani), miti famosi e divagazioni, considerazioni strane e complicate, sì che, come è stato affermato, l’opera potrebbe continuare all'infinito.
Il poema si propone come un’allegoria: l’uomo (Adone) che, attraversando i gradi del piacere (i giardini dei sensi), vive intensamente la voluttà, ma infine perviene alla morte.
L’unità dell’Adone è data dall’elemento linguistico e stilistico, ricercato e raffinato, denso di metafore, figure retoriche, iperboli, concettismi, che rivelano la straordinaria padronanza espressiva dell’autore, il cui fine era sempre quello di stupire il pubblico e suscitarne l’ammirazione.
Cupido, per vendicarsi della madre Venere, la fa innamorare del bellissimo Adone. La dea conduce il giovane, che contraccambia il suo amore, nel proprio palazzo, a Cipro, e gli fa visitare cinque giardini, rappresentanti i cinque sensi, mentre Mercurio racconta meravigliose storie d'amore, ma la passione di Venere suscita la gelosia di Marte, che costringe Adone a fuggire e ad andare incontro a straordinarie avventure. Tornato a Cipro, Adone viene ucciso da un cinghiale incitatogli contro da Marte.
Famosissime, meritatamente, sono alcuneparti dell’Adone, come i versipronunciati da Venere in "Rosa riso d'amor del ciel fattura"e la sequenza descrittiva del canto dell’usignolo.
In "Rosa riso d'amor del ciel fattura" la dea dell'Amore, puntasi con una spina di rosa bianca, tintasi subito di rosso, si accosta ad una fonte per pulire la ferita e vi trova Adone. Cupido colpisce la dea con una delle sue frecce e Venere subito s'invaghisce del bellissimo giovane, ma non dimentica di ringraziare la rosa che è stata la causa del suo innamoramento.
Sotto la penna abile del poeta, la rosa diviene sorriso d'amore, creazione celeste, pregio del mondo, ornamento della natura, vergine figlia della terra e del sole, conforto ed oggetto di cura di ninfe e pastori, vanto e signora dei fiori per l'eloquente bellezza, imperatrice sul trono; il Marino, in ricchezza fantasiosa di immagini, parole e suoni, di paragoni e metafore, si lancia a briglia sciolta nell'invenzione fantastica, in un virtuosismo canoro e pittorico che rende la sua elaborazione poetica un vero inno alla rosa.
Rosa riso d'amor
Rosa riso d'amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
de la terra e del sol vergine figlia,
d'ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor de l'odorifera famiglia,
tu tien d'ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo de' fior donna sublime.
Quasi in bei trono imperadrice altera
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d'aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia d'intorno e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda:
e tu, fastosa del tuo regio vanto,
porti d'or la corona e (rostro il manto.
Porpora de' giardin, pompa de' prati,
gemma di primavera, occhio d'aprile,
di te le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu, qualor torna a gli alimenti usati
ape leggiadra o zefiro gentile,
dài lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
Non superbisca ambizioso il sole
di trionfar fra le minori stelle,
ch’ancor tu fra i ligustri e le vïole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle;
Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra ed egli rosa in cielo.
E ben saran tra voi conformi voglie:
di te fia 'l sole, e tu del sole amante.
Ei delle insegne tue, de le tue spoglie
l'aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne' crini e nelle foglie
la sua livrea dorata e fiammeggiante;
eper ritrarlo ed imitarlo a pieno,
porterai sempre un picciol sole in seno.
(Adone, Canto III, 156-160)
Nel VII canto dell’Adone lo scenario è il giardino in cui si celebrano le meraviglie dell’udito (le arti della musica e della poesia); l’attenzione di Adone è catturata dalle melodie dell’usignolo, le lodi del Marino, non incantato dalla vena musicale dell’animale, ma sedotto dalla sua destrezza, sono tutte concentrate sul “musico mostro” (prodigio musicale), esaltato con arguti giochi verbali e paragoni mirabolanti: l’usignolo è “schermidor destro e feroce”, trasfigurato in schermitore perché campione nella sua arte, proprio come lo schermitore è sovrano nella sua; “atomo sonante”, “aura mossa”,”voce pennuta”, “suon volante”, in iperbole del piccolo, concetto ripetuto continuamente questo dell’usignolo così piccolo, così incorporeo, eppure tanto potente.
Nel contesto, già di per sé fiabesco, s’inserisce la fiaba che il dio Mercurio racconta ad Adone, la storia della competizione musicale fra un amante infelice ed un usignolo, che si conclude con la morte dell’ usignolo ed il compianto del poeta rivale, che si premura di dargli sepoltura.
Evidente anche qui la ricchezza fantasiosa del Marino, la sua ricerca di sensazioni nuove, l’abilità nel dilatare il senso del reale, aspetti tipici del barocco, decisamente in rottura, anche se inconsapevolmente, con lamisura e l’equilibrio rinascimentali.
L'usignuolo
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Ma sovr'ogni augellin vago e gentile
che più spieghi leggiadro il canto e 'l volo
versa il suo spirto tremulo e sottile
la sirena de' boschi, il rossignuolo,
e tempra in guisa il peregrino stile
che par maestro del'alato stuolo.
In mille fogge il suo cantar distingue
e trasforma una lingua in mille lingue.
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Udir musico mostro, o meraviglia,
che s'ode sì, ma si discerne apena,
come or tronca la voce, or la ripiglia,
or la ferma, or la torce, or scema, or piena,
or la mormora grave, or l'assottiglia,
or fa di dolci groppi ampia catena,
e sempre, o se la sparge o se l'accoglie,
con egual melodia la lega e scioglie.
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O che vezzose, o che pietose rime
lascivetto cantor compone e detta.
Pria flebilmente il suo lamento esprime,
poi rompe in un sospir la canzonetta.
In tante mute or languido, or sublime
varia stil, pause affrena e fughe affretta,
ch'imita insieme e 'nsieme in lui s'ammira
cetra flauto liuto organo e lira.
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Fa de la gola lusinghiera e dolce
talor ben lunga articolata scala.
Quinci quell'armonia che l'aura molce,
ondeggiando per gradi, in alto essala,
e, poich'alquanto si sostiene e folce,
precipitosa a piombo alfin si cala.
Alzando a piena gorga indi lo scoppio,
forma di trilli un contrapunto doppio.
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Par ch'abbia entro le fauci e in ogni fibra
rapida rota o turbine veloce.
Sembra la lingua, che si volge e vibra,
spada di schermidor destro e feroce.
Se piega e 'ncrespa o se sospende e libra
in riposati numeri la voce,
spirto il dirai del ciel che 'n tanti modi
figurato e trapunto il canto snodi.
37
Chi crederà che forze accoglier possa
animetta sì picciola cotante?
e celar tra le vene e dentro l’ossa
tanta dolcezza un atomo sonante?
O ch'altro sia che da liev'aura mossa
una voce pennuta, un suon volante?
e vestito di penne un vivo fiato,
una piuma canora, un canto alato?
(Adone,VII, 32-37)
L’Adone del Marino in pittura
L’Adone, opera letteraria proverbiale del gusto barocco, per la pirotecnia stilistica ed il virtuosismo retorico, ebbe notevole fortuna iconografica nella pittura mitologica del Seicento e del Settecento.
Certamente contribuì il fascino del poema mariniano ad ispirare i pittori barocchi e tardo-barocchi per la rappresentazione del mito di Adone e di alcune altre vicende mitologiche, soprattutto a far prediligere il tema del “Compianto sulla morte di Adone” (affrontato mutuando l'iconografia sacra del “Compianto sul Cristo morto”), insistendo sulla bellezza che rimane anche nel cadavere del giovane; spesso, infatti, nelle composizione il corpo di Adone è ostentato in primo piano, con l’identico compiacimento voyeuristico che si ritrova nell’opera letteraria.
Fra gli artisti suggestionati dal poema si ricordano Nicolas Poussin (“Adone compianto da Venere”, 1625); Jusepe de Ribera (“Venere e Adone”, 1637); Giulio Carpioni (“Adone morto fra le ninfe”, 1650); Luca Giordano (“Convito degli dei con Adone”, 1655-1660); Laurent de La Hyre (“Adone morto e il suo cane”, 1750 circa).
Nicolas Poussin, Adone compianto da Venere, 1625
Esisteva un rapporto diretto fra il maturo poeta Giovan Battista Marino e la giovane promessa dell’arte francese, il pittore Nicolas Poussin.
Marino, fu attratto dal talento di Poussin e, quando risiedeva in Francia, lo ospitò in casa sua, ma lo incoraggiò a recarsi in Italia, fornendogli pure una lettera di presentazione; nel 1623 l’artista eseguì per il poeta una serie di disegni a penna e ad acquarello per illustrare l’Adone, ma questo quadro, composto nel 1625, più che al poema mariniano, sembra ispirarsi al racconto delle Metamorfosi (X) di Ovidio: china sul bel corpo morto di Adone, la dea Venere, discesa dal cielo col suo carro,versa un nettare prodigioso sul sangue, dal quale nascerà un fiore, l’anemone, simbolo della resurrezione. La figura maschile addormentata sulla sinistra è la personificazione del fiume Adone che, come tramanda la leggenda, tinge di rosso le sue acque ogni anno, il giorno in cuiricorre la morte dell’eroe.
Il mito, probabilmente di origine siriana, di Adone, bellissimo pastorello, ma cacciatore temerario ed imprudente, morto giovane, ucciso da un cinghiale durante una caccia, sta a simboleggiare la natura fiorente, spenta dall’inverno (il cinghiale), che si ridesta in primavera.
Giulio Carpioni, Adone morto fra le ninfe, 1650
Il dipinto di Giulio Carpioni (Venezia, 1611-1674), pittore interessatoall’antico e al classicismo di matrice romana, rappresenta il compianto corale della morte di Adone, e si ispira perfettamente ai versi del Marino:
L'Aurora intanto che dal suo balcone
gli umidi lumi abbassa ala campagna,
vede anelante e moribondo Adone
ch'ancor con fievol gemito si lagna.
Vede che'l duro fin del bel garzone
ogni ninfa con lagrime accompagna
e che tutte, iterando il dolce nome,
battonsi a palme e squarciansi le chiome.
Diceano: - È morto Adone. Amor dolente,
or che non piagni? Il bell'Adone è morto.
(Adone, canto 18, 132-133)
Laurent de La Hyre, Adone morto e il suo cane, 1750
Nel poema di Marino s’insiste molto sull’affetto che lega Adone al suo cane, Saetta, ma il cinghiale lo uccide, sotto i suoi occhi; allora, Adone, per vendicarlo, si lanciacontro la belva.
[…]onde si vede di purpureo smalto
tosto rubineggiar la neve bianca.
Così non lunge dal'amato cane
lacero in terra il meschinel rimane.
O come dolce spira e dolce langue,98
o qual dolce pallor gl'imbianca il volto!
Orribil no, ché nel'orror, nel sangue
il riso col piacer stassi raccolto.
Regna nel ciglio ancor voto ed essangue
e trionfa negli occhi Amor sepolto
e chiusa e spenta l'una e l'altra stella
lampeggia e morte in sì bel viso è bella. […]
(Adone, canto 18, 97-99)
Nota critica
Il re del secolo, il gran maestro della parola, fu il cavalier Marino, onorato, festeggiato, pensionato, tenuto principe de’ poeti antichi e moderni, e non da plebe, ma da’ più chiari uomini di quel tempo. Dicesi che fu’ il corruttore del suo secolo. Piuttosto è lecito di dire che il secolo corruppe lui o, per dire con più esattezza, non ci fu corrotti ne corruttori. Il secolo era quello, e non potea esser altro: era una conseguenza necessaria di non meno necessario premesse. E Marino fu l'ingegno del secolo, il secolo stesso nella maggior forza e chiarezza della sua espressione. (G. De Sanctis).
L’ascesa sociale e letteraria di Giovan Battista Marino, famoso, ammirato, acclamato, anche avversatodalla società letteraria del tempo, descritto come ambizioso, profittatore, bersaglio di maldicenti che gli mossero ogni tipo di accusa (omosessualità, eresia, plagio), esempio più fulgido del letterato borghese in grado di vivere dei compensi del proprio lavoro, libero dagli obblighi di corte,raggiunse vette inimmaginabili, e la sua opera, sintesi del suo Tempo, infiammò molti animi ancora per un cinquantennio dopo la morte, testimonianza della corrispondenza esistente con i gusti del secolo.
Il Marino non ebbe una cultura approfondita, non conosceva il greco, che leggeva in traduzione latina, ma fu dotato di gusto finissimo ed amò sperimentare tutti i generi letterari, e fu conoscitore e collezionista d’arte,anche cultore di musica.
Elaborò una poesia puramente edonistica, fastosa, pittorica e musicale, intrisa di sensualità (definita dai detrattori “lascivia”), ma non solo intorno alla donna, in ogni aspetto della natura rilevò l’aspetto amoroso; nelle sue liriche non si rinvengono contenuti nuovi rispetto alla lirica amorosa petrarchesca e rinascimentale, mancano l’espressione dello stato d’animo, la profondità e l’introspezione psicologica, ma si ritrova ricerca sfrenata di novità nei moduli espressivi, arditezza e ricchezza d’immagini, elaborazione di concetti cervellotici e bizzarri, sovrabbondanza di paragoni, metafore iperboliche, per accontentare e stupire un pubblico sempre più desideroso di nuovi artifici (per questo nacquero componimenti frivoli, dedicati ai nei, alle acconciature, agli ornamenti).
E’ stato spesso rimproverata al Marino, e alla poesia “barocca” in generale, la mancanza di misura, ma ciò è forse spiegabile, come sottolineato da storici e sociologi, con lo smarrimento e la perdita del senso delle proporzioni dell'età barocca causati dall’ampliarsi delle conoscenze del tempo, in consapevolezza che la Terra, oltre a non essere più il centro dell'universo, probabilmente non era più nemmeno l'unico mondo esistente.
Al di là delle speculazioni critiche, appartengono, comunque, al Marino doti innegabili che rendono i suoi versi estremamente fascinosi, come l’ immaginazione fervida, la capacità inventiva, l’ abilità d’impreziosire un oggetto diinnumerevoli sfumature e sottigliezze, di trovare somiglianze e contrasti, la sensualità, la musicalità, così che, pur mancando di originalità dei contenuti, attingendo ad un repertorio precedente (limite, questo, di tutti i marinisti),per l’ intreccio di luci, colori e suoni, probabili segni espressivi della sua esuberanza partenopea, la sua poesia invade e avvolge, costruzione musicale che allaccia in un complesso organico…lo svolgersi delle frasi come di volute musicali che s’incatenano e si richiamano e culminano in un “fortissimo”, A. Momigliano, ed è di questo avvivamento artistico, poiché La poesia italiana in quest'ultimo momento della sua vita non è azione e neppure narrazione: è spettacolo vocalizzato (F. De Sanctis), che bisogna tener conto se non si vuole incorrere in un frettoloso ed ingiusto giudizio.
Riferimenti bibliografici
C. Segre- C. Ossola, Poesia italiana, Seicento Settecento, Einaudi, Torino, 1997
G. Marino, Adone, curatore M. Pieri, Laterza, Roma-Bari, 1975
Marino e i marinisti, a cura di G. G. Ferrero, Ricciardi, Milano, 1954
G. Marino, Parigi 1615. Lettera sulla stranezza della moda e dei costumi parigini, Edizioni dell’Elefante, Roma,1981
F. Zanobini, Il presente della memoria, vol.II, Bulgarini, Firenze 1990
F. Pellegrini-F. Poletti, Episodi e personaggi della letteratura, seconda parte, Electa, Mondadori, Milano 2004
G. Passarello- E. Janora- S. Passarello, Il tempo della memoria: Medioevo ed età moderna, SEI, Torino 1986
G. Sechi Mestica, Dizionario universale di mitologia, Rusconi, Milano, 1990
G. B. Marino, Opere scelte, UTET, Torino, 1962
G. Ferrosi, Storia della letteratura italiana, vol. II, Elemond, Einaudi, Milano, 1991