Convivio barocco funebre di inizio seicento realizzato al Rione Badia di Foligno
Baroque.it ha avuto l'onore di prestare le sue competenze per fornire una consulenza storica ed artistica collaborando con il Rione Badia di Foligno nell'ambito del gareggiare dei Convivi, importante ed unica gara gastronomica del periodo barocco che gode ormai di fama internazionale.
Il Maestro Irene Marone, prendendo spunto dai suoi studi sugli apparati effimeri nelle celebrazioni funebri nei secoli XVII e XVIII, ha approfondito il tema del convivio listato a lutto nell'area centro italiana nella prima metà del '600. La proposta culturale di baroque.it si è mossa, tramite un'ampia esegesi delle fonti iconografiche,letterarie e musicali, in un ambito rigorosamente filologico al fine di ricostruire fedelmente gli intrattenimenti del convivio in forma di danza, musica, drammatizzazioni e coreografia, l'apparato scenografico e d' arredamento, i costumi , le stoviglie di rappresentanza e persino le dinamiche sociali che potevano animare una banchetto funebre dell'inizio del XVII secolo in Italia.
Decisivo è stato il contributo del dott. Stefano Torselli, studioso di gastronomia barocca e direttore di baroque.it, nella compilazione di un menù che rispecchiasse l'ampiezza, la varietà e la magnificenza di un convivio dell'epoca e nella gestione complessiva delle varie parti dell'intrattenimento.
Rapportarsi al barocco senza confrontarsi con la “qaestio” della morte e della vanitas vuol dire farlo in modo mutilato
Il Concilio di Trento, che concludendosi nel 1563 pone le basi ideologiche e i dettami tecnico-metodologici per il nascente barocco, non lascia equivoci: “l'uomo al punto”, per dirla con le parole del letterato Daniello Bartoli (1608-1685), è il fuoco su cui si gioca e si concentra tutta l'esistenza, tutta la vita deve tendere a quel passaggio verso il mondo della Verità.
Poiché quello in cui viviamo non è un mondo vero: è effimero, è posticcio e ingannevole. Eppure anche questa sua Natura nel barocco trova una giustificazione e viene “salvata”: “Tutte le cose sono artificiali perchè la Natura è l'Arte di Dio” ci fà sapere Sir Thomas Browne nella sua Religio Medici del 1644.
L'effimero è uno strumento di Dio stesso: che male c'è pertanto nell'utilizzarlo? Il posticcio diventa quindi un vero e proprio “metodo” della celebrazione barocca. Anche e soprattutto di quella a tema funebre, in cui l'effimero diventa paradigma didascalico per chi resta e trionfo del trapasso di chi se n'è andato.
Le feste private delle famiglie patrizie di area romana (nella quale Foligno può essere a ben ragione collocata) nella prima metà del '600 sono purtroppo poco documentate, soprattutto nell'ambito della piccola nobiltà di provincia. Ma dove, per la sontuosità degli allestimenti e l'entità dei committenti, ci sono state tramandate delle cronache possiamo per estensione pensare ad un analogo modo di procedere, con il dovuto ridimensionamento in “scala”. Ed è proprio questo metodo per analogia, che ci ha guidato nelle ricerche per l'allestimento del Gareggiare dei Convivi 2013.
Un'illustre ispirazione: le esequie del cavalier Marino presso Palazzo Mancini (7 settembre 1625)
C'è un'ampia documentazione riguardo gli addobbi, i paramenti e i catafalchi funebri (i “castrum doloris”) allestiti nelle chiese in occasione di esequie illustri: i più grandi artisti e architetti barocchi si sono cimentati in questo tipo di apparati, da Carlo Fontana a Gian Lorenzo Bernini, da Andrea Pozzo a Pietro da Cortona.
Ben più scarna è la documentazione riguardo le esequie private, soprattutto quando il defunto non era un papa, un cardinale o un principe di preclara importanza.
Il magnifico e ricchissimo volume “Corpus delle feste a Roma- vol. 1° La festa barocca” del prof. Maurizio Fagiolo dall'Arco (ed. De Luca 1997) ci toglie d'impaccio: riporta infatti interamente la cronaca, ricca di doviziosi particolari, delle esequie di Giovan Battista Marino, avute luogo a Roma il 7 settembre 1625.
L'allestimento e il convivio vengono preparati presso Palazzo Mancini: Marino non viveva lì ma di certo considerava quel luogo la sua casa spirituale, essendo il palazzo sede della prestigiosa Accademia degli Humoristi.
L'apparato che viene eretto è un ibrido tra privato e pubblico: una parte di esso è allestito già fuori dal palazzo e può essere notato dai passanti, che sono richiamati a rendere il loro omaggio al defunto poeta. C'è poi un addobbo per la sale interne, alle quali sono ammessi solo selezionati invitati e la “famiglia intellettuale” del Marino, ovvero gli altri accademici. Ecco come doveva presentarsi: “Era la sala dove sogliono gli accademici radunarsi in segno di mestizia di bruni panni addobbata (…) Era similmente la catedra (il tavolo intorno a cui sedevano per discutere) vestita a bruno e sopra quella la Nuvola Impresa generale dell'accademia sontuosamente resa...(...)” Ovunque ci sono ghirlande e “festoni intorno di funebre cipresso”.
I migliori pittori della Roma dell'epoca (Baglione, Pomarancio, Cavalier'd'Arpino), alcuni anch'essi accademici, dipingono per l'occasione ritratti allegorici. Il più apprezzato è quello del Signor Conte Francesco Crescenzio, di cui ci è data testimonianza in diversi resoconti e lettere private. Il dipinto raffigura il Cavalier Marino stesso “ nell'atto di comporre come più volte fu veduto con un libro fra le mani sostenuto dal destro ginocchio che sopra il sinistro era incrocicchiato”e viene montato su un altarino che presenta una composizione di oggetti come “la lira, la zampogna e la tromba chiare espressione di quanto egli valse nella lirica, nella pastorale e nell'heroica poesia; e sopra questi quella corona che morendo in premio delle sue fatiche ei meritò”.
Marino non era un aristocratico, eppure al suo ingegno tanta pompa è stata tributata: è facile desumere come un nobile, per quanto provinciale e in un contesto culturale ben diverso da quello di Roma, potesse disporre per un addobbo funebre della sua dimora di espedienti simili. Lo stemma dell'Accademia, il clan intellettuale di Marino, viene sostituito con le insegne familiari e la formula dell'altarino allegorico con ritratto può essere facilmente adattata ad un aristocratico che si distinse nell'arte delle armi.
'Il fin la meraviglia': la dicotomia della morte barocca
Il Cavalier Marino ha ben sintetizzato nel motto “il fin, la meraviglia” lo scopo della sontuosa ridondanza barocca: lo stupore non è solo un vezzo ma è vero e proprio linguaggio retorico e allegorico attraverso il quale trasmettere messaggi.
La festa e il convivio, eventi estetici in cui il committente ostenta potere e buon gusto, sono il paradigma naturale di questa “meraviglia”: attraverso apparati effimeri che stupiscano e sconvolgano il signore celebra, ammonisce, moralizza e trova la sua collocazione ben precisa in un tessuto sociale e valoriale.
La ricerca spasmodica dell'estetico, del magnifico e del “piacere dei sensi” funzionale e non fine a sé stesso non risparmia nessun ambito: è proprio questa ricerca che fa' affermare al diarista Giacinto Gigli alle esequie del Sacchi: “La Chiesa si presentava apparata di negro dalla volta fino a terra ma non erano però i panni neri interi, ma rimanevano i pilastri bianchi (….) acciò che comparisse l'apparato mesto ed allegro” e ancora “il chiaro oscuro dilettava su una conforme mestizia l'occhio dei riguardanti” “la disposizione dè lavori(...) rendeano la vista ancorchè funebre, dilettevole”.
Questa dicotomia dell' “allegrezza di morte” si sintetizza nella scelta dei colori panna e nero per l'addobbo, quasi in uno Yin e Yang ante litteram.
Ma la grande invenzione del barocco è il dinamismo, la torsione, la spirale in movimento e gli apparti effimeri della festa funebre non fanno eccezione: la “mors victa” Cinquecentesca si esaspera in un'apotesi del vitalismo del “corpo di morte” (come veniva chimato lo scheletro nel XVII secolo). Un corpo vero e proprio dunque che nelle declinazioni posturali e anatomiche delle sue ossa esplode di vitalità e sfiora quasi il sensuale, riproponendo l'ossimoro paradossale di una “morte viva”, briosa, accattivante.
Abbiamo voluto rendere questo concetto sia a livello iconografico che tramite le statue umane che si animano nel Prologo di apertura del convivio, tanto per chiarire inequivocabilmente i capisaldi del tema della “morte barocca”.
Gli apparati effimeri in tutta la loro intierezza, le insegne familiari, simbolo di potere terreno e transeunte, i trionfi edibili a tema che permettono di “mangiare la morte” in un rito di esorcizzazione: ebbene tutto diventa forma stessa di questa dicotomia. Costruiti pazientemente per una immediata distruzione, celebrano il più alto trionfo dell'allegoria.
L'allegoria, tra natura e architettura
Nel barocco la realtà data è un elemento di scarso interesse: ben più interessante è ciò che a questa realtà viene sovrapposto per farla sembrare qualcos'altro e raccontare storie e situazioni lontane interi universi da quella realtà.
E' ciò che avviene, per fare un esempio macroscopico, tramite le numerose “finte facciate” e “finte porte” che di volta in volta vestono le chiese, i palazzi nobiliari e l'arredo urbano di atmosfere a tema mitologico, fantastico o per l'appunto funebre. Particolare attenzione viene riservata agli apparati effimeri delle porte: il valore simbolico e allegorico del “passaggio” è palese e viene amplificato da figure simboliche che sbarrano o agevolano l'ingresso e da effetti scenici che con espedienti dinamici spettacolarizzano il momento.
Ci siamo ispirati all'apparato effimero concepito da Cesare dè Fiori per le esequie della Duchessa di Ossuna (1671), in cui una pietra con impresse le insegne della famiglia si disgrega tra le mani di due figure allegoriche contrapposte, rendendo possibile il passaggio e simboleggiando l'abbandono delle glorie terrene (che essendo di pietra sembravano solide e infrangibili ma non lo sono!) verso quelle più vere e durature del cielo.
L'architettura si fa' allegoria anche nella credenza a tema: l'elemento architettonico della piramide è sin dagli egizi una forma di perfezione, che evoca il divino e l'ascesa verso il cielo. Questa forma è rintracciabile in numerosissimi catafalchi funebri e altarini commemorativi: Gian Lorenzo Bernini ad esempio realizza in questo modo la stragrande maggioranza dei suoi apparati effimeri a tema funebre, due per tutti quello per Maurizio Mattei e quello per il duca di Beaufort, che funsero anche da “espositori” dei cimeli e delle insegne dei defunti.
La piramide, come emerge da alcuni studi dello scienziato ed egittologo attivo a Roma nei primi anni del '600 Athanasius Kircher, conosce nel XVII secolo una fortuna che và ben al di là del valore estetico-simbolico, caricandosi di significati esoterici e di veri e propri “poteri energetici”conferitigli dalla sua proprietà di filtrare la luce e di collegare gli elementi.
La credenza, che è in effetti l'espositore delle più fini e ricche apparecchiature della famiglia, non può essere avulsa dal contesto e si carica anch'esso di significati allegorici.
La Natura e la realtà possono essere coperte, trasformate, trasfigurate, ma possono anche diventare una fonte di ispirazione, come nel caso del cipresso, albero di sapore funebre allora come oggi.
Cipressi artificiali costituiti da spirali di candele, ricoperti da verzura e terminanti con un “pennacchio” in foglie stesse dell'albero sono visibili in numerosi catafalchi e addobbi funebri durante tutto il secolo XVII, tutti palesemente ispirati alle colonne tortili del baldacchino di San Pietro, realizzato da Bernini tra il 1624 e il 1630: il progetto dove li troviamo più compiutamente dettagliati nella loro realizzazione (e al quale ci siamo ispirati) è quello di Giovan Battista Contini per le esequie di Bartolomeo Ruspoli (Roma, 1681).
L'architettura torna agli elementi naturali introdotti nella struttura dinamica della “torsione” della spirale con tutta la loro veridicità.
I cipressi di ceri introducono un altro elemento naturale caricato di fortissimi significati allegorici e “manipolato”, amplificato, filtrato dagli apparati effimeri: la luce. Non è un caso che questo apparato di cipressi sia stato utilizzato in quella che è rimasta nota come la “messinscena retorica della Luce” allestita per il funerale di Carlo XI di Svezia nel 1697.
La Natura è il tema d'ispirazione delle portantine dei piatti e dei trionfi che, ispirandosi al tema dato degli “uccelli d'aqua”, ricreano ambienti palustri in cui si innestano il mitologico, il fantastico, il meraviglioso.
La portantina dedicata alla vicenda di Leda e il Cigno, in cui non mancano gli elementi di rito dell'effimero barocco, ovvero il movimento delle figure umane e il mirabile dell'incantesimo e della trasformazione, si inserisce nel filone vastissimo delle allegorie semoventi, in cui si cimentarono tutti i grandi architetti del barocco romano (primi fra tutti Bernini e Schor) e che rappresenta una vera forma simbolica di questo secolo dinamico, instabile, mutevole e proiettato verso la comunicazione.
Intrattenimenti e spettacolo
Un intrattenimento per un convivio funebre potrebbe suonare per noi contemporanei come un ossimoro, una contraddizione in termini: è invece nell'ottica barocca una ghiotta occasione per moralizzare, formare, propagandare in una circostanza in cui sono garantiti il giusto pathos e una sicura attenzione di pubblico.
E' questo lo spirito che di certo animò Emilio de’ Cavalieri nel comporre “La Rapresentatione di Anima et Corpo”, una rappresentazione cantata e recitata che di certo costituì l'evento clou dell'anno santo 1600. Può essere considerata la prima “opera lirica “ a tema sacro e l'impiego di balletti e intermezzi la rendono assolutamente unica nel suo genere e lontana da tutti gli altri generi sacri in voga fino a quel momento.
E' inequivocabile che lo scopo sia quello di divertire, intrattenere, offrire un appagamento estetico nell'occasione di porre la questione del contrasto tra fascinazioni della carne (corpo) e la vera vita a cui aspira l'Anima, accessibile solo attraverso la Virtù e la temperanza. Il prologo dell'opera, in cui viene presentato il tema dell'opera attraverso una carrellata di figure allegoriche dinamiche, non poteva rappresentare apertura e premessa migliore al nostro convivio.
Il leitmotiv della morte come redenzione e passaggio alla vera vita è incarnato pienamente nella vicenda di Tancredi e Clorinda narrata dal Tasso nella Gerusalemme Liberata: il cavaliere cristiano trafigge a morte un infedele sotto le cui mentite spoglie si cela la sua amata Clorinda. Tancredi sacrifica il suo amore carnale e battezza la bella pagana, che liberata dal peccato originale sale serena al Paradiso.
Questa vicenda paradigmatica, spesso narrata nell'iconografia del tardo Cinquecento e rappresentata con duelli coreografati, è così nota e cara al pubblico all'inizio del XVII secolo che Claudio Monteverdi nel 1624 né fa una straordinaria trasposizione in musica. La nostra scelta è stata quella di riproporre questo duello allegorico in forma parlata ma con un commento musicale ( Pavana e Gagliarda, Pierre Phalese, XVI secolo e Preludio dal Prologo dell'Orfeo di C.Monteverdi) che ne sottolinea, in modo filologico e pertinente, tutta la tensione drammatica e l'intento didascalico.
Particolare attenzione è stata dedicata anche alle bardature dei due personaggi, che rispecchiano una visione dell'antico e dell'esotico tutta filtrata attraverso i canoni estetici e le nozioni del primo '600.
La lettura dell'orazione funebre è un momento topico delle celebrazioni del lutto: veniva dato mandato di comporre e talora anche di leggere i versi commemorativi ad un poeta o letterato di professione (nel nostro caso Messer Durante Dorio da Leonessa, un letterato locale noto per aver compilato l'Historia della Famiglia Trinci).
Nel barocco il frivolo, l'effimero e il voluttuoso, come ad esempio la danza, sono legati a filo doppio alla loro funzione moralizzatrice e sono efficace strumento di indottrinamento nell'intrattenimento: è esattamente l'operazione che compie nel 1638 Stefano Landi a Roma musicando un poemetto sulla vita e il martirio di Sant'Alessio scritto da Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX.
Nasce così il Sant'alessio, una sontuosa sacra rappresentazione che nei teatri delle più illustri famiglie cardinalizie dell'Urbe riuscì a coniugare magnificenza dell'allestimento e dell'organico, danze, effetti speciali e una delle più efficaci propagande di fede che la Controriforma abbia mai conosciuto.
Il Balletto delle Virtù è l'acme di questa operazione scenica: Sant'Alessio è stato martirizzato ed ora viene accolto in Cielo da schiere di angeli, pronti a fargli godere la meritata ricompensa. Le figure allegoriche delle Virtù danzano per ricordare che chiunque può essere un “Sant'Alessio” e godere del Paradiso, seguendo la via della rinunica e del martirio e unendosi alle schiere dei Santi che accrescono la gloria della Chiesa e il potere della “felice Roma” a cui si inneggia nel finale.
Tutto l'intrattenimento musicale selezionato per il convivio è stato attentamente selezionato in un range cronologico che va dal 1550 al 1630 circa, opportunamente adattato per l'organico a disposizione (polifonia a 5 voci e ensemble strumentale) ed eseguito secondo prassi antica su riproduzioni di strumenti dell'epoca.
Vicenda e personaggi
La sede prescelta per il Convivio è l`antica residenza gotica dei Varini, famiglia notabile di cavalieri assurta nel Quattrocento alle più alte cariche cittadine. Il palazzo passa però agli inizi del XVII secolo alla famiglia Marcellesi, gli ideali ospiti del nostro banchetto.
Il soggetto drammaturgico, scritto ad hoc per l'evento e ispirato allo stilema classico della vicenda omerica di Ulisse, ha cercato di ricreare un ambiente il più possibile credibile e di introdurre fugure sociali tipiche di un ambiente sociale altolocato del primo '600.
Le vicende familiari degli ospiti si snodano intrecciandosi con interventi di soggetti esterni: il curatore, imprescindibile amministratore dei beni familiari a sostegno della vedova, il suo confessore, il medico. Queste ultime due figure incarnano i due volti di una “scienza” permeata di teologia e di una Chiesa scossa nel profondo da un mondo di scoperte in continua evoluzione.
Il legame tra teologia, scienza e cibo, caratteristico del periodo, viene esplicitato tramite un espediente teatrale (e gastronomico) che fà riferimento al trattato “La Singolar dottrina” di Domenico Romoli detto Panonto(1560).
Un trattato che è a metà tra il manuale del perfetto scalco (e chi più di lui poteva esserlo, dopo aver servito alla mensa di Papa Leone X), un'enciclopedia della cucina del tempo e un volume di scienza dell'alimentazione. La seconda parte dell’opera è infatti dedicata alla qualità dei cibi, alle diete da osservare, agli effetti che le vivande possono produrre a danno o a profitto della salute e addirittura agli esercizi fisici convenienti nelle varie stagioni dell’età, confermando l'inscindibile legame che susssiste tra cibo e scienza nel XVII secolo.
Il Romoli fa, spesso riferimento alla teoria degli umori, secondo la quale ogni disturbo fisico e psicologico era causato dal prevalere di un solo umore sugli altri 3 per cause astrali: nel caso della “melanchonia” della nostra vedova, causata appunto da un eccesso di “bile nera”, il Panonto indica come risolutivi i CAPPERI “.quei che mangeranno non hauran dolore di milza, ne di fegato...son contrari alla melanchonia” e poco più avanti non manca di specificare che “fan vivace il coito”.
Per contestualizzare storicamente e geograficamente la vicenda sono stati inseriti anche personaggi di ampio respiro intellettuale, come il letterato Durante Dorio da Leonessa (1571-1645), notissimo a Foligno nei primi decenni del 1600 per la sua attività di cronista e storico del territorio, e come lo scultore Francesco Mochi(1580-1654), che operò a Orvieto tra il 1603 e il 1608, prima di spostarsi a Piacenza e poi a Roma al servizio dei Barberini. Mochi è un grande nome della scultura, che si distinse non solo nei soggetti sacri, ma anche nei ritratti funebri, come nel caso del busto del Cardinal Ladislalo d'Aquino e del monumento funebre di Nicolò Ardinghelli nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma.
L'inserimento di un personaggio abituato alle committenze delle grandi corti, dalle richieste economiche sicuramente esose e molto impegnative per una famiglia della nobiltà di provincia, contribuisce a rendere la scena grottesca e , con qualche licenza teatrale che ci siamo concessi, quasi ridicola quando il grande scultore viene canzonato per il suo progetto e liquidato senza troppe cerimonie.
Banchetto funebre
Il banchetto nel diciasettesimo secolo e più in generale la questione dell’alimentazione ha implicazioni ben più vaste di quelle semplicemente connesse al riempirsi lo stomaco e ostentare opulenza.
Non possiamo prescindere dal problema medico scientifico legato all’alimentazione.
I libri dei medici e degli umanisti facevano esplicito riferimento alla teoria ippocratica degli umori e al giusto regime dietetico che avrebbe dovuto mantenere l’equilibrio tra di essi, curando e prevenendo i malanni nessun trattato di cucina tra il 500 e 600 fa eccezione, compreso quello a cui facciamo esplicito riferimento nella nostra vicenda.
Domenico Romoli fa parte infatti di quella fitta schiera di figure intermedie tra il cuoco, il maestro cerimoniere e per dirla con un termine moderno il nutrizionista, dedicando nel suo trattato ‘La Singolar dottrina’ larghissimo spazio agli effetti e alle proprietà degli ingredienti sul fisico.
Fa da contro altare alle argomentazioni scientifiche, talvolta intrise di teologia, del trattato sul banchetto barocco, l’esigenza più verace del momento conviviale, ovvero l’ostentazione di potere, la meraviglia e la catarsi.
Leggendo trattati come quello dello Scappi o del Platina è facile sorprendersi di come il numero delle portate fosse davvero notevole e le modalità di servizio fossero vere e proprie coreografie, spettacolari e composite.
Anche il banchetto funebre non fa eccezione: dall’antichità pagana il convivio in onore del defunto è un momento in cui si chiama a raccolta la famiglia e la comunità intorno a tavole riccamente imbandite, mangiando per ricordare ed omaggiare il morto ma soprattutto la vita stessa di chi resta, in un rito di esorcizzazione collettivo.
In numerose culture esistevano gli usi, in alcuni casi presenti ancora oggi ad esempio in Sicilia e altre regioni del sud di creare feticci edibili in forma di teschio ed ossa.
Abbiamo traslato queste tradizioni, adattandone il codice estetico, al trionfo edibile della tavola barocca, rifacendoci nella fattispecie ad un resoconto di un banchetto per Cristina di Svezia a Palazzo Riario in cui si riferisce che furono serviti sulle alzate e mangiati angeli, cuori trafitti e coronati ed altre figure della simbologia cattolica legata alla morte.
La possibilità di ‘ mangiare la morte’ rappresenta nel convivio funebre barocco una raffinata forma di esorcizzazione allegorica che nel lusso e opulenza del banchetto sublima la precarietà di un esistenza a costante contatto con epidemie, malattie, violenza sociale e cataclismi.
Elemento simbolico del banchetto funebre è il seme che da origine alla vita germogliando dalla terra. In questo caso abbiamo scelto i ceci già in uso con questo significato in epoca romana ed etrusca.
Note gastronomiche
Il tema volatili d’acqua ci ha orientato a scegliere un menù ricco a cavallo tra la tradizione umbra, ricette filologiche e adattamenti in stile.
La Foyata, pasticcio tipico del territorio che prevede nella sua versione tradizionale un ripieno di verza e salsiccia di suino è da noi proposta in una versione arricchita dalla polpa di salsiccia d’oca.
Come piatto gara ci siamo ispirati al vezzo antico di celare nel ventre di animali piccoli animali di taglia più grossa e diverso tipo di carne. In questo caso abbiamo preparato un’anatra con ventre riempito di cinghiale marinato agli odori del bosco e spezie, mentre le carni dell’anatra sono insaporite da lardellatura e pancetta secondo l’uso del tempo.
La portata del piatto gara è affiancata da ricchi accompagnamenti tra i quali spicca il tortino di Roveja antico legume simile al pisello tipico della zona umbro marchigiana; la sua natura di cibo povero è qui nobilitata dal condimento di uova, formaggio e ricotta.
Altro immancabile accompagnamento sono le uova sode sempre presenti sulle tavole nobiliari del XVII secolo. Persino il Re Sole ne era un ghiottone, arrivando a consumarne fino a 12 al giorno.
Come intermezzo prima del dolce serviamo uno sfizio a base di capperi, seguendo le indicazioni che Domenico Romoli ci dà su questo ingrediente nel suo trattato ‘La Singolar dottrina’: .quei che mangeranno non hauran dolore di milza, ne di fegato...son contrari alla melanchonia” e poco più avanti non manca di specificare che “fan vivace il coito”.
Nell’assortimento dei dolci non può mancare un pasticcio di frutta di stagione in crosta aromatizzata alla cannella, spezia preziosa e rinomata.
Completano la varietà dei dolci: la cotognata, dolce di memoria medievale la cui preparazione con senape e zucchero senza mosto risale al XVII secolo in Belgio; la zuppa di lamponi, per la quale ci siamo ispirati alla ricetta di Pierre de Lune ne le Cuisinier del 1656; Maccaroni di mandorle ispirati agli antenati dei macarons tanto amati da Caterina de Medici nel 500; fichi ripieni di frutti di stagione per rinfrescare il palato; per concludere un corroborante e ben augurale brindisi con il vino degli dei che nel solco della tradizione romano e medioevale del vino dolce e speziato, viene codificato in ricetta di gradevole bevanda ne ‘ Le confiturier française’ del 1650.
PRIMA PORTATA DI CREDENZA
1) FOYATA ALLA POLPA DI INSACCATO D’OCA IN CROSTA
2) PRESCIUTTO OTTIMO DI CERVO SU CREMA DI MANDORLE E CACIO GRASSO DI CAPRA
3) PETTO D’ANATRA IN MISTICANZA DI MORE, FICHI ET UVA
4) RICOTTA IN FORMA ET FRUTTI DELL’ORTO
5) ERBETTE ODOROSE DEL CAMPO CON POMI ACERBI E SAPA
6) POTAGE DI SEDANO RAPA E PERNICE
PRIMA PORTATA DI CUCINA
7) MINESTRA DI QUADRI E CECI IN BRODO DI GERMANO REALE CON ORTICA
SECONDA PORTATA DI CUCINA
8) ANATRA GRASSA CON VENTRE DI CINGHIALE DI SELVA LARDELLATO ET RICCO DI FICHI
9) TORTINO DI ROVEJA CONDITO CON CACIO GRATTATO E RICOTTA
10) VERDURE TORNITE
11) TRIONFO DI UOVA SODE D’OGNI SORTA DI VOLATILE
12) DEL CAPPERO I FIORI IN PASTELLA DORATA
SECONDA PORTATA DI CREDENZA
13) PASTIZZO DI PERE E PROFUMO D’INDIA REGALATO CON SALSA DI VINO E MORE CON ZUCCARO
14) SUPPA DOLCE CON LAMPONI DI FORESTA, MERINGHETTE ET BISCOTTI INTINTI
15) AMBRA DI POMI COTOGNI CON ZUCCARO
16) SPUME D’ANGELI FRAGRANTI DI MANDORLE
17) SORPRESA DI FINE ESTATE IN FICHI GROSSI
VINO DEGLI DEI
BIBLIOGRAFIA
- Corpus delle feste barocche a Roma/1 - La festa barocca, Maurizio Fagiolo dell'Arco ed. De Luca , 1997
- L'effimero barocco: strutture della festa nella Roma del '600 vol. 2, Maurizio Fagiolo dell'Arco, ed. Bulzoni , 1977
- Il barocco in tavola, Raffaele Riccio, Atesa editrice, 2001
- “La Singolar dottrina” di Domenico Romoli detto Panonto. Ed. Spineda, Venezia, 1610
Making off dell'evento, alcuni scatti del tantissimo lavoro