Vittorio Amedeo si recò in Sicilia solennemente, facendosi incoronare nella cattedrale di Palermo nel 1713. Il trono di Sicilia lo conservò per sette anni, fino al trattato dell’Aja (1720). La diplomazia europea aveva dovuto fare i conti con l’aggressivo ritorno dell’imperialismo spagnolo fomentato dal cardinale Giulio Alberoni, e per incastrare l’astuto ministro, ci fu bisogno dell’Austria che ovviamente chiese i suoi bravi compensi: le quattro grandi potenze stabilirono di togliere la Sicilia al Piemonte, che con Napoli e Milano sarebbe andata all’Austria, e di compensare Vittorio Amedeo con la Sardegna, perché potesse conservare il suo titolo di re. Vittorio Amedeo fu colto di sorpresa e cercò in tutti i modi di sottrarsi a questo scambio: arrivò addirittura a proporre la rinuncia al Piemonte, se in cambio gli avessero dato la Sicilia e Napoli.
Sebbene piemontese Vittorio Amedeo era pronto ad abbandonare la sua terra e i suoi sudditi, pur di assicurarsi un regno; e ciò fa capire quando poco contasse al tempo, la sorte dei popoli nel gioco politico unicamente imperniato sugli interessi dinastici. La cosa in quell’epoca non era scandalosa, del resto vi erano miriadi di “monarchie nomadi” che consideravano il trono un semplice bene di famiglia e i regni venivano scambiati con la massima naturalezza. I piani di Vittorio Amedeo andarono però a monte ed egli decise di accettare e di mettersi all’opera per organizzare i suoi stati, vecchi e nuovi. Cosa non semplice dal momento che avrebbe dovuto fonderli sotto uno stesso organico e sotto le stesse leggi. La Savoia, sua terra di origine ne fu lasciata fuori perchè al Piemonte essa era legata solo da un vincolo di fedeltà che durava da secoli. Il sovrano le consentì di conservare la propria autonomia, con il Senato e la sua magistratura.
La Sardegna fu invece abbandonata a se stessa essendo lo Stato Sabaudo privo di una flotta. Era una terra arretrata e il re badò solo a mantenervi l’ordine con le sue guarnigioni e a mietervi reclute per il suo esercito. Vittorio Amedeo consacrò le sue energie al Piemonte che stava assumendo le sembianze di un vero e proprio stato, solidoe compatto. Egli seguì il modello delle monarchie assolute con un governo centralizzato e una puntigliosa burocrazia, combattendo le autonomie locali. L’aristocrazia che aveva fino ad allora mantenuto alcuni privilegi, naturalmente fu la prima vittima di questi cambiamenti e molti nobili dovettero rinunciare ad alcuni feudi di cui si erano impadroniti nell’ultimo secolo. Vittorio Amedeo ne disconobbe la leggitimità, li tolse ai proprietari e li vendette con relativo blasone a gente di estrazione borghese che si era distinta nei servizi resi allo Stato. In questo modo rimpolpò le finanze e creò una nuova nobiltà legata al regno da un vincolo di riconoscenza.
Vittorio Amedeo sognava l’autarchia ma l’agricoltura piemontese era prettamente collinare e di montagna mentre l’industria era ancora allo stato artigianale. Il Re fece del suo meglio sottoponendo le associazioni sindacali ad un rigido regolamento. Si accorse presto che ciò che mancava erano le qualifiche professonali, mancavano il lato tecnico, le nozioni, i capitali. Pur non avendo mai sentito il bisogno di istruirsi ebbe il buon senso di capire cheuno Stato efficiente aveva bisogno dell’istruzione. I suoi rozzi predecessori avevano lasciato cadere l’Università di Torino; egli la riordinò e la sottrasse ai gesuiti laicizzandola. Cosìla scuola divenne un organo dello Stato. Sotto di lui la città di Torino subì un ammodernamento. Chiamò vari architetti fra cui Filippo Juvarra che fuse in maniera felice i due stili della città: lo stile classico e lo stile barocco. A lui sono dovuti Palazzo Madama, la Palazzina di caccia di Stupinigi e la basilica di Superga.
Scrive il De Brosses che visitò in quegli anni la città: “ Torino mi sembra la più bella città d’Italia, e forse d’Europa. È vero che non vi si trova, o per lo meno è raro, quel grande stile architettonico che domina in alcuni monumenti delle altre città; ma non vi è neppure il fastidio di vedere delle capanne a fianco dei palazzi.”
La mancanza dei contrasti architettonici era la prova della mancanza di contrasti sociali: i signori erano meno signori, e la plebe meno plebe che altrove. Vittorio Amedeo era un gran lavoratore e il regime che si respirava a Torino assomigliava a quello di una caserma. Per meglio controllare la capitale l’aveva divisa in 60 “cantoni” e 119 “isole”, ciascuna con il proprio responsabile. Appena la campana della torre suonava l’Ave Maria, le porte di Torino venivano chiuse, e nessuno poteva uscire o entrare senza un permesso speciale. Il Re ispezionava personalmente le strade, senza scorta, rinfagottato in un cappotto di panno turchino, e con un cappello calato sugli occhi; fermava i passanti attaccando discorso, e sovente si fermava a far colazione nella bottega di un farmacista suo amico.
Con gli anni il suo carattere era diventato sempre più spigoloso anche a causa di alcune disgrazie familiari: il primogenito, che portava il suo stesso nome e che prometteva bene, era morto a soli 16 anni; le amate figlie, Adelaide andata sposa al Duca di Borgogna, e Luisa moglie di Filippo V di Spagna, morirono giovanissime. Non aveva altri affetti e trattava con rudezza anche la moglie e le amanti. Con i suoi collaboratori più intimi, D’Ormea e Bogino, non si apriva mai. Non rivelava i suoi piani a nessuno, prima di averli messi in opera. Per lui l’Italia era “un carciofo da mangiare foglia a foglia”. E questa fu la regola di tutti i suoi successori fino a Vittorio Emanuele II. Era abituato a fare tutto all’improvviso e improvvisamente prese la decisione di abdicare in favore del figlio Carlo Emanuele, nel 1730.
Dopo averne dato l’annuncio partì per Chambéry, in Savoia, assieme alla seconda moglie, la contessa di San Sebastiano, che aveva sposato morganaticamente appena un mese prima. Non volle assistere nemmeno alla cerimonia di incoronazione del figlio. A 60 anni voleva trascorrere in pace il poco tempo che gli rimaneva. Ma dopo qualche tempo quella pace si trasformò in noia.
Forse non approvava la politica del figlio o forse si era semplicemente pentito, fatto sta che decise di tornare a Torino per riprendersi il trono, dopo avere chiesto il parere alla moglie che però evitò di prendere una posizione. Si recò con lei a Moncalieri, senza che nessuno fosse avvertito. Dettò l’annuncio del suo ritorno sul trono a un segretario che riteneva fedele; era forse la prima volta che si fidava di qualcuno e fu mal ripagato. La notizia fece immediatamente il giro e l’Ormea riunì il Consiglio di Stato. Il nuovo re voleva restituire il trono al padre ma il ministro si oppose sostenendo che dopo l’abdicazione Vittorio Amedeo era solo un suddito come tutti gli altri e il suo gesto punibile come atto di fellonia.
L’ex sovrano fu arrestato a Moncalieri come un delinquente e condotto a Rivoli sotto scorta; la moglie venne addirittura gettata in carcere nella prigione della Ceva. La liberarono molti mesi dopo per riaccompagnarla a Chambery dove era stato confinato Vittorio Amedeo, sotto sorveglianza.
L’anziano sovrano, non si riebbe più dal colpo. In punto di morte chiese di poter riabbracciare il figlio che a sua volta non chiedeva di meglio. Ma il solito ministro, l’Ormea, lo impedì. Questi fu molto criticato per la sua inumanità e durezza ma probabilmente agì in questo modo per mero calcolo politico, avendo paura di perdere il posto con un eventuale ritorno del vecchio re. Va comunque sottolineato che l’episodio dimostra come il Piemonte fosse ormai da ritenersi uno Stato con il quale anche i suoi re, sebbene assoluti, dovevano fare i conti.