Il gioco nel periodo barocco
Scritto da Laura Savani. Pubblicato in mirabilia
Le corti europee erano spazi molto più uniformi ed omogenei di quanto non si pensi, con un ordine e regole ben precisi.
Il “ludus”, per esempio, era un vero e proprio linguaggio che travalicava le frontiere nazionali. Le carte da gioco costituivano una forma di idioma comune, condiviso all’interno di questo mondo. Non si parlava solo il linguaggio dei suoni, ma anche quello dei codici, degli atteggiamenti, dei ruoli e dei riti. Il linguaggio del gioco era certo il più diffuso. Era dunque indispensabile, per le persone che frequentavano le corti, avere dimestichezza con le carte da gioco, tavolieri e dadi, perché erano il passe-partout per inserirsi ed essere notati.
Charles-Nicolas Cochin fils, "Il tavolo del faraone" a Versailles all'epoca di Luigi XV
Un elemento che alimentava questo spazio extraterritoriale era il carattere transnazionale del gioco. Un gioco divenuto popolare perdeva la propria connotazione geografica e si diffondeva in maniera capillare. Il gioco della “primiera” era tipicamente italiano ma conosciuto in molti altri paesi europei come quello del “tressette”.
Conoscere il gioco era insomma un bagaglio assolutamente indispensabile per un viaggiatore e ancor più per i cosiddetti avventurieri, che erano sempre pronti a sedersi ad un tavolo verde, qualunque fosse il gioco in questione, per approfittare della dabbenaggine di alcuni.
Per le signore era invece necessario conoscere qualche gioco di carte per poter intessere la sottile trama di seduzione e lasciarsi corteggiare dal gentiluomo di turno la cui benevolenza e cavalleria era direttamente proporzionale al denaro che si lasciava vincere dalla bella del momento. L’azzardo puro era invece lasciato agli uomini ma anche molte dame ci sapevano fare e partecipavano attivamente ad accanite partite dove spesso si perdevano vere e proprie fortune.
Nel XVIII secolo, che fu il secolo della “conversazione” il gioco completava il quadro e i rituali del vivere pubblico. Chi giocava, oltre alle regole doveva conoscere anche molti trucchi, primo fra tutti quello di filare, cioè sfilare dal mazzo le carte più opportune al gioco, come quello del “Faraone” e della “Bassetta”. Una miriade di grandi bari e piccoli truffatori si aggiravano nelle corti europee. Il mondo ludico settecentesco era smaliziato, pieno di trucchi e inganni, di tecniche e strategie.
Nelle sue “Memorie” Casanova dedica pagine e pagine alla descrizione di giochi o di situazioni di gioco e le sue pertinenti riflessioni ci garantiscono la sua competenza e completa conoscenza sull’argomento ed integrano la nostra con preziose osservazioni. Egli cita ben 22 giochi diversi e centinaia di situazioni divenendo per noi una miniera di notizie senza pari sul gioco nel XVIII secolo. Egli ci descrive,ad esempio, una memorabile partita a “picchetto” durata ben quarantadue ore, un vero e proprio compendio del giocatore presuntuoso e testardo che trova un avversario altrettanto caparbio da lanciare una sfida all’ultimo sangue: “ero deciso a vincere o a cedere la vittoria al mio antagonista solo al punto in cui fossi caduto morto”.
Nel 1758 Casanova sarà protagonista della gestione della “Lotteria della scuola militare”, a Parigi, dove per lotteria si deve intendere “lotto genovese”, novità assoluta per la Francia ma che in Italia e a Venezia era già diffuso.
Quello della confusione lessicale nei giochi di estrazione è un problema ancora attuale e bisogna tener presente che quello che in Francia chiamano lotto è il gioco conosciuto in Italia come “tombola”, mentre il francese tombola equivale all’italiano “lotteria”.
Sempre a proposito di giochi di estrazione va citato il “Biribiss”. Diffuso nel XVII secolo, gia regolamentato nel 1665 in Savoia è stato più volte rappresentato in quadri e disegni per la particolare iconografia del tavoliere di gioco, a 36, 42, 64, 70 o 80 caselle. Una delle più singolari e conosciute rappresentazioni è quella effettuata dall’incisore bolognese Giuseppe Maria Mitelli nel suo famoso Zugh d’tutt i zugh del 1702, tavoliere per gioco di dadiche vedeva raffigurati 19 diversi giochidi quel tempo, tra cui quello del biribiss.
La cosa che salta agli occhi a chi osserva il biribiss, fosse anche per la prima volta, è la sua incredibile affinità con il tappeto della roulette, tanto che senza ombra di dubbio si deve considerare antenato della roulette stessa, non per il meccanismo di determinazione del numero vincente (nel biribiss si procede ad estrazione in un sacchetto con tutte le palline, nella roulette un’unica pallina corre all’interno di una ruota suddivisa in trentasette caselle numerate) ma per il tavoliere da gioco, con la suddivisione in 36 numeri di colore diverso ed alternato, la possibilità di effettuare combinazioni di gioco e non solo numeri pieni.
Il gioco principe del settecento in Europa e nella stessa Venezia, che in quegli anni svolgeva il ruolo di “città da gioco” è quello del “Faraone”, un gioco d’azzardo con le carte. Si giocava con due mazzi, fra un numero illimitato di giocatori, uno dei quali teneva il banco. Del Faraone Casanova ci rivela, oltre ad innumerevoli note di costume efficaci ed interessanti, gli aspetti meno romantici o letterari e ci parla quindi di tecniche di puntate, come quella della martingala, a dire il vero propria di tutti i giochi d’azzardo e che consiste nell’aumentare progressivamente la posta per cercare di recuperare le puntate perdute ed è una tecnica che può rivelarsi devastante in un lasso di tempo brevissimo.
La “Bassetta” invece era un gioco che in quel periodo aveva già passato il suo momento di fulgore ed era stato sostituito nel cuore dei giocatori d’azzardo dal faraone. La bassetta ha origini molto lontane, tanto che appare in Italia già nella seconda metà del Quattrocento ed è stata importata in Francia direttamente da Venezia, città dove si suppone abbia avuto origine, dall’ambasciatore della Serenissima Giulio Ascanio Giustinian nel 1674. In Francia, soprattutto a Parigi, trovò consensi incredibili tanto da divenire un vero e proprio status symbol e oggetto di interessi letterari.
Insomma per le autorità, l’unica vera preoccupazione era il gioco. Tutti erano contaminati da questo demone. Venezia era piena di casinò, ce ne erano ovunque. Ma il più celebre era il Ridotto. Il governo lo teneva in vita perché era la più ricca fonte di introiti. Ma alla fine si rese conto che, inghiottendo i patrimoni della nobiltà, esso la indeboliva anche politicamente, e nel 1774 ne decretò la soppressione. Il rimedio si rivelò peggiore del male.
“Tutti i veneziani sono caduti in una crisi d’ipocondria. I mercati non riescono a vendere più nulla, i fabbricanti di maschere sono alla fame, e i nobili Barnabotti, che maneggiavano le carte dieci ore al giorno, hanno le mani atrofizzate. I vizi sono assolutamente necessari alla vita dello Stato.” Così scrive il Goudar. I rimedi furono presto trovati. Visto che il Ridotto era abolito, tutto si trasformò in ridotto: i salotti, i circoli, i caffè, le case delle cortigiane. Il Ballarino scrive: “Vi si vedono mescolatidame delle maggiori famiglie e miserabili d’infima estrazione. Il procuratore Morosini e molti altri nobili signori vi si affiancano a una turba infame. In ogni angolo si gioca al Panfilo. Qualche donna rimasta a corto di denaro, per poter continuare a giocare e a divertirsi, si presta apertamente al piacere di chi vuole.”
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