La cultura alchemica risale al mondo antico e ha avuto grande seguito soprattutto nel rinascimento. Nel seicento è ancora molto presente tra gli scienziati, anche se si trasforma lentamente. Nel diciottesimo secolo l'alchimia, con l’avvento della scienza moderna, perderà adepti e si modificherà approdando all’odierna chimica.
La pietra filosofale rimane per gli alchimisti la vetta da raggiungere, il traguardo assoluto a cui dedicano tutti gli sforzi. Un cammino di conoscenza anche interiore e di consapevolezza del potere che la conoscenza offre.
L’alchimista viene sempre definito il Filosofo e i suoi allievi o assistenti sono chiamati i figli della scienza.
La grande opera
Non consiste nel fabbricare oro, ma nel fabbricare la pietra polverulenta in grado di convertire i metalli imperfetti in oro. Questa pietra è anche una panacea che garantisce la salute e una lunga vita a chiunque ne ingerisca un piccolo quantitativo. Una medicina valida per i tre regni: gli antichi alchimisti parlano infatti di pietra animale o di pietra vegetale, il che non significa che essa sia composta da parti animali o vegetali, ma che ha il potere di purificare anche i corpi animali e vegetali.
Secondo i filosofi l’opera della pietra è un gioco da bambini e un’opera degna di una donna. Questa affermazione può essere interpretata in molte maniere ma in particolare in questa: il lavoro deve procedere come la gestazione di una donna incinta fino al momento del parto.
Il laboratorio
Il laboratorio di un alchimista era in genere composto dai tre apparecchi essenziali: l’athanor (un fornello speciale a fuoco perpetuo), l’uovo filosofale e un recipiente a forma di ciotola, o cucurbita.
Il termine athanor designa una torre in cui si mette del carbone, per mantenere sempre acceso il fuoco in un fornello ad essa collegato. Il materiale con cui si costruisce il fornello è laterizio cotto, o una terra grassa come l’argilla, perfettamente triturata e preparata con letame di cavallo cui è mescolato del crine, perché non esploda e non si incrini per l’effetto di calore prolungato.
Christophe Reibhand, nel 1636, ha descritto gli strumenti di un laboratorio di alchimia, cominciando dalla ciotola piena di ceneri di legno di quercia in cui si colloca l’uovo filosofale, recipiente di forma ovoidale destinato a contenere il composto preparato per la cottura: “Tale recipiente deve essere di vetro resistente o doppio, in grado di sopportare il calore del fuoco come il vetro di Lorena; un uovo di altro materiale non sarebbe adatto all’uso, in quanto il vetro è un corpo trasparente e l’Artista può vedere, attraverso le piccole finestre collocate a questo scopo sul fornello, i diversi colori che compariranno e i mutamenti operati”. L’uovo ha un collo stretto, dalla cui apertura verrà riempito prima di sigillarlo con il sigillo di Hermes, chiudendolo, in maniera impenetrabile, con vetro fuso.
Altri strumenti del laboratorio sono una lampada a olio, un gancio, due bilance con i loro pesi assortiti, una per pesare la materia filosofale fino a sette libbre, l’altra per piccole quantità di poche once di solvente. Fra gli ingredienti dell’alchimista vi sono vari tipi di rivestimenti a base di albume o di amido con cui spalma i recipienti di terra o di vetro che devono essere esposti a un fuoco violento, o per sigillarne le incrinature.
La preparazione
La prima operazione per compiere la Grande Opera è fabbricare la materia prima o composto, che si pone nell’uovo filosofico. Si tratta di creare una materia formata dagli elementi essenziali che contenga in sé i quattro elementi e che sia, al tempo stesso la “semenza”, l’origine dei metalli. E ciò che si definiva azoth, ma che veniva designato anche con oltre duecento termini metaforici: bianco del nero, albero metallico, bene comunicativo, cadmio, acqua vischiosa, cielo mediano, cuore di Saturno, pietra non pietra, sperma di tutto, testa di corvo, visitazione dell’occulto, melanconia, etc.
Il mercurio dei filosofi (elemento femminile) e lo zolfo untuoso (elemento maschile) sono i due elementi essenziali che costituiscono la materia prima. Il mercurio dei filosofi non è l’argento vivo, poiché gli alchimisti distinguevano due tipi di mercurio, il mercurio volgare e il mercurio originario. Il mercurio volgare era un metallo, morto dopo la sua estrazione, simile a un fluido, esistente anche sotto forma di cinabro, di arsenico e di realgar. Analogamente lo zolfo untuoso non era lo zolfo combustibile con cui si faceva la polvere per i cannoni, bensì uno zolfo incombustibile, paragonato allo «sperma dei metalli », in quanto, unito con il mercurio originario, generava i metalli stessi. Il mercurio dei filosofi, solvente composito, in grado di sciogliere l’oro e l’argento comuni, si presentava come un liquido biancastro (e veniva quindi chiamato latte di vergine, bagno del re, mestruo) o come un prodotto fluido, l’acqua secca, analogo al mercurio comune. Ogni operazione era chiamata magistero: vi era il magistero delle polveri (cioè l’operazione di ridurre in polvere un corpo), il magistero dei pesi (aumentare il peso naturale di un corpo senza accrescerne il volume), il magistero di qualità (sottrarre a un composto una qualità nociva, trasformare un veleno in balsamo) e così via. Hanno cercato il loro mercurio dei filosofi partendo dall’arsenico, dall’antimonio, dal salnitro, dal vetriolo e perfino dall’urina.
I mezzi
La Grande Opera dipende da tre tipi di fuoco: il fuoco naturale, il fuoco contro natura e il fuoco innaturale. Si definisce fuoco naturale “quello che nasce ed è interno alle cose stesse”, la temperatura caratteristica di un corpo o, talvolta, quella dei raggi solari; fuoco contro natura è il termine con cui si designano “le acque forti composte da spiriti corrosivi (acidi)”; il fuoco innaturale è quello ottenuto con diversi mezzi artificiali, per raggiungere i quattro gradi di calore necessari ai magisteri. Il numero delle acque degli alchimisti non è certo inferiore a quello dei loro fuochi: c’è l’acqua di cervello (o aqua cerebri = tartaro), l’acqua dei microcosmi (acido nitrico), e perfino l’acqua dei due fratelli estratta dalla sorella (sale ammoniaco o cloruro d’ammonio).
Le fasi
La Grande Opera si compie in tre fasi: la sublimazione (che comprende l’estrazione del mercurio e la putrefazione), la dealbazione (fissazione degli spinti della materia in colore bianco) e la rubificazione. Queste tre fasi sono rappresentate da un pollo con la testa rossa, le piume bianche e le zampe nere che indica i tre colori che il composto deve assumere nel corso delle tre fasi. Prima il nero, poi il bianco e infine il rosso, ma con sfumature intermedie che indicano che si sta progressivamente avvicinando al bianco.
Alla fine di un mese filosofico (quaranta giorni) il composto deve raggiungere il nero della putrefazione: essa viene chiamata rebis ed è raffigurata come l’Ermafrodito, in quanto il suo elemento maschile e il suo elemento femminile sono uniti.
Il composto, dopo aver superato lo stadio del nero assoluto, raggiunge quello di pietra citrina che, ridotta in polvere, diventa l’elisir al bianco perfetto, in grado di trasformare il piombo in argento e di guarire tutte le malattie femminili.
Quando si è ottenuta la pietra, è bene moltiplicarla, ossia produrne la quantità necessaria: « A ogni moltiplicazione la pietra aumenta la propria virtù di dieci volte; e in ciò consiste l’autentica moltiplicazione.» La moltiplicazione si realizza con il mercurio ermetico crudo e l’elisir perfetto: « Conviene ricominciare il lavoro esattamente dall’inizio; tutte le operazioni si succedono le une alle altre esattamente come si erano svolte nella prima opera, ma non durano così a lungo; e, a ogni moltiplicazione reiterata, il tempo necessario sarà sempre più breve e la materia aumenterà incessantemente in quantità e in qualità.»
La trasformazione dei metalli
Il momento supremo è giunto: l’alchimista, che dispone del suo elisir al bianco o al rosso, può incorporare la polvere in un metallo in fusione. Si mette il piombo o lo stagno che devono essere fusi in un crogiuolo, vi si mescola un pizzico di polvere di proiezione, si lascia raffreddare; la separazione delle impurità è così perfetta che esse possono essere isolate ed eliminate facilmente, mentre il pezzo di piombo o di stagno che rimane si trasforma in lingotto d’oro. Solo con il mercurio non vi è residuo, né scoria, tutto diventa oro in un quarto d’ora.
Autosuggestione e trucchi
Anche in tempi recenti esperti chimici in laboratori ben attrezzati hanno cercato di ottener qualcosa ma non ci sono riusciti. Molto probabilmente nei secoli passati gli alchimisti si facevano prendere dall’estro e vedevano oro dove non c’era.
Secondo Otto Tackenius in Hippocrates chemicus (1666), Nicolas Léremy nel suo Cours de chimie (1675) e Geoffroy in un rapporto all’Accademia delle Scienze di Parigi, nel 1722 gli alchimisti usavano dei trucchi: talvolta l’operatore usava un crogiuolo in cui una sottile pellicola d’oro era stata ricoperta da una pasta che simulava perfettamente il fondo; talvolta invece sbiancava l’oro con l’argento vivo e lo faceva passare per un pezzetto di stagno che egli avrebbe trasformato in oro, o ancora, poneva all’interno del piombo dei minuscoli granelli d’oro o d’argento. Altre volte rimescolava il metallo fuso con una bacchetta di legno la cui punta, incavata e opportunamente richiusa con un po’ di segatura, conteneva della limatura d’oro che si depositava sul fondo del crogiuolo.
Le scoperte degli alchimisti
Nonostante il fiasco della pietra filosofale, gli alchimisti a furia di cercarla hanno scoperto cose importanti ed utili anche ai nostri giorni come: l’acqua ragia, il fosforo, il borace, l’alcale volatile (sostanza capace di formare sali con gli acidi), il bismuto, l’antimonio metallico, il sublimato corrosivo, la coppellazione dell’argento e dell’oro (ossia la loro purificazione per mezzo del piombo).
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