Io quando vidi la immagine della Beatrice Cènci, che la pietosa tradizione racconta effigiata dai pennelli di Guido Reni, considerando l'arco della fronte purissimo, gli occhi soavi e la pacata tranquillità del sembiante divino, meco stesso pensai: ora, come cotesta forma di angiolo avrebbe potuto contenere anima di demonio?
Se il Creatore manifesta i suoi concetti con la bellezza delle cose create, accompagnando tanto decoro di volto con tanta nequizia d'intelligenza non avrebb'egli mentito a se stesso? …Così pensando io mi dava a ricercare pei tempi trascorsi: lèssi le accuse e le difese; confrontai racconti, scritti e memorie; porsi le orecchie alla tradizione lontana. …Conobbi la ragione della offesa: e ciò, che persuase il delitto al volgare degli uomini, usi a supporlo colà dove colpisce la scure, me convinse di sacrificio unico al mondo. Allora Beatrice mi apparve bella di sventura; e volgendomi alla sua larva sconsolata, la supplicai con parole amorose:
«Sorgi, infelice, dal tuo sepolcro d'infamia, e svelati, quale tu fosti, angiolo di martirio. Lunga riposa l'abominazione delle genti sopra il tuo capo incolpevole; e non pertanto reciso. Poichè seppi comprenderti, impetrami virtù che basti a narrare degnamente i tuoi casi a queste care itale fanciulle che ti amano come sorella poco anzi dipartita dai dolci colloquii, quantunque l'ombra di due secoli e mezzo si distenda sopra il tuo sepolcro.»
Certo, questa è storia di truci delitti; ma le donzelle della mia terra la leggeranno:−−trapasserà le anime gentili a guisa di spada, ma la leggeranno. Quando si accosterà loro il giovane che amano, si affretteranno, arrossendo, a nasconderla; ma la leggeranno, e ti offriranno il premio che unico può darsi ai traditi−−il pianto.
(Francesco Domenico Guerrazzi, “Beatrice Cenci”)
Una vittima carnefice
Erano le 9,30 dell’11 settembre 1599 quando a Roma, di fronte a Castel Sant’Angelo, per volontà di papa Clemente VIII che, ignorando i ripetuti appelli, non aveva voluto concedere la grazia, Beatrice Cenci venne decapitata, accusata di aver assassinato il padre Francesco, uomo violento e perverso. Insieme a lei, dopo essere stati lungamente torturati, furono giustiziati anche i suoi complici: la matrigna Lucrezia Petroni Velli, che venne meno prima di arrivare nelle mani delle boia, perciò nemmeno avvertì il colpo della mannaia ed il fratello Giacomo al quale toccò un’esecuzione ancora più crudele: stremato dalle torture precedentemente inflittegli, condotto su un carro al luogo del supplizio, mentre ferri infuocati attanagliavano le sue carni, fu ucciso da un colpo di mazza infertogli alla testa poggiata sul ceppo; poi il suo corpo fu squartato, con un "coltello da macellaro" e i pezzi esposti agli uncini del palco; il fratello minore, Bernardo, pure accusato, evitò la pena capitale ma fu costretto ad assistere allo scempio dei suoi cari, restandone segnato per sempre. Beatrice, contrariamente ai complici, conservò fino alla fine fierezza e dignità, ed i romani, che sin dall’inizio del processo si erano schierati dalla sua parte, uniti dal sospetto che la Chiesa volesse incamerare i beni dei Cenci dopo l’esecuzione, in moltitudine, fino a tarda sera, affollarono le strade per andare a depositare fiori, candele e croci dinanzi al corpo straziato della ragazza; pare che tra la folla fosse presente anche il Caravaggio che trasse ispirazione dall’esecuzione per il suo dipinto “Giuditta e Oloferne” e la giovane Artemisia Gentileschi con il padre Orazio.
"…hanno dato la veglia alla zitella per nove ore senza tregua alcuna, fintantoché ella non ha ditto quel che volevano che dicesse...il sistema di far spogliare la donzella di fattezze sì leggiadre e di godere la vista del corpo suo ignudo e rasato sotto la corda, ha rizzato di gran sdegno la gente.."
Secondo quanto riferito dai “menanti”, le cronache del tempo, non pochi furono gli incidenti, i ferimenti e persino i morti, fra il popolo che aveva assistito al macabro spettacolo; molti i feriti calpestati dalla calca, alcuni precipitati dai parapetti nel Tevere, altri colti da collasso o sconvolti dalla crudeltà.
Pietoso il caso di una giovane di diciotto anni avviata a diventare monaca, Maddalena degli Onofri:
" …a veder stroncare la testa alla Cenci e schizzare il cervello dal capo di Giacomo, è corsa via lacerandosi le vesti e graffiandosi per ogni dove. Infine, rinchiusasi in casa e afferrato un pestarolo con la destra, s’è trinciata di netto la sinistra, morendo dissanguata."
La storia
Beatrice Cenci nacque nel febbraio del 1577, "de giorno de mercoledì 6"; nulla si sa dei primi anni della sua vita, solo che fu allevata dalle nutrici, tra cui una certa Paolina Pezzetti, o Pozzetti, deceduta il giorno dell’esecuzione dei Cenci, giacché è annotato: "la fu fantesca de l’infelice pupilla non ha retto a sì’ gran strazio."
Morta la madre, Ersilia Santacroce, insieme alla sorella Antonina fu affidata alle suore del monastero di Santa Croce; qui trascorse 8 anni, gli anni più lieti della sua vita, apprendendo l’arte del ricamo e del cucito e imparando le buone maniere, passeggiando fuori le mura e chiacchierando con la sua maestra preferita, suor Ippolita, intanto che suo padre già conduceva una vita disordinata e licenziosa. Nel marzo 1592 Beatrice e sua sorella lasciarono il convento per andare a vivere col padre; forse sperava di maritarsi, di avere una famiglia propria, comunque confidò a suor Ippolita: "mi sta in dispetto separarmi da voi…eppure ciò che m’attende m’apre il cuore alla letizia." Poi l’abbracciò "col sorriso in su le labbra e il singhiozzo in nella gola " (così si legge in un appunto della suora conservato presso l’archivio storico capitolino). Beatrice era una bella ragazza; i capelli neri le incorniciavano il viso, gli occhi scuri spiccavano vivacissimi nel volto regolare, il corpo era snello ma formoso; appassionata, testarda ed indomabile, sopportava con fierezza le prepotenze del padre, Francesco Cenci che fin da subito il suo arrivo in casa aveva palesato quanto fosse violento; tirannico, dispotico, arrogante, depravato, vizioso (aveva persino subito un processo per sodomia), continuamente le infliggeva punizioni e umiliazioni durissime (ma anche gli altri suoi figli umiliava), alle quali lei reagiva rinchiudendosi sempre più in se stessa.
"In siffatto modo, s’iniziò il mio tormento" - ebbe, poi, a dire amaramente Beatrice. Nell'aprile 1595 Francesco lasciò Roma, e condusse Beatrice e Lucrezia, la seconda moglie, in un castello in Abruzzo, la rocca di Petrella Salto, presso L'Aquila.
Per più di due anni tenne segregate le donne, costringendole a vivere in miseria, con panni laceri addosso, in quattro stanze trasformate in prigione, con le imposte delle finestre inchiodate, tranne un piccolo foro per lasciar filtrare un po’ d’aria e luce, sotto la sorveglianza del maturo Olimpio Calvetti, che in seguito divenne l'amate di Beatrice e sottoponendo la figlia a violenze psicologiche, fisiche e anche a violenza carnale. Già a Roma aveva tentato di abusare della figlia un pomeriggio del 13 marzo 1593 e già allora la fanciulla cercava di evitarlo, limitando le occasioni di contatto, spesso nemmeno sedendosi a tavola ma desinando con le cameriere in cucina. Quel giorno si era introdotto inaspettato nella sua stanza, mentre giaceva a letto semivestita: allora, però, era riuscita a sfuggirgli, scappando fra i canneti, lungo il Tevere, per andare a riparare presso i fratelli maggiori a Monte dei Cenci e, anche se suo padre l’aveva raggiunta a cavallo e ricondotta a casa, quella volta era scampata alla violenza carnale.
Il dramma
Reclusa alla Petrella, Beatrice subiva le violenze, le volgarità e le umiliazioni del padre, fra urla, imprecazioni, ghigni beffardi, obbligata a “strigghiargli” la rogna cioè a grattargli le ripugnanti pustole che aveva su tutta la parte inferiore del corpo, organi genitali compresi, assistendo all’eccitazione sessuale dell’uomo, persino costretta a presenziare, insieme alla matrigna, all’espletamento dei suoi bisogni fisiologici .
Esasperata dalle angherie paterne, a nulla erano valse le sue continue richieste d’aiuto alla curia, d’accordo con la matrigna e i due fratelli, pure tiranneggiati da Francesco, Beatrice pensò al delitto per liberarsi del padre.
La notte del 10 settembre 1598 Olimpio Calvetti, amante di Beatrice, e Marzio Catalano, un cantore tuttofare, uccisero Francesco Cenci a martellate in testa e poi fecero precipitare il suo corpo giù dal “mignano” (il terrazzino) nell’ “ortaccio” (l’orto). Dirà Beatrice: "Appena mi fu dato veder l’effetto, ristetti come imbriaca e non serbo a mente alcunché di quel che mi passò nell’animo". L’assassinio fu attuato, però, in maniera tanto maldestra, approssimativa e dilettantesca che subito suscitò sospetti e, nel gennaio del 1599, furono arrestati Beatrice, per aver architettato il piano, due dei suoi fratelli, Giacomo e Bernardo e la matrigna, Lucrezia. Cominciò il processo, cominciarono le torture; fra i tormenti, confessarono tutti: la confessione di Marzio Catalano fu immediata, gli bastò soltanto vedere la stanza della tortura per parlare; Olimpio Calvetti, invece, scampò a tutto, ma fu ucciso in un agguato, infine confessò anche Beatrice, dopo la tortura, alla quale non volle sottrarsi per subire l’eguale trattamento ricevuto dal fratello e dalla matrigna..
"La giovane porge le mani, che le vengono legate dietro la schiena. E’ quindi applicata alla corda e sospesa un metro da terra. Le ossa delle braccia le escono dalle articolazioni, il petto le batte a ritmo affannoso. Tuttavia, non emette un lamento. Esclama semplicemente:” O Madonna santissima, aiutami”. E attende stringendo i denti, che il Moscato finisca di recitare l’Ave Maria. Soltanto al termine, mormora: “ Calatemi, che voglio dir tutto”. Tolta dalla corda, il giudice la fa sedere davanti a sé, senza consentire che le vengano liberate le mani e ricomposte le slegature, affinché la confessione avvenga tra il perdurare del dolore lancinante. Anche nel momento della resa, però, Beatrice riesce a restare presente a se stessa.
Il processo
Il processo fu incalzante, le torture atroci, la difesa debole, l’accusa abile, determinata la giustizia pontificia ad impartire una condanna esemplare, soprattutto decisa ad impadronirsi dei beni dei Cenci, inclemente il papa, spietata la sentenza: "Vogliamo, pronunziamo, sentenziamo, decretiamo e dichiariamo che i predetti Giacomo, Bernardo, Beatrice Cenci e Lucrezia Petronia Velli, ritenuti colpevoli delle cose premesse, siano punibili secondo legge, affinché non possano in qualunque temo vantarsi di tanta scellerataggine e di tanto mostruoso delitto, ma la loro pena sia di esempio agli altri, in modo che non solo i figli si contengano nel dovere della pietà, ma siano atterriti etrattenuti dal commettere simili cose. Pertanto, condanniamo essi e ciascuno di essi alle pene seguenti: Giacomo all’ultimo supplizio e alla morte naturale, per cui sarà condotto sopra un carro per la città e intanto scarnificato con tenaglie roventi, e quando sarà giunto al consueto luogo della giustizia dovrà essere percosso sul capo in maniera che muoia e la sua anima sia separata dalcorpo, il quale verrà fatto in brani da appendere agli uncini del palco; Beatrice e Lucrezia parimenti all’ultimo supplizio e alla morte naturale, per cui siano condotte anch’esse al detto luogo e giustiziate e sia loro spiccato il capo dal busto."
Al fratello minore di Beatrice, Bernardo, la pena capitale fu risparmiata in ragione della giovane età ma il castigo, egualmente impartito, non fu propriamente mite; fu, infatti, stabilito che avrebbe dovuto assistere all’esecuzione dei suoi cari, poi, ricondotto in carcere, qui avrebbe soggiornato per un anno, sotto strettissima sorveglianza, infine sarebbe stato spedito a remigare sulle galee in perpetuo.
Per quanto riguarda la fine di Beatrice, negli ultimi momenti della sua esistenza terrena si ricordò dei luoghi, mai dimenticati, in cui aveva trascorso ore liete, " sono di quei tempi i pochi ricordi sereni che m’ha dato la vita", e nel testamento, oltre ai numerosi lasciti a chiese, conventi e confraternite per la celebrazione di messe in suffragio della sua anima, dispose che fosse erede universale la Compagnia delle Sacre Stimmate di San Francesco, vincolandola ad investire ottomila scudi da assegnare alle zitelle che avrebbero dovuto sposarsi in processione il giorno del santo; fu generosa anche verso la famiglia che aveva trascinato alla rovina, assegnando un lascito in danaro per sostentare un povero fanciullo pupillo, il figlio settenne di Olimpio e della moglie Plautilla (non il suo figlio segreto, come taluni ipotizzarono), ed una dote "a una zitella da nominarsi dal padre fra Andrea Belmonte".
Il giorno dell’esecuzione apparve cerea in volto," pallida eppur splendente di fiera bellezza", avanzò stanca avvolta in un lungo mantello scuro, arrivata sotto il palco guardò per un istante al cielo azzurro di quel sabato mattina solcato da insoliti riverberi rossastri, salì i gradini eretta e sicura, rivolse un ultimo sguardo al fratello stravolto dalla tortura, poi chinò il capo sulla mannaia, che calò improvvisa, suscitando immediato l’urlo della folla, " un urlo che si ripercuote di colle in colle e che certo è udito da sua Santità, il quale è uscito dal Quirinale e s’è recato a dir messa per l’anima dei Cenci a San Giovanni in Laterano". Subito dopo eseguita la sentenza il corpo di Beatrice fu ricomposto, il capo cinto di una corona di fiori bianchi, la testa posata su un vassoio d’argento e, dopo l’ufficio funebre,coperto di veli neri, calato in un loculo dell’abside di San Pietro in Montorio, la chiesa in cui, quand’era in convento, soleva entrare a recitare una preghiera in memoria delle suore trapassate. Ma nemmeno dopo la morte riuscì ad avere quella pace tanto agognata in vita: nel 1799, durante l’occupazione francese, la sua tomba fu profanata da un soldato francese che, dopo aver rubato il vassoio sul quale poggiavano i resti della testa, prese a giocherellare con disprezzo con il teschio della giovane, come se fosse una palla, fino a polverizzarlo. La leggenda vuole che ogni anno, l’11 settembre, giorno in cui fu decapitata, il suo fantasma aleggi proprio nei luoghi in cui fu giustiziata; leggenda o meno, il mito di Beatrice resta, perché simbolo in generale per tutti gli uomini che si oppongono alle sopraffazioni, in particolare per le donne, che si ribellano alla violenza e ai soprusi, in riconquista della libertà e della dignità personale.
Il mito
Il mito di Beatrice Cenci ancora perdura, tanto che nel 1999, a 400 anni dalla sua morte, per ricordarla, a Roma fu organizzata una mostra che ne ripercorse la figura nella letteratura e nell’arte. Il Guerrazzi definì Beatrice "bella di sventura” e così appare ancora distanza di secoli la sciagurata nobildonna laziale; la sua “larva sconsolata”, il fantasma che pare si palesi ancora oggi in talune occasioni, sembra di continuo sorgere dal “sepolcro d’infamia” per chiedere che non sia dimenticato l’orrore da lei subito, per essersi liberata dell’abominevole aguzzino che aveva il volto del facoltoso padre. La giustizia pontificia si dimostrò priva di misericordia e non volle essere clemente considerando legittima difesa quel delitto. Di certo agli occhi dei processatori, come già avanzato dagli osservatori del tempo, non fu l’aver progettato il parricidio la colpa maggiore di Beatrice, bensì quella d’essere la depositaria, insieme ai suoi fratelli, d’un ingente patrimonio; la Chiesa si dimostrò subito ingiusta, decretando la giovane colpevole sin dal principio del processo, e ciò per impossessarsi dei beni della famiglia Cenci.
“L’aberrazione sta nel fatto che la corte ha agito palesemente non con l’intento di “far” giustizia bensì con quello di “esprimere una condanna capitale”.
Il presunto ritratto
Il “Ritratto di Beatrice Cenci” citato dal Guerrazzi, nel romanzo epico da lui dedicatole, è attribuito per tradizione a Guido Reni, anche se la critica odierna avanza dei dubbi sulla paternità del pittore bolognese. Non è certo che la giovane rappresentata sia proprio la nobildonna mandata a morte e nemmeno che il Reni ne sia l’autore: il quadro gli fu attribuito solo due secoli dopo essere stato dipinto e, da allora, nacque la convinzione che si trattasse di Beatrice Cenci che, probabilmente, non posò mai per il pittore. Comunque l'opera, un dipinto di 25x 50, conservata a Roma a Palazzo Barberini, è da sempre fonte di ispirazione artistica, quasi un'icona.
Affascinante, tremenda la vicenda di Beatrice che, forse anche grazie al suo presunto ritratto, ha sempre esercitato una sorta d’incantesimo su poeti, scrittori, ed artisti. Shelley sulla sua scrivania teneva la sua immagine e nel 1819 compose una tragedia in versi, in cui esaltò la fierezza e il coraggio con cui Beatrice, convinta della giustizia del parricidio, aveva affrontato il calvario; Melville la citò nel suo romanzo “Pierre o le ambiguità”; Hartworne, la trasformò in icona malefica nel suo “Fauno di marmo”; Artaud, nella piéce teatrale “I Cenci”, rappresentò il dramma di Beatrice sconvolta dalle violenze paterne, immaginando il rimpianto della ragazza per la non goduta giovinezza e il terrore di reincontrare il padre all’inferno; Moravia, nella sua tragedia in prosa in tre atti, rappresentata nel 1955, mostra una Beatrice che ha orrore della sua colpa e desiderosa di rinchiudersi in convento per riconquistare l’innocenza perduta.
Ma anche un poeta e scrittore dialettale ottocentesco, il romano Giggi Zanazzo, subì il fascino di Beatrice:
" Era chiamata la bella Cenci, pè la sù gran bellezza. Infatti era la ppiù bbella zzitella de Roma. E ner mentre poteva esse la ppiù affortunata de tutte la regazze de quer tempo, perchè era tanta ricca, era invece la ppiù ddisgrazziata, la ppiù infelice der mónno. Ciaveva er padre che era un bojaccia, ma un bojaccia tale, che era er teróre de la famija. Aveva cacciato li fiji maschi da casa e li faceva morì' dde fame. A casa poi, sii co' la moje che cco' la fija, era un tiranno! Je faceva amancà' er da magnà', er da bbeve, er da vestì', e l'ingariava in tutti li modi. Buggiarà' nun fussi stato ricco, manco male; ma invece ciaveva li quatrini che je superaveno la testa; dunque, lo pòssino ammazzallo bbello che mmorto, lo faceva pe' ccattiveria, perchè era er primo zòzzòne der mónno..."
Tragica, violenta, senza redenzione e senza pietà, la sua è la storia di un delitto che fa orrore, anche se perpetrato contro un padre tiranno e depravato, colpevole di estenuanti violenze fisiche, psicologiche e sessuali nei riguardi della figlia. Eppure Beatrice è sempre apparsa non carnefice ma vittima, anzi martire, suscitando forti reazioni emotive nel popolo romano e il grande interesse degli artisti nei secoli seguenti.
Statua in marmo dedicata da Harriet Hosmer
NOTE:
F. D. Guerrazzi, Beatrice Cenci.
G. Zannazzo, Novelle, Favole e Leggende Romanesche.
Guido Reni, Rizzoli, Milano 1971.
Un mondo di donne, Pratiche editrice, Milano 2003.
N. Valentini- M. Bacchiani, Beatrice Cenci, Rusconi 1981.
Il teatro, Trame, vol.I, Il Giornale, da Storia del teatro moderno e contemporaneo, Einaudi, Torino, 2003.