Carlo III e il regno di Napoli
Scritto da Laura Savani. Pubblicato in società barocca
Carlo III primogenito di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese nacque a Madrid nel 1716. Crebbe come un principe spagnolo, di austeri costumi, ligio alla Chiesa e devoto alla sua terribile madre. Ebbe come precettore, il conte di Santesteban che diede al suo pupillo una cattiva istruzione, preoccupato più per la sua anima che per la sua mente.
Carlo aveva però un innato buon senso ed un bel carattere. Non era bello: non alto, con un grosso naso ed una storta dentatura che per tutta la vita gli diede problemi. Aveva però il dono di conquistare con la sua simpatia e la sua semplicità. Amava la solitudine e la caccia, e sapeva parlare al cuore della gente.
Quando l’ultimo dei Farnese morì, la madre Elisabetta, unica erede del ducato di Parma e Piacenza, passò il titolo a lui. Il principe aveva all’epoca appena 15 anni. Ricevette inginocchiato, l’investitura dalla madre: la spada di Luigi XIV, un anello di diamanti e una scorta di duecentocinquanta uomini per raggiungere Parma.
Parma doveva essere, secondo i calcolo di Elisabetta, solo la prima tappa del viaggio del figlio. Infatti, oltre al ducato di Parma c’era per il principe anche la successione al Granducato di Toscana, il giorno in cui l’ultimo Medici, Gian Gastone, si fosse deciso a renderlo vacante.
Carlo andò a dare un’occhiata al granducato con la scusa di fare una visita di cortesia al Granduca. Gian Gastone rimase conquistato dal giovane Carlo che si divertì molto invece di scandalizzarsi per le stramberie del granduca.
Poco tempo dopo scoppiò la guerra di successione al trono polacco, e tutto fu rimesso in discussione. Elisabetta ne approfittò per affidare a Carlo il comando delle truppe franco-spagnole in Italia con l’ordine di marciare su Napoli e strapparla all’Austria. L’esercito Asburgico non era in grado di opporre molta resistenza. Dopo la vittoria di Bitonto, Carlo raggiunse Napoli, nel 1734. I delegati della città gli porsero il benvenuto, inginocchiati; l’accoglienza fu trionfale e lo divenne ancor di più quando Carlo fece la sua prima visita a S. Gennaro e lesse pubblicamente la lettera firmata dal padre con cui il re di Spagna rinunciava solennemente ai suoi diritti su Napoli, in favore del figlio, restituendo in questo modo alla città il suo rango di capitale. Per i successivi quattro anni, cioè fino al trattato di Vienna del 1738, Carlo dovette continuare a far guerra agli austriaci, senza però molto impegno anche perché l’Austria non fu mai in grado di insidiare il trono di Napoli.
Gli affari di governo erano nelle mani del vecchio precettore di Carlo, Santesteban e al marchese Montalegre, designati ovviamente da Elisabetta che pretendeva di governare di persona attraverso i suoi fidi. Mentre Carlo, dalla Toscana, si era portato un certo Tanucci, professore di diritto all’università di Pisa.
La corona non gli aveva dato alla testa, timido e affabile, il nuovo sovrano, aveva poco più che vent’anni. Appassionato di caccia, il giovane re passava le giornate, ora a Procida per le quaglie, ora a Portici per i fagiani, ora a Caserta per lepri e pernici. A corte portava sempre semplici vestiti da cacciatore che spesso si intravedevano sotto l’alta uniforme.
Maria Amalia di Sassonia
Nel 1737, la madre gli ordinò di sposare la principessa Maria Amalia di Sassonia, figlia dell’elettore di Sassonia Federico Augusto, di appena 14 anni. Sposata per procura, la principessa raggiunse lo sposo a Portella.
Il De Brosses così la descrisse: naso nodoso, fisionomia da gambero e una voce da gazza. Ma Carlo la trovò di suo gradimento e lo dimostra l’assiduità che dimostrò nei confronti della sposa.
Il poeta inglese Gray la definì una delle più brutte coppie del mondo.
Ma forse anche questo contribuì alla loro armonia che non si rovinò nemeno quando il carattere di Maria Amalia divenne strano e aggressivo. Carlo sopportò con stoica pazienza le scenate della moglie ma d’altra parte i due avevano molto in comune: gradivano la solitudine e per sottrarsi ai rituali di corte a Napoli ci stavano poco. Preferivano la quiete delle residenze di campagna senza cerimoniale.
Non potendo occuparsi di affari di Stato (il vero re per il momento era la madre), Carlo si occupò di lavori che non interessavano Elisabetta. Fece riprendere gli scavi di Ercolano, che deve a lui la sua rinascita e più tardi diede il via a quelli di Pompei. Chiamò da Roma il Vanvitelli e gli affidò la ristrutturazione della Reggia, la costruzione del più imponente teatro dell’epoca, il San Carlo, e la realizzazione della Reggia di Caserta. Questo curioso sovrano che nessuno vide mai con un libro in mano, creò la biblioteca reale per alloggiarvi quella dei Farnese, che si era portata al seguito da Parma, e rilevò la tipografia di San Severo.
Le porcellane di Capodimonte
La nascita delle porcellane di Capodimonte trae origine dal matrimonio di Carlo con Maria Amalia. Maria Amalia era la nipote di Augusto il Forte, fondatore delle celebri porcellane di Meissen. Quando il cognato, gliene inviò una dalla Sassonia, una finissima tazza chiamata chicchera del re, Carlo non volle servirsi che di quella, e non ebbe pace finchè non ebbe attirato a Napoli il chimico tedesco Scheper, l’unico che conoscesse i segreti di quella fabbricazione. I laboratori furono installati là dove oggi sorge il museo di Capodimonte, e fu lo stesso Carlo che sovrintese alla scelta dei miniaturisti e modellatori.
Affidò a Scheper la ricerca delle terre adatte agli impasti. Nel 1743 s’iniziarono le porcellane in “pasta tenera”, con il caolino di Fuscaldo (Cosenza). I primi modellatori furono i Gricci. Il risultato, grazie all’impasto di caolino, feldspato e quarzo fu un magnifico effetto sottovetro.
Alla partenza del sovrano per la Spagna (nel 1759) la manifattura di Capodimonte fu distrutta e risorse vicino a Madrid dove, con operai e materiale napoletani, ebbero origine le officine del “Buen retiro”. Quando il figlio di Carlo, Ferdinando IV, salì sul trono di Napoli volle riaprire la manifattura ma le porcellane che nacquero da questa fabbrica rediviva non ebbero più lo straordinario effetto delle precedenti.
Tanucci
Per Carlo l’avvicinamento al potere fu lento ed estremamente cauto. Il primo segnale fu l’allontanamento di Santesteban, il più autorevole dei suoi guardiani e pare che in questo avesse avuto parte la moglie Maria Amalia probabilmente sobillata dalla sua dama di compagnia, la Duchessa di Castropignano. La caduta del Santesteban portò in primo piano Montalegre, ma in realtà questa vittoria fu del Tanucci, che aveva a poco a poco preso il comando della situazione.
Tanucci era un toscano dal carattere ruvido e dal fisico sgraziato con una mostruosa resistenza al lavoro; onesto e totalmente contrario a qualsiasi ostentazione di potere. Ciò non gli impedì però di coltivare le sue grandi ambizioni. Secondo Benedetto Croce, egli cercava nel lavoro un valvola di scampo alla sua ipocondria. Scriveva l’ambasciatore francese “la più leggera alterazione della sua salute, cambia completamente il suo umore: la vita del Regno è alla mercè d’un suo raffreddore.”
Grazie alla sua allergia alla cortigianeria, aveva conquistato le simpatie di Carlo e di Maria Amalia.
Quando Filippo V morì, nel 1746, Elisabetta Farnese venne estromessa dal figliastro Ferdinando, dalle faccende politiche e senza le sue interferenze su Napoli, anche il Montalegre cadde in disgrazia. Tanucci rimase così unico padrone della situazione, ma continuò a fingersi semplice esecutore del re.
Tanucci non aveva idee illuministe, perché da buon toscano era troppo attaccato al concreto per lasciarsi condizionare da qualsivoglia dottrina. Ma il suo operato fu comunque quello di un grande riformatore, deciso come era ad adattare l’assolutismo alle esigenze della società moderna.
Il suo limite fu la cultura esclusivamente giuridica da professore universitario.
quando si va a trattare con lui, bisogna prepararsi a sostenere delle tesi generali. Di solito parte dalle leggi greche o romane, e quando si arriva al problema in discussione, bisogna sottostare al suo cavillo. Ma da eccellente scolaro di Giannone quale era, aveva il senso dello Stato, e in pratica fu lui a costruirlo.
Napoli
Di uno Stato a Napoli se ne era perso persino il ricordo e tutto era un caos con una popolazione che si avvicinava al mezzo milione. Nella città si viveva come in una casbah orientale, senza “servizi” e senza niente che assomigliasse a delle strutture urbane. “Le piazze, le vie, le case, i negozi non sono abitati, ma inondati di abitanti” scrive Du Paty. Napoli era la capitale della confusione, del chiasso, della disoccupazione e della calca. A dare il tono a questo alveare umano erano i venticinquemila nobili, che da tutte le province erano confluiti a Napoli. C’era la nobiltà generosa, quella che vantava antichi blasoni normanni o angioini, e quella del privilegio, divenuta tale per i servizi resi al governo spagnolo. Questi nobili avevano in comune, se non l’origine, la cupidigia, l’adorazione dell’ozio e la protervia feudale. Avevano come modello l’hidalgo spagnolo ma senza possederne il senso tragico della vita, né la concezione sacerdotale del servizio. Ciascuno di loro si comportava nel proprio feudo da sovrano assoluto: vi esercitavano la propria giustizia, la propria forza armata e naturalmente erano esenti da tasse e da qualsiasi contributo. Molti contadini per sottrarsi alla fame e alle angherie, si rifugiavano nello Stato Pontificio, ma la maggior parte si trasferì a Napoli contribuendo all’apoplessia e alla straccioneria della città.
Il clero era un’altra cittadella dell’ozio e del parassitismo e fra i più opulenti d’Italia. Inghiottiva un terzo del reddito generale e il suo patrimonio non smetteva di crescere grazie alle pie donazioni strappate ai peccatori in punto di morte, e naturalmente anche lui era esente da tasse.
Ciò rendeva la carriera ecclesiastica molto ambita. Per sorvegliare la scandalosa condotta di molti preti, divenuti tali per ben altri interessi, si era dovuto istituire un corpo di Scoppettilli, guardie che sotto il mantello nascondevano uno schioppo e che naturalmente per una “bustarella” rinunciavano ad estrarre.
Il ceto medio era composto quasi esclusivamente di personale impiegatizio, medici, notai e avvocati. Mancando le industrie, mancava una borghesia imprenditoriale e questo a causa di una società feudale che non concepiva altra ricchezza che la terra. L’unico contributo al mondo degli affari era rappresentato dagli appaltatori d’imposte e di lavori pubblici, da quel mondo di parassiti e di profittatori del sottogoverno che, senza nulla produrre, intrallazzavano nella giungla dei monopoli.
Di cosa vivesse il popolino, nessuno storico è mai riuscito a scoprirlo. Molti erano domestici reclutati in massa dai nobili. La maggior parte non riceveva un salario ma solo una livrea che bastava però ad affermare una superiorità su coloro che non possedevano nemmeno quella. La passione per questi segni esteriori era patologica nella plebe. Scrive Bergeret de Grandcourt che il suo calzolaio gli si presentava “in abito di velluto con bottoni d’oro, calze bianche di seta e giustacuore d’oro, spada al fianco e pennacchio bianco”.
Una levatrice non andava ad un parto senza farsi precedere “almeno da un piccolo sguattero vestito alla bell’e meglio” e da un codazzo di fantesche.
Molti nobili andarono in rovina per le carrozze, da cui tiri di cavalli si misurava il prestigio del casato. A piedi ci andavano solo gli straccioni.
Gli straccioni, chiamati più comunemente Lazzaroni formavano, come dice il De Brosses “la più formidabile canaglia e la più nauseabonda genia che sia mai strisciata sulla faccia della terra.” Questa canaglia era in realtà il prodotto di una società basata sulle più vergognose sperequazioni. Da secoli governati con le tre effe: farina, forca, festini, i Lazzaroni reagivano alla propria sorte con più mitezza di quanto ci si potesse aspettare. Né sanguinari, né vendicativi, anzi con un nulla li si conquistava. Oppressi da secoli, l’unica rivoluzione l’avevano espressa con Masaniello. I governi per impedirne un altro, ne creavano uno con le proprie mani, nominando un capo Lazzarone e riconoscendogli le prerogative di un tribuno della plebe, fra cui quella di libero accesso al Re e ai suoi ministri, di cui alla fine diventava un complice.
Cosa accadesse poi nel profondo sud, si può intuirlo da quelle poche informazioni che ci restano: campagne spopolate dalla malaria e dal brigantaggio, contadini alla mercè di baroni rapaci e parroci, vita intellettuale ridotta allo zero, mancanza di strade, analfabetismo.
Le riforme
Questo era il Regno di Napoli, cui Tanucci si apprestava a dare un’ossatura. La sua prima preoccupazione fu l’ordine pubblico ma solo nella città di Napoli perché il resto del paese non contava e il brigantaggio era una piaga data per scontata. Il regime andava sistemato solo nella capitale dove fermentava una fronda di simpatizzanti con l’Austria.
Creò un catasto generale per il censimento e la tassazione di tutte le proprietà, comprese quelle dei nobili e del clero, da secoli intoccabili. E qui la lotta fu dura. I preti arrivarono persino a strumentalizzare l’eruzione del Vesuvio del 1737, presentandola come “un evidente castigo di Dio per le estorsioni che il Re si permetteva contro di loro.” E la loro voce trovò eco anche nell’animo di Carlo, molto sensibile e devoto.
Tanucci fu costretto a fare i conti con la sincera devozione del re e dovette rivisitare il suo programma laico. Un’altra voce che i preti misero in giro fu che la regina, dopo aver dato alla luce cinque femmine una dopo l’altra, non riusciva a dare un maschio e questo perché il governo aveva riammesso gli ebrei. Era stato Tanucci a richiamarli sperando che essi portassero una ventata di novità nell’industria e nel commercio come infatti avvenne. Ma su richiesta del re fu costretto a ricacciarli; Carlo era ossessionato dalla paura di rimanere senza eredi.
Da buon giurista, Tanucci pensò soprattutto alla riforma del Codice. La legislazione del Regno era caotica e contraddittoria; una somma di leggi greche, romane, bizantine, sveve,angioine, aragonesi e spagnole che nessuno aveva mai pensato a coordinare. Per gli avvocati quella giungla di norme era una manna. Essi erano a Napoli una categoria potentissima, sempre alla ricerca di pretesti per fomentare liti e per farle durare all’infinito. Il Tanucci sudò le proverbiali sette camicie per ridurre alla ragione gli avvocati e rifare delle leggi più coerenti e più chiare, e ci riuscì solo a metà.
Il codice carolino rappresentò un progresso notevole rispetto al passato anche se non eliminò le malformazioni morali e di costume che riducevano la giustizia ad una sorta di mistero eleusino. La promozione del Regno di Napoli a regno autonomo aveva affrancato lo stato dai pesanti contributi che come vicereame avrebbe dovuto pagare. Ma anche se il denaro del reame rimaneva nel reame, ammontava a poco. Il fasto e le abitudine dei nobili davano a Napoli un sembiante di opulenza ma era solo apparenza: la provincia e la campagna erano drenate all’osso dai latifondisti parassiti; la produzione quasi esclusivamente agricola, invece di aumentare decresceva e con essa decrescevano gli introiti dello Stato.
Il Tanucci di economia se ne intendeva poco, ma dopo una serie di riforme sbagliate(inasprì le tasse di consumo che andavano però a colpire la povera gente) riparò istituendo il Supremo magistrato del commercio con ampi poteri di regolamentazione e di promozione. Con questo organo si cercò di dare il via ad industrie di trasformazione come vetrerie, cristallerie, saponifici, distillerie, manifatture di tabacco, filande ma urtò contro la mancanza di capitali e di spirito imprenditoriale.
Quando il Tanucci volle attaccare il monopolio degli appalti si scontrò contro un sistema che aveva i protettori e i tributari nei più alti uffici governativi. Tuttavia qualche risultato fu raggiunto. Nella sua economia di lesina il Tanucci era riuscito ad eliminare molte spese inutili come quelle per le forze armate ormai ridotte ad una flottiglia.
Con l’allontanamento di Elisabetta da Madrid, Carlo si ritrovò finalmente libero dalla tutela materna, e potè fare davvero il sovrano. Le sue abitudini di vita cambiarono radicalmente. Continuò ad alzarsi alle cinque del mattino ma non per andare a caccia ma per prendere finalmente posto alla sua scrivania ed immergersi negli affari di stato. Il Tanucci non era più solo ad amministrare il reame ma la sua posizione non ne risentì perché Carlo aveva in lui la più assoluta fiducia.
L’eredità di Carlo
Con la scomparsa della madre, era comunque destino che il re dovesse soggiacere a qualche influenza femminile: alla madre infatti subentrò la moglie. L’autorità di Maria Amalia era cresciuta da quando, dopo cinque femmine, aveva finalmente dato la luce il tanto atteso erede. Carlo era quasi impazzito dalla gioia anche perché il fratellastro Ferdinando, divenuto re di Spagna, era rimasto senza eredi, e in caso di una sua morte improvvisa, il trono sarebbe toccato a lui. Perciò un erede era assolutamente necessario sia per la Spagna che per Napoli.
Purtroppo il bambino si rivelò presto mentalmente tarato, ma quando Carlo se ne accorse, Maria Amalia aveva già messo al mondo altri due maschi, Carlo Antonio e Ferdinando. Così entrambi i troni avevano già i loro titolari.
Per aver dato degli eredi sia alla Spagna che a Napoli, Maria Amalia pretese di partecipare direttamente al governo. Alle prime sedute la regina partecipava nascosta dietro un arazzo ma poi volle il suo posto accanto al re, del quale sempre più contestava le decisioni. Ne derivavano scenette e scenate che però non degeneravano grazie al carattere paziente di Carlo.
Nel reame non ci furono miracoli anche perchè mettere ordine in quello Stato ed avviarlo ad un sano sviluppo era un’impresa superiore a qualsiasi forza umana. Eppure per Napoli questo periodo fu la sua età dell’oro.
Il vero errore di Carlo e del Tanucci fu quello di non pensare all’istruzione delle masse. Per il re, che ne aveva ricevuta poca egli stesso, l’istruzione era un veicolo d’infezione. Il Tanucci invece non aveva alcuna fiducia nel popolo e nessuna simpatia per i regimi democratici e parlamentari. Nessun contributo fu dato alle scuole e alle Università. La sola vita culturale del Regno di Napoli fu il teatro San Carlo, uno dei grandi templi dell’opera seria italiana. Il re lo frequentava assiduamente e regolarmente ci si addormentava. Preferiva l’opera buffa ma vi rinunziava perché la considerava pericolosa per la moralità del popolo.
Carlo salì al trono di Spagna alla morte del fratellastro, Ferdinando VI, nel 1759 e in Spagna il sovrano continuò la linea politica che aveva condotto nel Regno di Napoli raggiungendo anche in questo paese degli ottimi risultati. Il suo operato, in definitiva, può essere inserito nella corrente dei Dispotismi Illuminati.
Morì il 14 dicembre del 1788 lasciando il trono di Spagna al figlio Carlo IV e il trono di Napoli al terzogenito Ferdinando IV.