Infanzia e giovinezza
Il Conte di Cagliostro fu il più grande truffatore del Grand Siècle. Il suo vero nome era Giuseppe Balsamo: nato nel 1743 a Palermo nel quartiere dell’Albergaria, da una famiglia di umili origini. Giuseppe rimase a 9 anni orfano di padre e fu preso sotto tutela degli zii materni, che cercarono d’istradarlo verso una carriera retta ed onesta, ma senza alcun risultato. Il piccolo Balsamo era una vera peste: intelligente e strafottente, soffriva la gerarchia e il lavoro; preferiva allo studio la vita di quartiere, molto particolare, dell’Albergaria: una specie di casbah chiusa dove trovavano rifugio i peggiori marrani e truffatori di Palermo.
Nei pochi anni di studio, presso istituzioni ecclesiastiche, si innamorò della chimica che all’epoca era in bilico tra scienza e parascienza, intrisa di misteri e sortilegi. Queste conoscenze gli saranno utili per truffare ricchi e principi di mezza Europa. Già a 12 anni, per sbarcare il lunario, era dedito a truffe ingegnose che facevano leva sulla credulità degli sprovveduti cui riusciva a spillare qualche soldo, dando anche prova di essere un abile falsario. A quindici anni, dopo aver soffiato 60 monete a un commerciante facendogli credere all’esistenza di un tesoro turco, dovette lasciar l’isola per non finire in galera.
Al porto di Messina Giuseppe incontrò uno strano personaggio, studioso di alchimia, che gli svelò segreti incredibili sul potere di polveri e unguenti, e non per ultimo della pietra filosofale. Le vicende in questo periodo della sua vita non sono chiare e i biografi sono incerti, di fatto però essi andarono a Rodi e successivamente approdarono a Malta, sede dei grandi cavalieri, il cui capo era alchimista e accolse i due avventurieri con ospitalità mettendogli a disposizione i suoi fornelli. Il compare di Giuseppe morì però durante un esperimento e il novello Cagliostro partì affranto per Napoli, che lasciò infine per Roma.
I primi viaggi e il matrimonio
Da buon meridionale teneva alle apparenze, Giuseppe alloggiò in un albergo di discreta ordinanza e si mantenne a modo suo nella città eterna falsificando acquarelli e altro. A venticinque anni conobbe Lorenza, di dieci anni più giovane, che sposò subito. Lorenza era una bella, formosa e civettuola ragazza, figlia di un artigiano che prese in casa i due giovani, ma quando finirono i soldi gli sposi dovettero cavarsela in altro modo. La coppia divenne un trio con la complicità di un millantato marchese, col quale avviarono una stamperia da falsari contraffacendo banconote bancarie e documenti. L’attività non durò molto, e presto dovettero fuggire da Roma dopo aver raggranellato qualche soldo. Anche a Bergamo riuscirono a gabbare qualche pover’uomo, ma presto ricevettero il foglio di via e in quella occasione ad esser gabbato fu infine Giuseppe, e proprio dai suoi complici che lo lasciarono in strada senza il becco di un quattrino.
La coppia puntò allora per la Spagna, ma senza meta precisa: Giuseppe fu sempre spinto da voglia di novità e curiosità, oltre che dalla necessità di fuga. In viaggio per la Spagna conobbero l’altro grande avventuriero del secolo, Giacomo Casanova, che rimase colpito dall’incontro più per la giovane Lorenza che per il marito. I soggiorni nelle varie città erano sempre brevi e il più delle volte, oltre che alla vendita di disegni, Lorenza si prestava a sedurre e spillar quattrini a chiunque fosse interessato; dal canto suo Giuseppe, seppur marito fedele e integerrimo, la spinse più volte nel letto altrui per racimolar qualche soldo. La loro vita bohemiénne li spinse in Portogallo, in Inghilterra e in Francia. Qui Cagliostro truffò due ricchi con la promessa della pietra filosofale; riuscì a farla franca scappando attraverso il Belgio, la Germania e infine l’Italia, approdando a Palermo nel 1773.
Il soggiorno nella città natale non durò molto, perché il suo arrivo risvegliò la vendetta del truffato di dieci anni prima, quindi la coppia errò da Palermo a Malta, e quindi fino a Napoli, dove Cagliostro ormai trentenne impiantò coi pochi soldi messi da parte un laboratorio alchemico che suscitò parecchio interesse e anche denaro, il che consentì alla coppia un po’ di agiatezza. Presto però partirono di nuovo per approdare nel 1776 a Londra. Vi arrivarono con buone commendatizie, gioielli e tremila sterline, guadagnate per la maggior parte in Francia grazie a una vecchia nobildonna a cui Balsamo non rifiutò i suoi favori.
Il secondo soggiorno londinese fu estremamente movimentato e, come sempre, di breve durata. Giuseppe si sentì per la prima volta a suo agio: aveva denaro, nessun debito in pendenza e nemmeno uno sbirro alle calcagna. Assoldò una coppia di italiani che gli fecero la spalla, spargendo in giro la voce che il loro padrone era ricco e parsimonioso e che possedeva il segreto della pietra filosofale. Presto la sua abitazione fu presa d’assalto, e lui dava a tutti creme e numeri da giocare al Lotto. La cosa stupefacente è che ci fu qualche guarigione e soprattutto vincite al gioco, che contribuirono alla sua fama ma soprattutto fecero credere a Giuseppe di avere davvero poteri di chiaroveggenza.
Da Giuseppe Balsamo a Conte di Cagliostro
E’ a Londra che Giuseppe cominciò a farsi chiamare Conte di Cagliostro e si affiliò alla loggia massonica della “Speranza”, numero 289, appartenente all’Obbedienza dell’Alta Osservanza. In quel periodo storico le società segrete e massoniche erano di gran moda: ce n’era per tutti i gusti e ranghi, e vi si accedeva tramite percorsi iniziatici alquanto pittoreschi. Anche la contessa Lorenza venne ammessa alla loggia e gli fu donata una giarrettiera come simbolo.
Il soggiorno londinese purtroppo finì male, poiché venne preso di mira da una coppia che gli fece un tiro mancino portandolo in tribunale; benché prosciolto, ritornò povero e partì dall’Inghilterra definitivamente.
La massoneria sarà la porta per entrare negli ambienti altolocati e colmare l’ambizione di Giuseppe Balsamo, sempre più spinto dalla voglia di potere e da sogni di grandezza. Di fatto nel diciassettesimo secolo c’è un gran fiorire di logge d’ogni tipo, intrise di misticismo, cabala e stregoneria; Cagliostro sfruttò bene questa strada e riuscì a diventare Gran Maestro facendo leva sulla sua arte oratoria e capacità di persuasione. Da Londra partì per l’Olanda, dove venne accolto dalle logge locali e presiedette a riunioni e sedute segrete. Le terre tedesche più che altrove in Europa erano intrise di misticismo e stregoneria: era di gran moda occuparsi di occultismo, filosofia e alchimia, e proprio qui Cagliostro conobbe don Pernety, suo padre spirituale, che gli ispirò il cammino. Cagliostro arrivò a inventarsi un suo rituale, detto della Massoneria Egizia. Questo rito era tanto strampalato quanto suggestivo, e coglieva la moda del tempo ricavando le sue origini dall’antico Egitto di Osiride e delle piramidi; la via per ottenere la saggezza era talmente severa che lo stesso Cagliostro – che si era attribuito il titolo di Grande Cofto - si guardò bene dal provarlo, considerate le tante purghe e astinenze che si dovevano subire. Curò in ogni dettaglio i simboli e i colori delle sedi con una ricca coreografia di paccottiglia, e raccolse massoni da tutta Europa chiedendo solo due condizioni: che credessero in Dio e fossero massoni; una mossa furba che attirò nella sua loggia decine di migliaia di adepti, riunendo in sostanza la massoneria. Da quel momento Giuseppe Balsamo scomparve per lasciare il posto al Conte Alessandro Cagliostro.
Il Gran Cofto
La carriera da Grande Cofto iniziò col viaggio in Curlandia, un minuscolo principato baltico, indipendente sulla carta ma di fatto sottomesso alla Prussia, famoso per la gran moda della magia. Cagliostro non vi arrivò come maestro del rito egiziano, perché ancora in fase di elaborazione, ma come emissario al soldo della loggia inglese. Qui iniziano le sue imprese leggendarie che lo renderanno celeberrimo, guarendo malati e invocando con successo gli spiriti defunti. Particolare interesse suscitò nella duchessa, bellissima, intelligente e colta, totalmente conquistata dal mago a cui sottopone ogni problema. Purtroppo, a causa di un rifiuto alla richiesta d’ingrandire delle perle il mago non godette più dei suoi favori; così, dopo quattro mesi partì per San Pietroburgo in pompa magna, sempre accompagnato da Lorenza, o meglio dalla Contessa Serafina Regina di Saba.
La Russia era governata dalla zarina Caterina, una virago energica totalmente dedita alla politica, che soggiogava equamente popolo e aristocrazia. Cagliostro sperò di diventare il Merlino di corte, ma nonostante i tanti prodigi e le molte guarigioni non ci riuscì; anzi, a causa delle gelosie e dei nemici presto dovette ripartire, sempre più ricco e famoso però. Nel 1780 Alessandro arrivò con la moglie a Strasburgo; dopo due mesi di permanenza fu ospite del fondatore della loggia dei templari, grande alchimista che gli affidò la conduzione degli esperimenti del suo laboratorio - tra cui c’era la produzione di un demone di sesso femminile - ma Cagliostro si mostrò così indolente che venne licenziato.
Il rito egiziano intanto cominciava a piacere, e presto i massoni dell’Alta Osservanza incominciarono ad avere bisogno di lui; tant’è che gli svelarono i loro piani, mostrandogli documenti segreti e misteriosi che indicavano una via politica per rovesciare i despoti d’Europa. L’ambizioso progetto era finanziato tramite il denaro raccolto da ventimila massoni, che ogni anno versavano ai Maestri quindici luigi d’oro che finivano in un conto ad Amsterdam. Cagliostro comunque rimase ancora nell’ambito della Grande Osservanza che acconsentiva alla fondazione di logge proprie e anche all’instaurazione di riti peculiari, l’importante era che si rimanesse nell’alveo delle direttive cardine della loro politica.
L'amico degli uomini
Cagliostro arrivò a Strasburgo in pompa magna, scortato da lacchè e un gran seguito, in una carrozza trainata da sei destrieri. Vestiva un taffettà turchino estremamente ricamato e scarpe le cui fibbie erano tempestate di pietre preziose; l’oro lo stringeva ai polsi, al collo e alle mani. Le autorità accolsero Conte e Contessa con grandi dimostrazioni di stima, facendo a gara per metterli a loro agio. L’arrivo fu annunciato dai giornali che lo chiamarono “l’amico degli uomini”; Cagliostro ricambiò lavorando sodo, alzandosi all’alba e ricevendo per lo più in casa quanti ne poteva accogliere, facendosi pagare solo dai ricchi. Dava ospitalità ai pellegrini poveri che rifocillava e si mostrava come un vero iniziato, sobrio e vegetariano: suggestionava e si autosuggestionava.
I fatti però dimostrano che non si comportò da ciarlatano, perché guarì il più dei malati senza cercare di imbrogliarli, come per esempio la moglie del famoso finanziere di Basilea Sarrasin, che riuscì anche a rendere fertile garantendo la successione al padre. I due saranno i più potenti e devoti seguaci del mago.
Anche a Parigi i suoi miracoli erano sulla bocca di tutti; pressato da innumerevoli richieste giunse nella capitale francese e qui guarì il principe di Rohan, che stava per morire nonostante fosse attorniato dai migliori clinici dell’epoca. Col crescere della fama e dei favori crescevano anche i nemici, in primis le facoltà di medicina, ma anche calunniatori e invidiosi tanto da finir sotto processo, sempre vinti ed addirittura a dover scampar a degli agguati.
La fama ormai lo precedeva, seguaci di ogni grado lo veneravano, l’Alta Osservanza gli era grata per la sua abilità nel reclutar massoni. Dopo un soggiorno a Napoli al capezzale del cavalier D’Aquino riprese la via del nord a Bordeaux e a Lione, dove mise a punto il rito egiziano con l’aiuto di un letterato; quindi spiccò il volo per Parigi, la capitale della massoneria, dove lo attendeva il suo amico cardinale Rohan, uno dei suoi maggiori seguaci nonché ricco e potente.
L'arrivo a Parigi
Il 30 gennaio 1785 arrivò preannunciato da tutte le gazzette ed accolto in modo trionfale, ora che la stella di Mesmer era caduta lasciando il palco libero. Cagliostro curava molto l’immagine e la messa in scena incentrata sul mistero, riceveva pochissimi intimi e si faceva veder raramente in giro. Diceva di esser nato in Egitto migliaia di anni prima e di aver conosciuto Mosè, di aver appreso l’arabo, il latino, il greco e l’arte medica. Sempre in questo alone di mistero non mancava di stupire gli ospiti con magie e profezie. Si racconta che si rivolse a lui un marito triste per la moglie adultera, al che il mago gli fece bere un infuso: se la moglie lo avesse tradito, alla mattina si sarebbe trasformato in gatto. La mattina seguente la moglie di fatto trovò un enorme gatto nero nel letto, e pentita scoppiò in lacrime; il marito, tornato umano, la perdonò. Non arrivò ad offuscare Voltaire ma era altrettanto famoso, così come la società aveva bisogno di sognare. Ma si racconta anche che ad una sontuosissima cena esercitò la negromanzia richiamando come commensali Montesquieu, D’Alembert e Diderot, che tra lo shock dei presenti risposero alle domande e si accomiatarono all’alba. Parigi era tempestata di riproduzioni della sua figura su tabacchiere, ventagli e quant’altro; detrattori e seguaci almeno su una cosa concordavano: il suo successo era enorme, e nelle fila della sua setta le iscrizioni erano in crescente aumento.
Principi, prelati e addirittura un arcivescovo divennero maestri del rito egiziano e chiesero il riconoscimento del Papa con la sola richiesta di abolire le quaresime. Un altro colpo da maestro fu la fondazione di una loggia femminile, ottenendo un grandissimo consenso da parte delle dame francesi che si iscrissero in massa.
Sempre nel 1785 si tenne a Parigi un eccezionale convegno organizzato dai Filateti con lo scopo di mettere ordine e unificare i riti massonici: questi pensarono bene di chiedere al grande Cagliostro di fare da arbitro, poiché godeva di fama smisurata.
Il conte non si lasciò scappare questa occasione per cercare di far riunire sotto il rito egiziano la massoneria: chiese quindi ai Filateti di sciogliere la loro setta, aderire al rito egiziano e bruciare i loro documenti. Per quanto Cagliostro si accerchiasse di abili scrittori per i suoi magnificenti comunicati, finì sconfitto. Fallì a solo un passo dalla realizzazione del suo progetto di diventare papa laico; ma solo un illuso poteva pensare di sottomettere principi e aristocratici senza averne il sangue, per quanto la sua fama fosse grande.
L'affare della Collana
Così come il cardinale Rohan fu parte della sua fortuna, così lo ridusse in galera a causa di un intrigo nel quale il nostro protagonista non aveva colpa alcuna. Nel 1785 Cagliostro si trovò invischiato nella famosa L'affair du collier che tanto scalpore e scandalo fece in tutta Europa.
Il cardinale Rohan era una persona estremamente stravagante: Maria Teresa d’Austria lo odiava cordialmente per il personalissimo andazzo che ebbe come ambasciatore a Vienna. La madre ebbe sempre influenza sulla figlia Maria Antonietta, che quindi lo trattò sempre come nemico. Il cardinale non aveva bisogno dell’appoggio del re, tanto era ricco e potente; però aveva sempre un gran desiderio di essere nelle grazie della regina, come tutti. Il difetto peggiore di Rohan era la creduloneria: così come si era fatto abbindolare da Cagliostro, cadde nelle trame della celeberrima Jeanne de la Motte . Questa era la moglie di un sedicente conte che a 25 anni aveva più debiti che onori, e grazie alla sua bellezza riceveva qualche soldo dal cardinale, che ne godeva dei favori. Per mantenere il loro dispendioso tenore di vita, la Motte e il Marito escogitavano parecchie truffe dando a intendere che La Motte era nelle grazie di Maria Antonietta. Così la donna, saputo il desiderio del cardinale di esser nelle grazie della regina, gli combinò un bello scherzetto che la rese ricca per qualche mese. Due ebrei tra i più ricchi gioiellieri di Francia, fornitori di corte, avevano realizzato una delle più costose collane in pietre preziose dell’epoca dando fondo a tutto il loro capitale. La collana però venne più volte rifiutata dalla regina; al che La Motte pensò bene di gabbare i gioiellieri, promettendogli di rendere la collana accetta alla sovrana. Fece pagare per il momento il prezioso gioiello al cardinale, con la scusa che la regina non poteva pagarla nell’imminenza, ma che sarebbe stata grata del gesto per il prestito. Il cardinale, aggirato ben bene, sborsò un milione e seicentomila lire: circa 780.000€ odierni.
La truffa però non riuscì, poiché i gioiellieri ignari ringraziarono la regina, che scoprì la frode. Così, La Motte ed il cardinale finirono alla Bastiglia. La Motte sotto tortura denunciò Cagliostro, che era sempre stato un suo rivale nelle attenzioni verso il cardinale, al quale in modo diverso spillava quattrini. Anche il conte finì alla Bastiglia, dove rimase rinchiuso come la moglie per sei mesi. Lo scandalo si concluse con un processo che scagionò Cagliostro con formula piena; ma la vicenda mise in cattiva luce i regnanti, che si rifecero comunque su di lui e lo cacciarono dalla Francia. La popolazione inneggiava all’impareggiabile Mago, un tripudio di folla salutò la sua partenza; tuttavia, questo fu l’inizio del suo declino.
Gli anni del declino
Per qualche anno fu di nuovo errante tra l’Inghilterra, la Svizzera e l’Italia, ma il suo successo scemava; in ogni città doveva poi sloggiare per gli attacchi da parte dei medici, e aveva sempre la polizia francese alle calcagna. Giornali scandalistici al soldo del re di Francia non gli risparmiarono scredito, come numerosi libelli scritti in tutta Europa. Sempre amico e suo mecenate fu il banchiere svizzero Sarrasin, che potè comunque far poco contro la mente ormai malata del conte, sempre volta al riconoscimento del suo rito quando anche la massoneria gli aveva voltato le spalle. Il conte aveva contratto decenni prima la lue, malattia che rimase in incubazione per anni eccitando le cellule cerebrali come un oppiaceo, ma che alla fine lo portò fuori di senno. A questa grave situazione si sommava anche lo stolto comportamento della moglie, che ormai avvezza al lusso non si preoccupava delle sorti del marito ed era pronta a screditarlo in cambio di denaro, come fece con gli emissari del governo francese che gli estorsero inopportune dichiarazioni.
Ma la svolta definitiva alla sua fortuna la diede lui stesso, sempre nel tentativo di creare la massoneria del rito egiziano. Arrivato a Trento legò subito col vescovo della città, alchimista e massone, che non solo gli diede ospitalità ma appoggiò l’idea strampalata di chiedere al Papa il riconoscimento del rito egiziano procurandogli un salva condotto per l’Urbe. Nessuno sapeva quel che stava facendo e in che guai si sarebbe cacciato Cagliostro, nonostante all’epoca fosse palese come i potenti facessero il bello e cattivo tempo senza scrupoli per nessuno.
A Roma la vita non gli fu facile. La moglie lo detestava e desiderava tornare dalla sua famiglia; arrivò addirittura a far insaponare le scale con la speranza che si rompesse il collo. Ma Cagliostro alla fine la perdonava sempre: mai come ora lui aveva bisogno di lei, mentre lei non ne aveva di lui. Anche i suoi miracoli finirono e procurarono danni anziché benefici. Pur conducendo vita riservata non perdeva il gusto di raccontare cose strampalate, ma ciò non gli procurava né fama né denaro, che incominciava a scarseggiare. Riallacciò alcune fruttuose amicizie con i massoni e tentò di incontrare il papa Pio VI, che però si guardò bene dal riceverlo e anzi manovrava per la sua fine. Correva l’anno 1789: la Francia era in piena rivoluzione, dietro alla quale si supponeva ci fosse la massoneria. La rivoluzione minacciava terribilmente tutta Europa e anche lo stato vaticano: se ricordiamo che a Londra Cagliostro, nel tentativo di riavere il suo denaro sottratto dalle autorità per il processo, recitò il presagio della fine della monarchia capetingia, capiamo in che brutta posizione fosse. Il mago chiese alla Francia rivoluzionaria di poter tornare, ma a Parigi avevano altro a cui pensare. Comunque non si accorse della fine a cui andava incontro.
Tra il 13 e il 14 settembre dello stesso anno diede l’ultima prova delle sue abilità magiche in una seduta tenuta in Villa Malta a Roma, alla presenza di potenti e nobili aristocratici.
All’indomani di quella seduta, che doveva esser segreta, tutta Roma ne parlava. Un cardinale francese al servizio di Maria Antonietta, che aveva chiesto la testa di Cagliostro a PioVI, andò a spifferare al Santo Uffizio che già da tempo raccoglieva prove contro di lui. Serafina fu adescata dall’Inquisizione perché denunciasse il marito, che però fiutò il complotto e chiuse la moglie sotto sorveglianza di un frate. Ma il religioso si lasciò irretire dalla bella Regina di Saba e la lasciò libera di denunciare Cagliostro. Serafina e i suoi parenti accusarono il mago di massoneria contro la Chiesa, e il 27 dicembre il conte venne arrestato dai picchetti e condotto in Sant’Angelo. In quegli anni a Roma ritornò in auge l’Inquisizione: al minimo sospetto si finiva sotto tortura e in prigione. Cagliostro era ritenuto temibile, e il Papa si aspettava l’invasione di truppe di massoni venute a liberare il povero mago. Lo stato d’assedio durò poco e tutto si dissolse in nulla, perché nessuno era disposto a scendere in piazza e far la rivoluzione per il Grande Cofto.
Nelle fauci dell'Inquisizione
Il Sant’Uffizio, dopo aver raccolto le accuse, iniziò a rovesciare sul povero Cagliostro un infinità di crimini: anzitutto quelli religiosi, come non andare a messa e non rispettare i digiuni, aver bestemmiato e incitato alla libertà sessuale; oltre a questi però il Santo Uffizio, con la benedizione del Papa come in passato e in futuro, non mancò di caricare sul sequestrato anche i crimini, per lo più presunti, avvenuti fuori della sua giurisdizione. Cagliostro dovette anche rispondere di tutto il suo passato e di un memoriale apocrifo della moglie, che raccontò anni di prostituzione con i notabili di mezza Europa. Lo si accusò anche di aver sedotto zitelle e cameriere, di aver falsificato e aver sobillato per la rivoluzione francese. Seguirono poi le accuse di idolatria, sacrilegio e altri peccati contro Dio che aveva per anni perpetrato con la massoneria. Per il Santo Uffizio queste accuse erano le più gravi, anche perché non si poteva permettere che qualcuno potesse fare miracoli meglio della Chiesa.
Cagliostro, dopo ben 43 interrogatori nei quali cercò di giustificarsi, alla fine crollò ammettendo i propri errori; chiese clemenza e possibilità di remissione, disposto a vergar ritrattazione perché c’erano ben un milione di adepti al rito egiziano che solo leggendo le sue parole sarebbero ritornati sulla retta via. Anche il Papa di nascosto assistette agli interrogatori, ma sia lui che i prelati rimasero impassibili quando Cagliostro fece i nomi di cardinali, vescovi ed altri prelati aderenti al suo rito per dimostrare che era nel seno di Santa Romana Chiesa.
Il processo si svolse a porte chiuse e i difensori smontarono tutte le accuse, in particolare quella massonica, dimostrando che il famigerato Gran Cofto era semplicemente un ciarlatano che “servava di far quatrini come altri”, e che nel suo libro intriso di stravaganze comunque non c‘era traccia di eresia, insomma tutta Europa l’aveva conosciuto e preso per quel che era ma solo Santa Romana Chiesa aveva creduto che fosse un eretico come Maometto o Calvino, capace di fare una nuova religione. La difesa quindi si spostò sulla infermità, cercando di farlo passare per pazzo.
Il 7 aprile del 1791, in ginocchio, incatenato e con un cappuccio sul capo, Cagliostro ascoltò la sentenza che lo condannava all’ergastolo sottraendolo alla pena di morte. Lorenza fu mandata in un covvento e di lei non si seppe più nulla; il cappuccino che si fece masturbare da Lorenza fu confinato per 10 anni in un monastero; gli aristocratici che assistettero alle imprese del mago subirono un processo laico e quindi si poterono difendere, mentre i prelati che per anni avevano sguazzato con Cagliostro subirono un processo farsa, tanto il capro espiatorio era stato preso. Le conseguenze di questa punizione esemplare però non furono favorevoli alla Chiesa. Cagliostro era stato conteso da re e potenti di tutta Europa, ed era ancora famosissimo; la sua condanna fece scalpore, e la sentenza fu così orribilmente severa che la massoneria non solo non si intimorì, ma reagì scrivendo libelli che andarono a ruba, mentre accrescevano gli adepti alla massoneria.
La fine
Per sedici mesi Cagliostro fu prigioniero a Castel Sant’Angelo. Poi fu trasferito a San Leo, un piccolo paese nelle Marche: qui fu rinchiuso nella cella di un antico castello adibito a carcere.
La sua vita era ormai finita e dovette subire una pena assai severa, in isolamento in una stanza di tre metri per tre a cui si accedeva solo da una bottola dal soffitto; oltre alle percosse dei carcerieri subì anche gli acciacchi e i malori della vecchiaia. Inutilmente pregò e si pentì e inutilmente attese una liberazione da parte del Papa, che lo considerò fino alla morte pericolosissimo. Le sue sofferenze finirono il 26 agosto del 1795.