Lo Stato Pontificio era dopo il Regno di Napoli lo Stato più sgangherato e retrogrado dello stivale.
Roma era impermeabile alle novità e respingeva qualsiasi cosa minacciasse l’assetto tradizionale, sanzionato dalla Controriforma.
Il papa, rappresentante di Dio in terra, rafforzato dal Concilio di Trento, solo a Dio, o quasi, rendeva conto del suo operato; riuniva nelle proprie mani il potere spirituale e quello temporale ma la medaglia aveva il suo rovescio: il papa non poteva trasmettere la tiara ad un membro della sua famiglia e quest’impossibilità di designare un successore impediva la continuità di una politica e ne favoriva i capovolgimenti.
Per quanto il potere del papa fosse assoluto egli doveva fare i conti con la curia allergica ad ogni riforma. Le conseguenze di una simile politica erano una sclerosi delle istituzioni e un ristagno economico con una burocrazia senza ricambi né scambi, monopolio assoluto del clero.
Scrive il De Brosses: “Negli Stati Pontifici la forma di governo è quanto di peggio si possa immaginare: esattamente il contrario di quel che Moro e Machiavelli avevano immaginato nelle loro utopie. Figuratevi cosa può essere una popolazione composta per un terzo di sacerdoti, per un terzo di persone che lavorano poco e per un terzo di persone che non lavorano affatto.
Un paese privo di agricoltura, commercio, industria, posto in mezzo ad una campagna fertile e lungo un fiume navigabile; con un sovrano sempre vecchio, di scarsa durata, spesso impossibilitato ad agire e circondato da parenti unicamente tesi a far ciccia finchè dura; un paese dove ogni cambiamento significa l’arrivo di una nuova banda di ladri affamati al posto di quelli già sazi; un paese che assicura l’immunità a qualunque criminale purchè amico di un potente o sul limite di un luogo sacro; un paese dove il reddito nazionale consiste nei contributi in progressiva diminuzione dei paesi stranieri.”
Miseria e nobiltà
L'agro romano, infestato di acquitrini, zanzare, briganti, era una terra di nessuno in cui nessuno osava avventurarsi. Non vi era ombra di industria e l’unica forma di attività era l’artigianato; i più campavano di elemosine e di espedienti.
L’attività artigianale era concentrata nella zona di Chiesa Nuova, piazza Navona, Pantheon, Campo dei Fiori: un dedalo di viuzze strette su cui si affacciavano una miriade di botegucce; l’attività che in esse si svolgeva dava il nome a questi angiporti: in vicolo dei Capellari si confezionavano cappelli, in via dei Canestrari ceste, in via dei Vaccinari pelli.
Le botteghe non avevano vetrine né esibivano il nome dei proprietari e per farsi riconoscere inalberavano rozze insegne: un berretto rosso voleva dire che lì si vendevano copricapi per cardinali, una mano indicava un negozio di guanti, un serpente designava una farmacia, un bacile un barbiere, un turco con la pipa un tabaccaio, un paio di forbici un sarto. Chi non aveva i mezzi per aprire un negozio, teneva banco sulla strada, come i macellai, i fruttivendoli e i pescivendoli.
I prezzi erano regolati da un calmiere e alcuni prodotti come cera, armi, cipria, cuoio, spille, erano sottoposti a privativa: la loro vendita era monopolio di questa o quella famiglia.
Anche la castrazione dei fanciulli destinati alla cappella papale (l’orrendo rito si celebrava in una bottega di barbiere) era esclusiva di pochi privilegiati.
Di sera i negozi chiudevano i battenti e i venditori ambulanti rincasavano perchè con il buio era meglio non circolare: non esisteva l’illuminazione e la vigilanza notturna lasciava molto a desiderare perché le stesse pattuglie temevano le imboscate.
Ogni occasione era buona per battersi in duello: questioni di interessi, corna, debiti di gioco, insulti, minacce. Il duello era uno spettacolo pubblico e ad esso di dedicavano non solo i nobili ma anche la plebe, la parte più estrosa e pittoresca della popolazione.
Il popolino viveva come in un ghetto, in quartieri fetidi, in case scalcinate e prive dei più elementari comforts. La plebe faceva branco a sé, non si mescolava alle classi superiori e si riconosceva dalla parlata e dalla foggia.
Gli uomini portavano una giacchetta di velluto, un panciotto dello stesso tessuto, una camicia aperta, calzoni fermati sotto il ginocchio, calze lunghe colorate e scarpe di cuoio affibbiate; le donne indossavano una giacca di cotone o di velluto guarnita di pizzi e svolazzi, con maniche a sbuffo. Sotto avevano una veste dello stesso colore, lunga fino alla caviglia, portavano scarpe simili a quelle maschili, avevano lunghissime trecce che riunivano a crocchia e fermavano con spille e pettini. Al collo, agli orecchi, ai polsi appendevano ciondoli dozzinali di cattivo gusto spagnoleggiante.
I divertimenti dei popolani erano le feste di quartiere fatte di canti, balli, fuochi d’artificio che culminavano a carnevale.
Molti giocavano d’azzardo, dadi, biribisso, faraone; altro hobby era lo “sfottò” dei potenti. Il popolano romano era scostumato e mordace e corbellava volentieri le autorità compreso il papa.
Quando il pontefice passava il plebeo si buttava in ginocchio, con una mano si faceva il segno della croce e con l’altra faceva scongiuri, nemmeno i lazzaroni napoletani giungevano a tanto.
La nobiltà non era migliore era anzi altrettanto turbolenta e di faceva giustizia da sé e nei modi più spicci.
Il nepotismo aveva portato alla ribalta quella cosiddetta nobiltà nera, creata dagli stessi papi, che elargivano titoli e feudi a figli, nipoti, pronipoti, parenti prossimi e lontani. La fortuna di queste famiglie, i Borghese, i Barberini, gli Aldobrandini i Braschi, era strettamente legata a quella del papa. Quando questi moriva la famiglia continuava a godere delle rendite avute da lui e passava le redini ai “nepoti” del successore.
Nobili e prelati si mescolavano allegramente in una girandola di feste, balli, concerti, cacce, serviti da legioni di valletti, camerieri e maggiordomi.
Il patrizio romano non faceva niente perché niente sapeva fare, persino i più disperati non lavoravano; quando erano al verde si mettevano al seguito di un principe o di un cardinale e ne diventavano i caudatari e i parassiti.
Nonostante tutto il nobile romano era maniaco dell’etichetta e ligio alle precedenze, capace di scatenare il finimondo per un semplice precedenza; scialacquava interi patrimoni al gioco e nessuno, nemmeno il papa, riusciva a salvarlo dalla bancarotta.
Tra i nobili c’erano ovviamente delle eccezioni: alcuni lavoravano onestamente e soccorrevano i bisognosi e proteggevano le arti: gli Odescalchi e i Torlonia fondarono ospedali, collegi, ospizi, gli Albani istituirono una bellissima biblioteca ma erano mosche bianche.
Il Generone
Fra l’aristocrazia e la plebe c’era il cosidetto “generone”, una borghesia clericale, tipicamente romana, formata da avvocati, notai, medici, cancellieri, tutti al servizio del Vaticano.
Zelanti, bigotti ed untuosi vivevano nell’ombra, non sfoggiavano ricchezze, non mancavano ad una messa e non si concedevano divertimenti. L’ambiente in cui vivevano s’intonava perfettamente a queste grigie abitudini: soffitti alti e plumbei, pareti tappezzate di crocifissi e tele di santi, tavoli imponenti, inginocchiatoi e busti del pontefice in carica.
La camera da letto era dominata da un enorme talamo sormontato da un baldacchino, sostenuto da quattro colonne. Ai lati due inginocchiatoi colmi di santini e rosari; alla parete un altarino con l’immagine della Madonna illuminata da una lucernetta sempre accesa.
La vita in famiglia era fatta di riti monotoni e compassati regolati dal padre che rappresentava l’autorità domestica. La moglie lo chiamava “signore”, i figli “signor padre”, gli baciavano la mano e gli facevano l’inchino, gli rivolgevano la parola solo se interrogati.
L’educazione dei figli era affidata ad insegnanti che al minimo errore li frustavano e li facevano fare con la lingua il segno della croce sul pavimento. Finiti gli studi il padre procurava ai maschi un impiego in Vaticano e alle femmine un marito appartenente anche lui al generone; in mancanza di un marito c’era un posto in convento.
Era questa la Roma barocca: una città neghittosa, codina e pacchiana, arretrata e in balia del clero e della nobiltà; una società che respingeva con terrore tutto ciò che potesse minacciare lo status quo.