Nell’industria, il periodo non vide progressi spettacolari. Perfino in Inghilterra la rivoluzione industriale cominciò a esercitare un’influenza importante sulla vita nazionale solo nel decennio 1780-89. Ormai era in atto una grande serie di cambiamenti tecnologici collegati tra loro. Il paese cominciava a dimostrare al resto del mondo che un tipo di sviluppo economico nuovo nella storia, capace di autoalimentarsi e caratterizzato da un ritmo accelerato, era alla portata, perlomeno, delle società progredite. L’industria tessile, soprattutto la manifattura del cotone, era stata rivoluzionata da una serie di macchine nuove: la giannetta, il telaio ad acqua, il filatoio intermittente. La produzione di ferro dell’Inghilterra stava per avere un enorme sviluppo grazie all’utilizzazione su larga scala del coke per la fusione.
L’energia necessaria per far funzionare macchine di tutti i tipi cominciava ad essere fornita dal motore a vapore di James Watt, che aveva possibilità economiche di gran lunga superiori a quelle dei costosi e inefficienti motori « atmosferici » che l’avevano preceduto. Fin verso la fine del secolo, in ogni modo, poche industrie facevano largo uso di macchinari alimentati da energia artificiale. Secondo un osservatore bene informato, nel 1752 non c’erano in tutto il paese più di un centinaio di « motopompe » e ancora nel 1800 tutti i motori Watt in uso in Inghilterra sviluppavano complessivamente circa 5000 cavalli-vapore. La forza di lavorazione più usata era ancora quella dei corsi d’acqua che muovevano i mulini. L’attività industriale dipendeva ancora dalle condizioni atmosferiche, e poteva perciò essere rovinata da una siccità o da un’alluvione in una misura che oggi ci riesce difficilmente comprensibile. Al di fuori dell’Inghilterra, tranne, in parte, la Francia e i Paesi Bassi austriaci, la rivoluzione industriale non era ancora in fase di sviluppo, al principio del decennio 1780-89. Le grosse fabbriche con centinaia di operai e macchinari relativamente complessi e costosi erano eccezionali.
In Francia la grande società mineraria di Anzin, fondata intorno al 1755, prima del 1789 impiegava 4.000 uomini. La fabbrica di tessuti di van Robais a Abbeville, una delle meraviglie industriali dell’epoca, ebbe per buona parte del secolo circa 3.000 operai, mentre ce n’erano a centinaia che filavano a domicilio per conto della stessa fabbrica. In Inghilterra il setificio creato da Thomas Lombe a Derby, nel 1717-21, impiegava oltre 300 operai e conteneva macchinari con 26.000 ruote, mentre due generazioni più tardi il grande padrone delle ferriere John Wilkinson fornì uno dei primi importanti esempi di «concentrazione verticale » di un’industria, padrone com’era di miniere di ferro, miniere di carbone e fonderie. Nondimeno la fabbrica, nel senso moderno del termine, era ancora nella sua infanzia. Aveva dimensioni ridotte: una inchiesta ufficiale del 1764 nei Paesi Bassi austriaci dimostrava che le imprese industriali con quarantacinque operai erano considerate eccezionalmente grandi. Inoltre era conservatrice nella tecnica, dominata da idee e tradizioni derivate dalla produzione artigianale.
Gli operai
Quando numerosi operai si trovavano concentrati in una sola impresa, sotto una disciplina e un controllo efficaci, era spesso perché non avevano altra scelta. Ogni stato europeo tentò di arruolare per il lavoro forzato nel l’industria quei settori della popolazione che considerava improduttivi e socialmente pericolosi. Criminali, vagabondi, prostitute, orfani, trovatelli e talvolta soldati venivano così utilizzati negli ospizi e nelle prigioni, negli orfanotrofi e nelle caserme. In Boemia al principio del diciottesimo secolo le autorità ordinavano sistematicamente, due volte all’anno, una retata di mendicanti e vagabondi: i bambini fino ai quattordici anni finivano negli ospizi e gli adulti ai lavori forzati. A Berlino, in quello stesso periodo, fu creata in un orfanotrofio una grande fabbrica di merletti, mentre sotto Federico Guglielmo I i soldati furono addetti alla filatura della lana e del cotone, e le caserme diventarono una sorta di stabilimenti industriali.
In quasi tutto il continente il metodo più diffuso di produzione industriale fu quello della lavorazione a domicilio. Il tipico operaio industriale, nella misura in cui esistette, fu un lavoratore a domicilio. Con questo sistema, i cui dettagli variarono ampiamente nelle diverse regioni d’Europa, l’operaio eseguiva diverse operazioni con i materiali che gli venivano forniti dal fabbricante direttamente o, più spesso, attraverso un intermediario. Gli attrezzi potevano essere di sua proprietà o noleggiati dal datore di lavoro. I prodotti venivano poi rifiniti in una fabbrica abbastanza simile a quella moderna. Così, per esempio, la fabbrica di tessuti di Nova Kydne in Boemia aveva nel decennio 1770-79 1.400 filatori e 100 tessitori che lavoravano per suo conto a domicilio, contro le 297 persone appena impiegate nella fabbrica vera e propria. Il sistema del lavoro a domicilio esisteva tuttavia, in varia misura, praticamente in ogni settore dell’industria europea.
Il fatto che in gran parte dell’Europa le paghe non si tenessero al livello del generale aumento dei prezzi verificatosi nel periodo 1730-70 contribuì anch’esso a una crescente « proletarizzazione » dei lavoratori, creando perciò un clima sociale e economico che anticipò sotto certi aspetti quello del secolo seguente.aumento dei prezzi verificatosi nel periodo 1730-70 contribuì anch’esso a una crescente « proletarizzazione » dei lavoratori, creando perciò un clima sociale e economico che anticipò sotto certi aspetti quello del secolo seguente.