Il mercantilismo non fu uno studio dei principi astratti della ricchezza, come la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Pochissimi autori mercantilisti tentarono di trattare esaurientemente il funzionamento di un intero sistema economico. La gran maggioranza delle opere dei mercantilisti del diciottesimo secolo trattavano di problemi limitati e concreti, immediati e pratici. Il mercantilismo fu perciò un aggregato di atteggiamenti e presupposti diversi, quasi una tecnologia amministrativa, più che una scienza economica.
Il rigore, la durezza e l’austerità che avevano caratterizzato le concezioni del diciassettesimo secolo erano adesso temperati da un atteggiamento più generoso e realistico, quasi liberale. Così in Inghilterra ancor prima della fine del diciassettesimo secolo si trovavano diversi eminenti pubblicisti che ebbero il coraggio di affermare i vantaggi di un incremento dei consumi e di un miglioramento di tenore di vita contro la frugalità, l’astinenza e le basse paghe ancora tanto lodate dalla maggior parte dei contemporanei. Questa tendenza continuò a manifestarsi nel diciottesimo secolo negli scritti di Mandeville, Hume e Steuart; fu probabilmente corroborata dall’evidenza della futilità delle leggi suntuarie emanate per il passato in quasi tutte le regioni d’Europa.
Il gruppo di autori francesi generalmente noti col nome di fisiocratici portò un altro grave colpo al prestigio delle opinioni dei mercantilisti. Essi eguagliarono o superarono i mercantilisti nell’importanza che attribuirono alla necessità di un incremento demografico. La loro concezione di un equilibrio economico ultimo tra stati diversi e diversi tipi di attività nello stesso stato, la visione della terra come unica fonte di ricchezza e l’atteggiamento di implicita ostilità all’industria e soprattutto al commercio che ne deriva, tutte queste cose erano inconciliabili con il mercantilismo. Soprattutto la loro fede in una larga misura di libertà economica, riassunta nella frase laissez faire, laissez passer, l’accentuare i vantaggi che si potevano ottenere consentendo maggior gioco alle forze economiche e alle ambizioni che sono presenti per natura in ogni società, avevano ben poco da spartire con lo spirito mercantilista.
Perciò nel 1776 la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith non apparve in un mondo del tutto impreparato ad accoglierla. Le idee che egli attaccava, pur essendo ancora molto diffuse e autorevoli, erano già state sottoposte a critica sfavorevole da vari decenni.
Nonostante gli avvenimenti che abbiamo descritto l’impressione predominante che si ricava da uno studio dell’economia europea in questo periodo è di stabilità. Un’agricoltura basata su piccoli proprietari indipendenti o su possedimenti coltivati da contadini in miseria e non liberi; un’industria dominata da lavoratori a domicilio e corporazioni artigianali; un commercio marittimo alla mercé dei venti e delle condizioni atmosferiche, più o meno come ai tempi di Colombo: tutti questi elementi non compongono un quadro di rapido progresso. I processi produttivi si basavano ancora quasi esclusivamente sull’utilizzazione delle fonti di energia più ovvie presenti in natura e di materie organiche, soprattutto il legname. Niente di più errato che pensare a questo periodo tenendone presenti soltanto o soprattutto gli innovatori tecnologici o i grandi imprenditori, i Watt e i Coke, i Townshend e i Wilkinson, le società Carron e Anzin.
Questa impressione di arretratezza è convalidata dalla scarsità del bene più essenziale per la formulazione di una politica economica efficace: l’informazione. Per buona parte del secolo pochi governi seppero, sia pure con una certa approssimazione, il numero esatto dei loro sudditi. I tentativi per saperne di più incontravano facilmente l’opposizione di chi li considerava empi o vi vedeva il preannuncio di nuove tasse. Così in Inghilterra, nel 1753, una legge per un censimento annuale della popolazione dopo essere stata approvata ai comuni fu bocciata dalla camera dei lord.
Nel diciottesimo secolo era impossibile ottenere informazioni economiche di vario tipo. È altrettanto chiaro che troppo spesso i governi mancarono della volontà oltre che della capacità di raccoglierne. In Inghilterra non ci furono censimenti fino al 1801; e anche allora i risultati non furono del tutto attendibili. In Russia, ancora nel 1808 il ministro delle finanze deplorava che non si fosse mai fatto il tentativo di calcolare con precisione la bilancia commerciale del paese.
Il carattere ancora parzialmente medievale della vita economica del diciottesimo secolo risulta anche da altre cose. L’idea di una attiva concorrenza tra fabbricanti o mercanti come elemento normale e desiderabile fu lenta a prendere piede e i governi fecero spesso tentativi per impedire le riduzioni di prezzo. Certe idee che avevano messo radici in età pre-capitalistica e pre-industriale, per esempio quella del « giusto prezzo », conservavano ancora gran parte dell’antica vitalità. Così Savary des Bruslons, autore del massimo trattato commerciale dell’epoca, Le parfait négociant, ancora nell’edizione del 1724 poteva sostenere che il prezzo di un prodotto andava determinato in base al giusto guadagno che il venditore doveva ricavarne. L’idea fu ripresa da uno scrittore tedesco ancora nel 1768. Un analogo rifiuto dello spirito capita- lista si rivela nella tendenza quasi universale a sprecare le risorse, come si era fatto per secoli, in spese fortissime per palazzi, vasel lame d’oro e d’argento, abiti, gioielli e quadri. Questa tendenza era altrettanto marcata sia nei paesi come la Francia, dove esiste vano le possibilità di un redditizio investimento nel commercio e nell’industria, sia in altri paesi come la Polonia, dove queste possibilità erano di gran lunga più rare. Alternativamente, il capi tale poteva essere male investito — almeno secondo i criteri del capitalismo industriale — in altre cose, come l’acquisto di cariche governative. Nel 1712 un osservatore francese propose senza successo di prendere misure intese a impedire che gli uomini d’affari rinunciassero alla propria attività per comprare uffici governativi che comportavano privilegi nobiliari, e analoghe proposte furono avanzate anche più tardi in quello stesso secolo.
Le forze che contribuirono ai cambiamenti e al progresso nel diciottesimo secolo non vanno sottovalutate: in Inghilterra almeno tra il 1680 e il 1780 il reddito nazionale fu triplicato. Nondimeno è facile esagerarne la portata e l’effetto immediato. Se ci proviamo a vedere quel periodo quale appariva ai contemporanei, particolar mente a quelli che non facevano parte delle classi colte o privilegiate, è impossibile raffigurarcelo dominato dalle banche, dalle borse, dalle grosse fabbriche o dalle grandi società commerciali. I carri che si trascinavano penosamente su strade malandate, le navi a vela trattenute in porto a volte per settimane o mesi dai venti contrari, i lavoratori a domicilio inchiodati al banco o al filatoio, l’eccezionale prestigio sociale di cui godeva agli occhi di tutti la proprietà della terra, tutte queste cose ci dicono che si era da molti punti di vista ancora più vicini al tredicesimo che al diciannovesimo secolo.
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