Ferdinando II
L’erede al trono, Ferdinando, crebbe in questo ambiente che, a differenza del padre, gli era congeniale e gli piaceva. Era un bel ragazzo pieno di salute e a vederlo nessuno avrebbe potuto dire che era figlio di Cosimo. Studiava con profitto e amava lo sport. Abile nuotatore e abile cacciatore ogni mattina faceva lunghe cavalcate. Fu sottoposto, fin da bambino ad una rigida educazione religiosa che però non lo aveva reso bigotto. All’età di tredici anni, la nonna e la madre decisero di dargli in moglie la cugina Vittoria, figlia di una sorella di Cosimo, Claudia e del defunto Federico della Rovere, figlio del Duca di Urbino. Vittoria aveva solo diciannove mesi, ma avrebbe ereditato alla morte del nonno una delle province più ricche d’Italia. A causa dell’età dei due fidanzati, il matrimonio fu rimandato. La piccola Vittoria fu affidata alle cure di una zia monaca; le nozze furono celebrate nel 1634. La sposa aveva allora quattordici anni e lo sposo ventiquattro. Per altri due anni però vissero separati.
Ferdinando non aveva la stoffa politica dei suoi predecessori. Come la nonna e la madre amava il lusso.
Alla morte del Duca di Urbino, il papa Urbano VIII rivendicò quel territorio che, tramite Vittoria sarebbe passato ai Medici. L’intervento dello zio Imperatore che non voleva trovarsi in conflitto con il Pontefice, indusse Ferdinando a rinunciare all’eredità della moglie. A Vittoria spettarono solo le collezioni d’arte del nonno.
Pur detestando la guerra, Ferdinando dovette far ricorso alle armi, quando sempre Urbano VIII decise di annettersi la città di Castro, feudo dei Farnese, verso i quali papa Barberini nutriva un odio profondo. Ferdinando unì il suo esercito a quello di Venezia e di Modena, schierati con i Farnese. Fu una piccola guerra ma sanguinosa che costrinse il Papa ad una ritirata e che costò a Firenze vite umane e denaro. Per finanziarla, il Granduca aveva imposto una nuova tassa, quella sulle macine, che ovviamente colpì i poveri e una tassa sulle parrucche che dispiacque ai ricchi.
Amante del lusso, come era, Ferdinando aveva sempre bisogno di denaro. Era un generoso mecenate e aveva una moglie che come lui amava la ricchezza. Vittoria della Rovere amava divertirsi e far sfoggio di eleganza. Da Roma e da Parigi si faceva inviare dagli ambasciatori, cosmetici, stoffe, ventagli, scarpe, toilettes che le dame di corte le invidiavano e che cercavano di imitare. Non era una donna simpatica: era altera ed autoritaria e subì un profondo trauma quando, poco dopo la nascita del primo figlio, Cosimo, sorprese il Granduca tra le braccia di un paggio. In casa Medici i paggi erano sempre stati di moda, ma Vittoria, gelosissima ne fece un autentico dramma. Si comportò, per anni, da vedova. Abbandonò il talamo nuziale ma per non dare scandalo e salvare almeno le apparenze, seguitò a rimanere a fianco del marito almeno nelle cerimonie ufficiali e ad accompagnarlo nei suoi viaggi. Ferdinando dal canto suo continuò nella sua vita di gaudente, riavvicinandosi a Vittoria quel tanto che bastava per un secondo figlio: Francesco Maria.
Come marito ed educatore fu un’autentica disgrazia, tutto preso come era dalle partite di caccia, dalle feste e dalle discussioni con i dotti dell’Accademia del Cimento, di cui era l’alto protettore. La sua indole aperta lo portava a familiarizzare anche con il più umile dei suoi servitori. Cenava spesso con le guardie svizzere e quando era a corto di denaro, alla fine di quei pasti, vendeva ad un oste il vino avanzato.
Per non dover rinunciare ad i suoi passatempi decise di dividere con i fratelli, gli affaridi Stato. A Mattias affidò gli affari militari, a Giovanni quelli finanziari, a Leopoldo quello politici. Per se stesso riservò una supervisione. In questo modo potè dedicarsi all’agricoltura e alla scienza, altre sue grandi passioni.
A Firenze chiamò i migliori botanici e fece del Granducato il bel giardino d’Europa. Si fece costruire un piccolo laboratorio che adibì a esperimenti di fisica e di chimica.
Fu in questo laboratorio che perfezionò il termometro sostituendo nella colonnina lo spirito di vino all’acqua, che aveva l’inconveniente di gelare quando la temperatura era sotto zero. Lo strumento, si diffuse in tutta la Toscana; i fiorentini lo portavano in tasca e l’appendevano alle pareti di casa. Se ne vedevano, nelle carrozze, nei confessionali e nei vespasiani. Il Granduca lo mise persino sotto il sedere di una gallina e questo esperimento gli suggerì l’idea dell’incubatrice.
Amante dell’arte, fu per merito suo e del fratello Leopoldo che Palazzo Pitti e gli Uffizi divennero dei veri e propri musei.
Ferdinando II fu più un mecenate che uno statista e fu l’ultimo Medici degno di questo nome.
Cosimo III
Quando nel 1670 Ferdinando morì stroncato da un colpo apoplettico, il figlio Cosimo aveva ventotto anni. Probabilmente sul carattere del nuovo Granduca, molto influì, l’umore della madre Vittoria della Rovere. Sviluppò un carattere chiuso e diffidente. I cronisti dell’epoca dicono che fu una caduta da cavallo a sedici anni a dargli quell’aria seria e chiusa. Ma è da escludere. Già prima frequentava solo chiese e preti e a quanto pare rimase casto fino al matrimonio. Varcando la soglia delle sue stanze, sembrava di entrare in una cappella.
Non era, dunque facile trovargli una moglie. Il suo matrimonio fu deciso in base ai soliti calcoli dinastici. Il padre Ferdinando, scelse come sposa, una principessa d’Orleans, Margherita Luisa, cugina di Luigi XIV re di Francia, così ritratta da un certo don Bonsi: “ Mademoiselle ha tredici anni. È bella di lineamenti, ha i capelli castani, gli occhi color turchese, e sembra estremamente dolce e gentile.”
Il Cardinale Mazzarino, messo al corrente delle trattive, non nascose il proprio compiacimento: se la figlia di Gastone d’Orleans fosse andata sposa a Cosimo, il suo sogno di diventare papa con i voti dei cardinali toscani, che tanto peso avevano nei conclavi, poteva forse realizzarsi.
Sul tavolo del Granduca seguitavano a fioccare rapporti su Margherita, sul suo aspetto, sul suo carattere, sulla sua salute, sulle sue abitudini. Don Bonsi, da parte sua rincarava la dose: “Margherita odia il Louvre perché c’è tanta gente: è nata proprio per vivere in Toscana, dove l’esistenza è regolata in modo così metodico.”
Le missive furono lette anche da Cosimo che ebbe improvvisamente voglia di sposarsi. Cominciò ad avere più cura della propria persona e ad ascoltare meno messe.
Il contratto di matrimonio fu firmato il 24 gennaio 1661 ma a questo punto avvenne un qualcosa che nessuno aveva potuto prevedere. Margherita si era innamorata del cugino Carlo di Lorena, e lui di lei. La principessa supplicò Luigi XIV, tramite la madre, di sciogliere il contratto ma il re fu irremovibile. Le nozze furono celebrate nella cappella del Louvre, per procura, il 17 aprile del 1661. Quel giorno Cosimo, si trovava a Firenze a letto con il morbillo.
I due si incontrarono solo il 15 giugno ad Empoli, e Cosimo emozionato, riuscì ad essere con la sposa freddo ed impacciato dimenticandosi persino di baciarla, tra lo stupore dei presenti.
Fu deciso che gli sposi avrebbero passato la notte in letti separati, perché il principe era ancora convalescente. Il matrimonio fu consumato il 22 giugno ma la vita coniugale di Cosimo e Margherita non poteva iniziare sotto auspici peggiori. Soli pochi giorni dopo il solito don Bonsi scriveva a Fouquet: “ Il Principe è andato a letto con la moglie tre volte sole e, ogni volta che non ci va, manda un valletto a dire a Madama di non aspettarlo. Le dame francesi e le ancelle sono molto sorprese che il Principe faccia così pochi complimenti.”
Margherita passava le giornate a piangere. Certamente Cosimo era ben diverso da come se l’era immaginato. Era goffo, pesante, privo di slanci e di comunicativa. Dal canto suo Cosimo vedeva Margherita come una ragazza capricciosa e con le mani bucate. I suoi scrigni, straripavano di gioielli. Il suo boudoir era zeppo di profumi, cosmetici e unguenti rari. Ordinava sete e broccati francesi, pizzi e merletti delle Fiandre. Il suo guardaroba veniva rinnovato continuamente. Il Granduca Ferdinando chiudeva un occhio sulle spese della nuora, per la quale provava simpatia.
Nel 1663, Margherita diede alla luce il primo figlio, che fu chiamato come il nonno, Ferdinando. Il parto la lasciò debole e piena di rabbia. Non nascondeva più il suo disprezzo per il marito e la corte.
Forse a fare di Margherita un’isterica aggressiva contribuì anche Cosimo con la sua malaccortezza e la sua frigidità. Tra i due coniugi nacque solo l’odio, e dall’odio nacquero tre figli, Ferdinando, Anna Maria Luisa e Gian Gastone. Dopo anni di scenate intercalate da momentanee e forzate riconciliazioni, i due si separarono definitivamente. Margherita se ne tornò a Parigi, senza più curarsi nemmeno dei suoi figli.
Cosimo divenne Granduca nel 1669 e nei primi tempi governò con sagacia ma alla fine il suo lato bigotto ebbe la meglio sullo statista.
Dopo la partenza della moglie stupì i suoi sudditti abbandonandosi a folli spese gastronomiche. Alla sua mensa affluivano da paesi esotici, salse e spezie; ordinava uva a dicembre e mandarini a luglio; dalle sue cucine uscivano piatti raffinati e complicati. Con questo regime alimentare divenne improvvisamente grasso e la sua salute cominciò a soffrirne.
La gola era l’unico peccato che Cosimo tollerasse. Il fallimento del suo matrimonio aveva accentuato ancor di più il suo zelo bigotto. Immerse non solo la Corte, ma la Toscana tutta in un bagno di puritanesimo. La sua smania di bonifica si abbattè principalmente sulle prostitute, contro le quali istituì un apposito “Ufficio del Decoro Pubblico”. Esse venivano fustigate in strada e costrette a portare un cartello con la scritta “meretrici!” e imprigionate nel carcere delle “Stinche” dove rimanevano fino a quando non si decidevano ad entrare in convento. Di altrettante attenzioni faceva bersaglio gli ebrei, nonostante gli enormi servigi che rendevano all’economia toscana. Li sottoponeva ad ogni sorta di discriminazioni tentando con i soprusidi indurli al battesimo. Un cronista dell’epoca lasciò scritto: “ Non so per quale accidente, tutto il Paese è sommerso da un diluvio di frati e preti.” La Toscana era diventata il loro regno, ce ne erano diecimila in un paese di sessantamila abitanti. Il Granduca perseguitò l’Università di Pisa perché era rimasto l’unico focolaio di una cultura laica e libera.
La vita di Cosimo era regolata da una minuziosa etichetta e austerità. Aveva accentrato tutto nelle sue mani
Da quando l’industria e le banche fiorentine erano state surclassate dalla concorrenza dei Paesi protestanti, la Toscana era diventato un paese quasi esclusivamente agricolo, ma di un’agricoltura povera, data la sua natura collinosa. Invece di agevolare i contadini con incentivi e migliorie, agevolaziono fiscali e esportazioni, Cosimo li colpì con tasse e gabelle condannando il paese all’invecchiamento e impedendo così alla Toscana di essere al passo con i tempi.
Mai decadenza fu altrettanto rapida e altrettanto dovuta al malgoverno di un uomo. Per costruire nuove chiese e conventi, per l’acquisto di reliquie e per finanziare processioni e pellegrinaggi, il fisco si appesantì e quanto rimaneva della banca, dell’industria, dell’artigianato, del commercio andò distrutto e con loro andò in rovina il ceto medio che con i loro capitali avevano costruito lo splendore di Firenze
Come sovrano Cosimo non aveva il senso dello Stato ma solo quello della dinastia. La sua unica ambizione era di trasformare il Granducato in un Regno. Forse fu per questo che fece sposare la figlia Anna Maria Ludovica al Principe Elettore del Palatinato perché costui, essendo fratello dell’Imperatrice d’Austria, la inducesse a riconoscere le sue pretese di essere trattato da Re. E quando da Vienna gli giunse l’autorizzazione a mettere una sbarra sul diadema e farsi chiamare nelle lettere ufficiali “Altezza Reale” e “Serenissimo Principe” gli sembrò di avere vinto una guerra.
Un’altra sua ossessione era la continuità della dinastia, che per il momento sembrava garantita dai due figli Ferdinando e Gian Gastone. Cosimo non vedeva in loro dei figli, ma solo dei Principi che come tali andavano educati. Non si curò mai di capire che uomini fossero. Dedicò qualche cura in più a Ferdinando solo perché era l’erede.