Parma e Piacenza
I piccoli Stati dello Stivale, in balìa delle diplomazie e degli eserciti stranieri, erano contesi ai tavoli delle grandi conferenze internazionali. Asburgo e Borbone decidevano del loro destino senza tener conto di sovranità e diritti dinastici. Le dinastie di questi piccoli Stati si erano disfatte sul piano biologico a causa dei continui matrimoni tra consaguinei ed erano rappresentate da personaggi in piena decadenza.
I Farnese, per esempio, erano da duecento anni duchi di Parma e Piacenza, lo Stato italiano più piccolo dopo quello di Lucca. Di struttura tipicamente paternalistica, aveva al suo vertice una nobiltà oziosa e retrograda che campava di rendite e privilegi insieme al clero. Per contro la borghesia era praticamente inesistente e non aveva nessuna voce in capitolo. Un sistema, questo, che non forniva né ufficiali all’esercito, né politici e diplomatici allo Stato e né imprenditori all’economia; il popolo era costituito di sudditi ignoranti e diseredati.
I Farnese erano padroni bonari ma non avevano fatto molto per risollevare lo Stato. Francesco Maria, che salì al potere alla morte del padre Rinuccio, non aveva certo la stoffa per rimettere in piedi il ducato: tollerante e pigro lasciò correre una situzione già di per sé disatrosa e non trovò soluzione migliore che aumentare le tasse e inasprire i dazi per far fronte alle spese dello Stato. Morì lasciando molti debiti e le redini del Paese in mano al fratello Antonio che come lui era inetto e senza figli. Il successore fu scelto all’Aja nel 1720, nella persona di don Carlos di Spagna, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese.
Il Ducato di Parma: dai Farnese ai Borbone
Quando prese possesso del Ducato, Carlo aveva solo sedici anni e non fece in tempo nemmeno ad ambientarsi perché due anni dopo (1734) la madre e il Cardinale Alberoni gli procurarono la corona di Napoli. Prima di lasciare Parma portò con se a Napoli le più belle opere d’arte che ornavano i suoi palazzi.
Il Ducato fu affidato ad una reggente, Dorotea di Neoburgo, madre di Elisabetta Farnese e nonna di Carlo, che lo governò per quattordici anni fino alla pace di Aquisgrana con la quale il paese fu assegnato a Filippo, il secondogenito di Elisabetta Farnese.
Filippo, pur non avendo la stessa intelligenza e la stessa energia del fratello Carlo, era pieno di buon senso, di equilibrio e di cultura. Aveva sposato a diciannove anni la figlia prediletta di Luigi XIV re di Francia, Luisa Elisabetta, che ne aveva solo tredici, meglio nota come Babette o Madame Infante.
Quando la coppia giunse a Parma non vi trovò nemmeno i letti perché Carlo aveva portato via con se anche quelli. Ci volle l’intervento del Re di Francia per indurre il re di Napoli a rimandare indietro un po’ di mobili.
Spagnoli e francesi avevano seguito Filippo e Babette e ovviamente si spartirono i posti più importanti dell’amministrazione. All’inizio fu il seguito spagnolo di Filippo ad avere la meglio ma poi, con la nomina di Guglielmo du Tillot a segretario di Stato, il potere passò dalla parte francese.
Du Tillot era figlio di un cameriere del Re di Spagna, nato a Baiona e vissuto a Madrid; uomo colto e arguto, brillante conversatore, abile cortigiano, accorto politico e duttile diplomatico, era il classico riformatore illuminista. Si mise subito al lavoro per fare di Parma una piccola Parigi: sotto il suo governo spuntarono nuove attività, le botteghe si moltiplicarono e di conseguenza il benessere aumentò. Du Tillot sottopose, in campo tributario, la Ferma, cioè l’appalto delle imposte al controllo parziale dello Stato; dopo aver ordinato l’aggiornamento del catasto e il riesame degli estimi, abolì i privilegi più scandalosi e i preti e i nobili (che ne fecero le spese) ovviamente protestarono ma il ministro non se ne preoccupò e nel 1765 emanò l’editto di perequazione che sottoponeva i beni ecclesiastici agli stessi tributi di quelli laici. Sempre nello stesso anno, attraverso il placet e l’exequatur regolò i rapporti con il clero, limitando i poteri del foro ecclesiastico, facendo inchieste sul patrimonio degli ordini religiosi e abolendo alcuni conventi. Tre anni dopo espulse l’ordine dei Gesuiti e incamerò i loro beni.
A Parma chiamò l’architetto francese E. Petitot, al quale si deve l’impronta urbanistica della città; riempì la corte di intellettuali come l’abate Condillac, che divenne precettore dell’erede Ferdinando, e il filosofo Keralio; la reggia si riempì delle opere di Jean-Marc Nattier, La Tour, Vernet.
Nel 1757 du Tillot fondò l’Accademia di Belle Arti con insegnanti quasi tutti francesi e si preoccupò di divulgare gli scritti degli enciclopedisti e il loro pensiero. Fece poi allestire un museo archeologico e finanziò la biblioteca Palatina; impiantò una stamperia reale e l’affidò a Giovambattista Bodoni, geniale tipografo del tempo.
In questa sua opera di riforma, il ministro fu incoraggiato e sostenuto da Filippo e fino all’ultimo i due uomini andarono perfettamente d’accordo ma quando il duca morì, nel 1765, la posizione del du Tillot cominciò a vacillare: protetto dalla duchessa Luisa il ministro rimase al potere ancora sei anni ma cadde in disgrazia con l’avvento al trono del figlio di Filippo, Ferdinando.
Don Ferdinando di Parma e Maria Amalia d’Asburgo Lorena
Ferdinando ereditò il piccolo ma strategico ducato di Parma e Piacenza a soli 14 anni dopo la prematura scomparsa di Filippo, schiacciato dal suo cavallo durante un torneo. Il ragazzo era bello, bruno, insolente ed indisciplinato; amava girovagare per i boschi dell'Appennino, arrostire castagne e capretti insieme ai pastori della montagna, spaventare la città scatenando in piena notte le campane dei conventi, frequentare attori, mimi, ballerini, saltimbanchi. Di tutto si occupava, tranne che di governare.
Nel 1768 fu deciso che Ferdinando si unisse in matrimonio a Maria Amalia d'Asburgo Lorena, figlia di Maria Teresa imperatrice d'Austria. La ragazza aveva 5 anni più di Ferdinando; volitiva e dall'aspetto linfatico, aveva un carattere altezzoso e spinoso e soprattutto amava, ricambiata, il principe Carlo di Zweibrucken, né ricco né influente (il principe aveva chiesto la mano dell'arciduchessa ma al primo ministro Kaunitz la proposta era sembrata addirittua ridicola).
Così, nel giugno del 1769, con la benedizione del nunzio apostolico mons. Visconti, venne celebrato per procura a Vienna il matrimonio fra l’Infante Ferdinando di Borbone Parma e l'arciduchessa Maria Amalia d'Asburgo Lorena.
Dopo un soggiorno a Colorno la giovane coppia (Maria Amalia aveva 23 anni e Ferdinando 18) fece il suo ingresso solenne nella capitale. Il matrimonio era stato fortemente voluto da Maria Teresa che già tre anni prima, tramite il conte Rosenberg, aveva fatto delle “avances” in tal senso al ministro du Tillot.
Du Tillot era un geloso custode degli interessi della Francia e della Spagna ma aveva dovuto rassegnarsi “ en désespoir de cause” e, da abile e raffinato cortigiano quale era, accolse la nuova duchessa con “les manières les plus obligeantes du monde” contando sull’aiuto della contessa Malaspina, ciambellana dell’Infante e sua intima amica, e sulla diplomazia dell’Imperatrice.
Maria Teresa aveva preparato per Maria Amalia un particolareggiato memoriale il cui tono era spietatamente critico. L’Imperatrice conosceva il carattere dispotico della figlia e con lei si ritrovò ad essere particolarmente aggressiva.
Maria Amalia era priva di cultura, era rimasta sempre chiusa in una durezza orgogliosa di fronte agli sforzi dei suoi maestri; la sua cattiva educazione, la giovinezza del marito, la sua voglia di indipendenza e di dominio resero le cose difficili fin da subito. Maria Teresa aveva previsto il dissidio tra la figlia e il du Tillot ma le inimicizie che il ministro si era creato con le sue riforme trovarono subito un’alleata nella nuova sovrana. Per questo l’Imperatrice pensò di mettere accanto alla figlia un uomo di fiducia in qualità di inviato straordinario, Filippo Francesco von Knebel. Già il 15 agosto del 1769 Maria Teresa scriveva al conte esprimendogli il suo scontento sulla condotta della figlia che, senza ancora conoscere l’ambiente, voleva interessarsi degli affari di Stato, persuasa di essere in grado di far felici i propri sudditi. “Il ministro Du Tillot ne è già allarmato. E poiché la regina di Napoli,Maria Carolina, s’impunta pure contro il Tanucci, che si dirà delle mie figlie e a mio torto? Si attribuirà certo loro una voglia smodata di dominare e le riflessioni che si faranno su questo punto potranno influire profondamente sull’avvenire della mia Delfina (Maria Antonietta).”
Amalia si adattò con esemplare cinismo al matrimonio che fin da subito si rivelò insostenibile. Gli sposi non dormivano mai nel medesimo letto e alla madre, con tono tutt'altro che dolente, Amalia raccontava che suo marito era immaturo e infantile, scherzava e giocava tutto il giorno, e, per sottrarsi agli impegni di governo, si rifugiava addirittura in convento in cima ai monti.
Cercando di convincere Ferdinando a mettere la testa a posto, Maria Teresa gli scriveva frequentemente elencandogli i medesimi consigli che dava alla figlia: "...vi voglio troppo bene, per acconsentire a vedervi preso in bagattelle e pazzie. Se voi vi riempirete la testa con queste schiocchezze, ogni ragionamento serio ne sarà escluso".
Il matrimonio di Maria Amalia fu un evidente errore: il Duca Ferdinando era un giovanotto abulico e complessato, bigotto e succubo dei preti e lo divenne anche della moglie; Maria Amalia maltrattava anche lui facendogli scenate come quando la prima figlia, nata il 22 novembre 1770, fu battezzata con i nomi di Carlotta Teresa Maria e non come voleva l’Imperatrice di Maria Teresa Carlotta: “ Disse le cose più dure e umilianti all’Infante; che così si mancava sempre del rispetto dovuto alla sua casa, e a lei, che era come arciduchessa ben superiore a un Infante.”
Stravagante, ambiziosa e vendicativa, la corte con il suo arrivo era piombata nel panico. Il Knebel fu costretto a partire perché la duchessa non voleva più saperne dei suoi consigli. Du Tillot, la Duchessa madre, Maria Teresa, tentarono invano di ricondurre la “matta”, come ormai la chiamavano a Parma, alla ragione ma non ci fu nulla da fare: Maria Amalia continuò con le sue bizze, a tradire il marito con gli ussari, a boicottare e calunniare il du Tillot che non le nascondeva il proprio disprezzo.
Quando il segretario di Stato chiese a Maria Teresa il richiamo degli ussari, la duchessa montò su tutte le furie e scatenò contro il ministro una campagna denigratoria accusandolo di furto e di illecito. I sudditi si schierarono, come previsto, dalla parte di Maria Amalia e così il du Tillot, per evitare il linciaggio della folla, fu costretto a fuggirsene di notte, proprio lui che aveva fatto di Parma una piccola oasi di benessere e di cultura.
Nonostante le sue bizze Maria Amalia era molto generosa, così la corte cominciò a brulicare di mendicanti, invitati da lei stessa a sedere alla medisima mensa alla quale erano costretti ad accomodarsi gli esterefatti aristocratici. Per suo volere ogni cerimoniale era stato eliminato dalla corte che si riempì in questo modo di sfaccendati piò o meno bisognosi.
Ogni tanto Ferdinando aveva qualche sussulto di lucidità: "Io sono un bambino, ma mia moglie lo è più di me, e non è capace di governare un paese".
La situazione era disperata: Amalia esercitava con arroganza il potere, ma il suo autentico desiderio era far pagare alla madre la sua storia d'amore spezzata in nome della ragion di Stato mettendola in condizione di passare, nelle corti d'Europa, come una sovrana che aveva allevato figlie da cui guardarsi, prima di portarle all'altare. L'imperatrice si sforzò invano di nascondere il fallimento di questo matrimonio che tanto aveva voluto: sua figlia era uno scandalo e la sua reputazione di madre era compromessa.
Dalla Spagna fu mandato a sostituire il Du Tillot il marchese de Llano che ben presto disgustato chiese al re di Spagna il richiamo; fu sostituito con il conte Giuseppe Sacco che mantenne la carica fino al 1781.
Intanto la condotta della duchessa provocò la rottura con la madre; Maria Teresa proibì a tutta la sua famiglia di scrivere a Parma. Maria Amalia ribattè con un cocciuto e sprezzante silenzio e l''imperatrice non seppe rassegnarsi a capire come fosse possibile quell’indifferente silenzio verso “la migliore delle madri”; per questa figlia lontana, alla quale era talvolta tentata di scrivere ancora, provava un’infinita pietà.
Per Parma iniziò così un lungo periodo di involuzione e di reazione.
Sobillato dai preti, il duca richiamò i Gesuiti, ristabilì il tribunale dell’Inquisizione, restituì alla Chiesa i beni incamerati, licenziò i collaboratori del du Tillot e li rimpiazzò con uomini scelti dalla moglie, disonesti e incapaci.
Il Ducato si titrovò così governato da un bigotto e da una “matta” e ripiombò nell’antico letargo dal quale si risveglierà con l’avvento di Maria Luigia nel secolo successivo.