È difficile dire se a governare il Piemonte in quegli anni fosse il Re o piuttosto i suoi ministri, una “direzione collegiale” composta da cinque uomini: D’Ormea, Bogino, Buglio e Saint Laurent. Erano vecchi aristocratici autoritari ma nessuno di loro aveva la stoffa del grande uomo di stato. Erano tuttavia onesti e fedeli al monarca, dediti al servizio pubblico. Furono loro a dare un certo tono alla società.
La corte di Torino non era mai stata fastosa. Fra le prescrizioni di Vittorio Amedeo II c’era quella per il riscaldamento invernale del palazzo reale: non si dovevano consumare più di 35 ciocchi di legno al giorno, cioè meno di uno per stanza, il che doveva rendere la reggia un’autentica ghiacciaia.
Da un rendiconto della metà del secolo sappiamo che la Corte gravava sull’erario per poco più di un milione e 300.000 lire all’anno, una cifra piuttosto modesta. Il fatto è che, salvo la servitù, a corte quasi nessuno veniva pagato: i 330 nobili addetti al Re e alla Regina prestavano gratuitamente la loro opera di maestri di cerimonie; maggiordomi, cancellieri, grandi elemosinieri, gentiluomini di bocca e di camera, paggi scudieri, cosideravano ciò un onore.
Antica etichetta e nuova nobiltà
L’etichetta era severa. La giornata dei sovrani piena di impegni solenni a cominciare dalla vestizione mattutina del sovrano e tutto era regolato dalla canna d’ebano del Gran Maestro. Il Re si comportava e parlava sempre da re, anche con la moglie e i figli. Ogni mattina il Re si recava di buon’ora con la propria famiglia alla messa; verso mezzogiorno il sovrano pranzava con i familiari e nessuno poteva parlare senza il suo permesso. I pasti erano spartani: sotto Quaresima si riducevano ad uno, quello della sera, che consisteva in una zuppa e un’insalata, scrupolosamente pesate: quattro once a testa. Le solennità venivano festeggiate con un banchetto, che veniva offerto anche ai mendicanti. Il costume della corte era severo e la nobiltà dovette adeguarsi. L’aristocrazia, quasi tutta terriera, fino ad allora aveva considerato Torino una città di piaceri, e aveva fatto costruire favolosi palazzi dove in inverno veniva a passarvi la stagione, dandovifeste e ricevimenti.
Con la nuova nobiltà di estrazione borghese, voluta da Vittorio Amedeo II, le cose cambiarono. I nuovi nobili non abbandonarono i loro mestieri e i loro traffici e la vecchia aristocrazia fu costretta ad imitarla anche se i suoi esponenti non avevano conosciuto altre attività che quella al servizio del re come militari e diplomatici. Cominciarono a curare un po’ meglio i loro patrimoni, occupandosi delle terre, migliorandone le culture, e trasformando le ville o “vigne” in fattorie. I palazzi di città divennero una fonte di reddito: i patrizi si limitarono ad occuparne il “piano nobile”, affittando il resto a famiglie borghesi e le soffittte agli operai. Il che contribuì a creare un rapporto tra i diversi ceti in un epoca di classi chiuse e di rigide gerarchie.
Vita sociale e culturale nella "capitale"
Torino fu definita dal fiorentino Fabbroni una città di oziosi ma non era vero. I nobili lavoravano e lavoravano soprattutto gli altri 50 mila abitanti. Tuttavia, dato il rigoroso costume della corte, la città doveva essere noiosa e ciò lo si deduce dalla mania per il gioco che dalla noia ha sempre la sua origine. Causa questo demone, molti patrimoni finirono in rovina. Il marchese di Priero dovete fuggire per i debiti; il marchese di Malines finì barbone dopo essersi venduto terre e palazzi. La Torino del Settecento rimaneva comunque una città laboriosa che si fece strada senza i disordine del boom. Erano nate banche e case di commercio, la pubblica amministrazione era scrupolosa, la magistratura e la polizia severe. L’unica nota stonata era il trattamento discriminatorio inflitto ad ebrei e valdesi. Se Carlo Emanuele III fosse un autentico devoto non si sa. Sicuramente era un attento osservante. Ma quando si trattava di togliere alla Chiesa qualche terra o beneficio non si faceva scrupoli. A messa comunque ci andava tutti i giorni, in umili panni e mescolandosi alla folla. Scialava in processioni e il suo confessore, Costa, era a corte tenuto in gran conto. Sobillato da questi, il re fece bruciare 38 quadri della galleria del palazzo perché rappresentavano nudi femminili.
Più gravi furono i cedimenti del Re in campo scolastico e culturale, quando alcuni vescovi e gesuiti scatenarono l’offensiva contro l’Università ricostituita e laicizzata da Vittorio Amedeo II, accusandola di essere un covo di atei e calvinisti. Il Re provò a resistere ma il ministro D’Ormea, in quel momento stava negoziando un concordato con la Chiesa, e convinse il sovrano ad abolire l’insegnamento delle materie scientifiche. Gli studenti tentarono di proseguire gli studi in Francia, ma l’espatrio fu proibito come atto di fellonia, così come la ricerca di lavoro in altri Paesi e perfino il matrimonio tra stranieri. La censura ebbe pieni poteri e naturalmente fu utilizzata nella maniera più odiosa e ottusa. Senza una licenza di stampa, nulla poteva essere pubblicato neanche all’estero; l’importazione dei libri fu sottoposta a rigidi controlli. Alcune opere di Voltaire, spedite a un diplomatico dell’Ambasciata francese a Torino, furono respinte nonostante le proteste del proprietario. Gli intellettuali piemontesi si dettero alla filologia e sotto l’esempio del Tagliazucchi si dedicarono a italianizzare la lingua che ne aveva estremo bisogno.
I piemontesi parlavano infatti solo il dialetto e solo il francese. Già Vittorio Amedeo II, malgrado fosse figlio e marito di francesi, aveva combattuto l’uso di questa lingua, arrivando a far frustare un nipote che si ostinava a parlarla. Quel rozzo monarca aveva capito che il Piemonte aveva bisogno di italianizzare la sua cultura prima di tutto il resto. Da allora i letterati piemontesi presero la buona abitudine di scrivere in italiano continuando però a pensare in francese. Di Carlo Emanuele III ci rimangono poche testimonianze. Era un uomo freddo e introverso, senza slanci ne comunicativa, aveva tuttavia un senso sacro del dovere e ad esso sacrificò tutta la sua vita.
Il De Brosses così lo descrive: “ Ha un aspetto spiacevole, statura piccola e faccia antipatica; ma è laborioso, intelligente, bravo politico, valoroso ed abile nell’arte militare”… quanto alla moglie “il suo labbro autriaco si nota sempre di più, ed è bitorzoluta peggio di come l’abbiamo vista a Digione. A parte questo il suo volto non è spiacevole, ha soprattutto un aspetto nobile e maestoso. Ogni sera tiene circolo, triste quanto si può immaginare. Sta seduta nella poltrona in mezzo al suo studio; tutte le dame sono allineate intorno a lei ad una certa distanza, ritte in piedi come comari: si mettono infatti a sedere solo per giocare. Di tanto in tanto, la Regina rivolge qualche parola a qualcuna di loro, la quale risponde a monosillabi.”
Il Re non attirava simpatie eppure il cordoglio fu sincero quando il sovrano si spense nel 1773. Sebbene le forze lo avessero quasi completamente abbandonato, fino all’ultimo aveva fatto fronte ai suoi impegni di monarca. Il popolo lo aveva amato per questo, malgrado gli errori e i triboli del suo regno durato 43 anni. Alla sua morte salì al trono il figlio, Vittorio Amedeo III.