Il Governo e le dominazioni straniere
La Genova del Settecento era dal punto di vista politico una larva di Stato. Storicamente gelosa del suo isolamento aveva sempre cercato di mantenersi neutrale. Sua eterna spina nel fianco, il Piemonte, che da secoli sognava di trasformare Genova nel proprio porto naturale. Le guerre tra i due stati furono infinite ma il vero e proprio incendio divampò alla morte dell’imperatore Carlo VI nel 1746.
In quel periodo il Piemonte era alleato con l’Austria e gli eserciti asburgici, sfondando le linee nemiche, dilagarono in Liguria occupando Sampiedarena. La Repubblica fu colta di sorpresa, tuttavia comunicò al generale austriaco Brown di essere costretta a prendere le armi contro Vienna per “ragioni impellenti di difesa”.
Brown e il suo successore, Botta Adorno fecero orecchio da mercante; quest’ultimo era figlio di un nobile genovese espulso dalla Repubblica per ragioni politiche e non chiedeva di meglio che vendicare il padre. Ordinò alla città la resa senza condizioni, la consegna della guarnigione, una taglia di cinquantamila “genovine”, sei senatori in ostaggio e un pellegrinaggio d’espiazione del Doge e degli altri senatori a Vienna. Non contento pretese un’indennità di guerra di tre milioni da pagare in tre rate: la prima entro due giorni, la seconda entro otto, la terza entro quindici.
La Signoria trovò la cifra esorbitante e chiese uno sconto; Botta Adorno non solo rifiutò ma alzò il prezzo chiedendo un altro milione. L’atmosfera a Genova era tesissima e il Governo ben presto perse il controllo della situazione.
Il 5 dicembre del 1746, un mortaio austriaco sprofondò nel fango di un quartiere popolare di Portoria e alcuni soldati chiesero aiuto ai passanti che però non si scomposero. All’imposizione di aiuto rivolta dagli austriaci ai presenti volò nell’aria un sasso lanciato da un ragazzino soprannominato Balilla. Nessuna cronaca o documento dell’epoca riporta il vero nome dell’ardito monello. L’opinione più diffusa è quella che identifica Balilla con Giovanni Battista Perasso. L’atto fu seguito da una fitta sassaiola che costrinse i soldati a fuggire. L’episodio divenne quasi leggendario e in epoca risorgimentale Goffredo Mameli lo citò nel suo celebre Inno: “… I bimbi d’Italia Si chiaman Balilla”. La rivolta durò tre giorni; un nobile genovese ebbe a dire: “ Il Botta ha la testa dura, ma il popolo l’ha più dura di lui”.
Infatti il 9 dicembre si arrivò all’armistizio. I genovesi profittarono della tregua per armarsi meglio, riforniti sotto banco dallo stesso governo che continuava a non prendere posizione. Gli austriaci invece dopo aver chiesto invano dei rinforzi decisero di levare le tende e ripiegare su Novi. Quello stesso giorno il garzone di un’osteria, eletto capopolo, riconsegnò sprezzantemente al Doge le chiavi di Genova. Per il governo fu un duro colpo; non avrebbe potuto dar prova più convincente della propria debolezza e incapacità.
I rivoltosi costituirono un vero e proprio quartier generale che in pratica fece le veci di quello regolare e per un po’ sembrò che il potere passasse nelle loro mani. Tuttavia i capi dell’insurrezione si rivelarono degli arruffoni fanatici e demagoghi, con poche e confuse idee. E infatti passata la tempesta, la nobiltà riprese il comando della situazione. La rivolta non aveva provocato un rovescio di regime ma aveva comunque dimostrato la totale incapacità della classe dirigente, cioè della nobiltà che deteneva il monopolio politico fin dal XVI secolo. Nobili erano i 400 membri del consiglio Maggiore; nobili i 100 di quello Minore; nobili i 120 Padri, fra cui si sceglievano i 12 senatori e gli 8 procuratori della Repubblica e il Doge.
Gli Spinola, i Durazzo, i Grimaldi, i Brignole, i Pallavicino, i Serra non detenevano solo il potere politico ma monopolizzavano anche la ricchezza: le banche più potenti, le flotte più numerose, i cantieri più attivi, le rappresentanze più redditizie erano nelle loro mani. Dalle loro file uscivano i Dogi. Il Doge simboleggiava la Repubblica, la sua persona era sacra e circondata dal fasto. Ogni suo gesto era ispirato a una precisa liturgia; le cerimonie cui partecipava erano regolate da un’etichetta puntigliosa che ricordava la passata influenza spagnola.
Ma a parte l’esteriorità, il Doge non aveva un effettivo potere politico. La sua carica durava due anni, durante i quali la sua personaera sottoposta ad un rigidissimo controllo da parte del Senato. Gli elettori ne spiavano ogni mossa; senza la loro autorizzazione non poteva nemmeno uscire dal palazzo ducale.
Costumi e società nella Genova del Settecento
Il clero a Genova non contava molto e i rapporti tra Stato e Chiesa erano sempre piuttosto tesi. Quando nel 1750, il vescovo Lercari, prendendo possesso della sua diocesi, osò chiamare i genovesi “miei fedeli sudditi”, per poco non scoppiò il finimondo. Nemmeno il Senato si permetteva di definire i genovesi, sudditi: con un pizzico di demagogia essi erano definiti “fedeli amati popoli”. La Repubblica non ammetteva ingerenze spirituali in questioni temporali. Si limitava a tutelare la religione e a difenderne l’ortodossia: comminava venticinque genovine d’ammenda ai bestemmiatori, sottoponeva eretici e giudei ad un vera e propria persecuzione, bandendo delle crociate per convertirli alla fede cattolica arrivando a tollerare che si rapissero bambini ebrei perché si battezzassero senza il consenso dei genitori.
Gli ebrei dovevano pagare una tassa speciale ed erano obbligati a portare un copricapo giallo; ogni anno inoltre dovevano sorbirsi almeno un sermone. Le processioni erano molto frequenti, le chiese affollate e le candele si vendevano a quintali. I predicatori facevano grossi affari e i compensi che ricevevano facevano invidia ad artisti e prime donne. La morale del clero in compenso lasciava molto a desiderare. I conventi erano luoghi di perdizione invece che di preghiera; celle e confessionali venivano spesso trasformati in alcove. Monaci e preti non disdegnavano osterie, case da gioco, bordelli e sale da ballo.
Pur non ammettendo intromissioni politiche da parte della Chiesa, il governo chiudeva un occhio sui tanti privilegi del clero. Il più scandaloso era il diritto d’asilo. Le chiese erano infatti ricetto quotidiano di ladri e scippatori, assassini e disertori, contrabbandieri e ruffiani. Per dieci anni un certo Serronetto derubò i cittadini che passavano davanti alla chiesa di S. Lorenzo e prima che la polizia lo arrestasse, si rifugiava al suo interno, dove tra una preghiera e l’altra le prostitute addescavano i fedeli.
La polizia era impotente ma anche corrottta. Per catturare una banda di ventitrè furfanti che ne combinavano di tutti i colori giungendo persino a rubare “la scuffia alle dame che vanno a messa e i fazzoletti in scarsella”, il Senato accettò la proposta di un frate che, per 750 lire, si offrì di imbandire un banchetto a base di arsenico ai malfattori. Il piano andò a monte perché alcuni teologi ebbero la bontà di trovare la pena sproporzionata al delitto.
La giustizia funzionava peggio della polizia: lenta e arretrata, adottava spesso e volentieri due pesi e due misure. Comminava pene severissime ai fannulloni e chiudeva un occhio sulle malefatte dei ricchi che potevano anche portarsi le amanti in cella.
La pena capitale veniva inflitta di solito con il capestro o la mannaia. Fra i supplizi minori quello più in voga era la gogna, riservata a mercanti disonesti, ai sofisticatori e agli adescatori.
La prostituzione era diffusissima in ambo i sessi. Il meretricio era talmente redditizio che un nobile trasformò una galea, ancorata alla darsena, in un lupanare che faceva soldi a palate.
Un senatore paragonò Genova a Babilonia, il che non gli impedì di essere uno dei clienti più assidui della galea.
Lo sport più in voga era quello del pallone, una sorta di rudimentale calcio, praticato da tutti, nobili e plebei. Era un avennimento cittadino, l’intera popolazione lo seguiva, faceva il tifo scommettendo su questa o quella squadra. Alle partite assisteva il Doge dall’alto della tribuna d’onore. Una sedia costava dieci soldi, un palco trenta lire.
Altra passione, il ballo. Si danzava per le strade, nelle piazze, sul molo, sul sagrato delle chiese, nelle ville, nei palazzi, nelle taverne.
I teatri invece non richiamavano grandi folle. Ce ne erano solo due, il Falcone e il Sant’Agostino. Il Delle Vigne era una specie d’avanspettacolo d’infimo ordine, frequentato da gente della peggiore risma. I palchi nei teatri servivano da bische: si giocava all’oca, a biribis (una specie di trente e quarante), alla cavagnola (una sorta di tombola); le poste erano alte e inghiottivano interi patrimoni. Il Senato emanò editti contro il gioco d’azzardo ma regolarmente venivano elusi.
Gli ospedali in compenso venivano spesso adibiti a teatri. Per far posto al palcoscenico i letti dei malati venivano spostati senza tanti complimenti e fra un atto e l’altro si contrabbandava vino, sigari e cosmetici, parrucche collane e orologi.
La vita culturale era arida. L’Accademia degli Annuvolati e quella Ligustica di belle arti erano statiche da tempo. L’Università era priva di fondi e di buoni insegnanti. La facoltà più frequentata era quella di medicina. I corsi di farmacia duravano sette anni, un esame otto giorni. Un laureato in farmacia, per ottenere la licenza, doveva fare l’apprendista per venticinque anni.
L’arte era l’unica cosa fiorente. Essa si ispirava ancora a quella barocca e al gusto spagnolo. I genovesi investivano in quadri, sculture e arazzi i capitali che non depositavano in banca. Le opere d’arte erano la loro unica ostentazione di ricchezza.
Il Settecento in complesso fu per la Repubblica di S. Giorgio, come per quella di S. Marco, un secolo di decadenza sociale, politica, economica, ma soprattutto morale.
Genova e il barocco La peste a Genova nel Seicento Palazzo Rosso Palazzo Reale di Genova