Make up barocco - Venere sostituisce la Vergine
Scritto da Laura Savani. Pubblicato in moda
Troppo imbellettate, vedo solo ovunque chiare d'uovo, latte virginale e mille altre bazzecole che non conosco affatto. Molière dalle "Preziose ridicole"
Fin dalla metà del XVI secolo la donna è collocata al centro di celebrazioni molto ricercate e il secondo sesso (come veniva definito quello femminile) diventa il gentil sesso.
Con l’epoca barocca si assiste ad un mutamento di canoni e valori estetici: la donna angelizzata dai trovatori e dal “dolce stil nuovo”, molto più simile all’immagine della Vergine, nel Seicento si trasforma in Venere, una creatura procace e dalle forme generose, con una punta di malizia e di erotismo nello sguardo.
Ma quali erano i canoni della bellezza muliebre in epoca barocca?
La donna barocca doveva avere capelli folti e biondi, di un biondo caldo, tendente al bruno; pelle lucente e chiara; occhi scuri, grandi ed espressivi, con un tocco di azzurro nel bianco della cornea; naso non aquilino; bocca piccola ma carnosa; mento rotondo con la fossetta; collo tornito e piuttosto lungo; spalle larghe e petto turgido, dalle linee delicate; mani bianche, morbide e affusolate; gambe lunghe e piedi piccoli.
Sfortunatamente non tutte le donne potevano vantare tali requisiti: i capelli biondi erano rari, soprattutto nelle terre meridionali, e non sempre la pelle era liscia e “lucente”: colpa di un’alimentazione difettosa e della scarsa pulizia che imperava tra le classi più elevate come fra quelle più povere.
Ma a tutto v’era rimedio. Non per nulla la donna sa essere, da sempre, in certi casi, migliore pittrice di Giotto stesso.
L’uso dei cosmetici era tornato in auge durante il Rinascimento, nonostante le resistenze e le opposizioni della Chiesa. I trattati di bellezza, le grandi raccolte di segreti si diffondono a partire dall’Italia, culla dell’estetica “rinascimentale”, secondo una ripartizione ben presto “molto equa fra i diversi paesi”. Celebri i consigli e le ricette di bellezza fai da te di Caterina Sforza Riario.
Specchio specchio delle mie brame
L’epoca barocca, così sfarzosa e tendente all’artificio, non poteva certo essere da meno in fatto di trucco; le ricette per i miracolosi restauri non mancavano: le camere delle signore assomigliavano a laboratori d’alchimisti, colmi di pentole, alambicchi, barattoli, pomate, essenze.
Per combattere i segni dell’età e il logorio, le donne si sottoponevano a ore di trattamento prolungato, sovente penoso, per fermare le rughe e tonificare la pelle giallastra. Impallidivano la carnagione con succo di limone e la schiarivano con borace sulfurea, o con il “fuoco di Sant’Elmo”, cioè sublimato di mercurio. A causa della sua “natura pungente e maligna”, il sublimato mangiava sì le rughe, i lineamenti e le cicatrici, tuttavia produceva il suo effetto deleterio senza provocare un dolore eccessivo. Era ampiamente usato, anche se i rigori dell’abuso erano grotteschi. "Le donne che l’usavano sul viso, avevano sempre i denti neri, molto sporgenti dalle gengive come una mula spagnola, un alito disgustoso, la faccia mezza bruciacchiata, e l’incarnato immondo”.
Per ammorbidire la carne tormentata le donne vi applicavano olio e grasso, e aggiungevano siero o vino all’acqua del bagno; si risciacquavano il viso con acqua di rose e di ciliegie o si spalmavano una maschera fatta di bianco d’uovo per distendere le rughe. Fatto questo, si dipingevano di cosmetici. Per prima cosa veniva lo strato di biacca, o cerone, mescolato con aceto e applicato sulla faccia, sul collo e sui seni. Poi si spargevano l’allume sulle guance, colorandole di rosa violento, e si arrossavano le labbra con il “fattibello” cioè il rossetto (solfuro di mercurio cristallino o cocciniglia) una sostanza di allume, gomma arabica e insetti schiacciati. Il cerone, seccando, sbiancava la pelle, e l’allume, che allo stato puro era molto corrosivo (veniva usato per alterare i metalli), la “bruciava, raggrinziva e seccava”.
Il tempo poteva anche consumare la bellezza ma le sostanze chimiche devastanti la consumavano ancora più in fretta, mutando donne persino attraenti in patetici relitti.
La Chiesa associava ovviamente il belletto all’impurità: la bellezza non poteva essere “ricercata” in quanto essa viene “donata” da Dio. Colorarsi il volto poteva suggerire un modo di sedurre e troppa libertà di costumi.
Il Castiglione nel suo “Cortegiano” sbeffeggiava la donna che sta ferma senza grazia, con la faccia impiastrata che pare abbia la maschera, e non osa ridere per non farsela crepare, né si dimostra mai di colore se non quando la mattina si veste; nel giorno si mostra solo al lume della torcia, come mostrano i cauti mercanti i loro panni in luogo scuro.
Nonostante tutto però i belletti aumentavano come mosche e il trucco, a ogni modo, si era imposto: con quei minuscoli nei di taffettà portati sul viso (atti anche a coprire lentiggini e discromie), le ciprie sparse fra i capelli, i profumi, l’artificio aumentava. Olii, talchi liquidi, ciprie, fazzoletti cosmetici si aggiungono ad unguenti, pomate o acque virginali, fino ad allora quasi esclusivi. E poi i colori: il bianco si diversificò e si arricchì nell’Europa del classicismo; il rosso si aggiunse invece indiscutibilmente a partire dal XVII secolo, con Louise Bourgeois, la prima a citarlo, nel 1636, in una delle sue ricette di bellezza. La Montespan lo usava per colorare gli zigomi e le labbra.
Cocciniglia importata dall’America, legno del Brasile, alcanna della Provenza o della Linguadoca, vermiglio ricavato dal mercurio o dallo zolfo componevano rossi di varie qualità e allo stesso tempo pericolosi, come il “cinabro” dagli effetti devastanti, costituito da zolfo e mercurio.
Non era inconsueto vedere grandi dame ricorrere all'aiuto di un pittore per la scelta dei colori e soprattutto per le dosi da utilizzare nelle miscele: alcuni colori utilizzati nel make up erano infatti gli stessi utilizzati dai pittori per i loro dipinti e questi conoscevano le dosi giuste e soprattutto il limite oltre il quale un colore poteva diventare nocivo e addirittura velenoso. Il pittore allora diventava anche truccatore ed aiutava la signora nel "restauro" facciale.
Nel Seicento comparve anche il primo fard (parola di orgine francese che sta per "tenero") utilizzato dalle donne per risaltare la pelle bianca. L'abbronzatura era messa al bando e la pelle veniva protetta con sottili veli, atti a coprire soprattutto parti come il petto e il volto.
L’abbandono dell’artificio avveniva con la vedovanza o la vecchiaia: la Maintenon rinunciò alle paste per le mani e alle essenze per i capelli alla morte di Luigi XIV, non avendo “più colui per il quale faceva uso di queste cose”; Anna d'Austria, eliminò qualunque ricorso al rosso dopo la morte di Luigi XIII; Maria Teresa d’Austria (moglie di Luigi XIV) lo eliminò a trentanove anni perché si riteneva già troppo vecchia.
Ma non solo la vedovanza e la vecchiaia erano le cause dell’abbandono del trucco: c’erano anche alcuni contesti e momenti che imponevano questa rinuncia: Mademoiselle de Montpensier rifiutò di mettere la cipria il giorno in cui cercò un sincero chiarimento con Anna d’Austria dopo l’esplosione della Fronda: “Poiché non voglio ingannare Vostra Maestà in niente, non ho voluto mettere la cipria, in modo da mostrarvi i miei capelli”. Maria Mancini, doveva invece “togliere le mosche” (i nei di taffettà) perché suo marito non le avrebbe altrimenti rivolto la parola. Il sospetto continuava a gravare sull’uso del trucco, contrapponendo scelta femminile e autorità maschile, pratiche pubbliche e pratiche private. Il suo uso era accettato e riprovato al tempo stesso, incrementato e contenuto. Del resto anche gli uomini usavano il trucco e soprattutto il rossetto: Mazarino, per esempio, si truccava per sembrare più giovane.
Il Settecento
Il XVIII secolo fu l’epoca della valorizzazione del singolo individuo. Le forme divennero più libere e il trucco del XVIII secolo si adattò a queste nuove tendenze di gusto. La donna rococò era delicata, snella, graziosa e civettuola; una femminilità non particolarmente espressiva, né specialmente interessante; ogni signora che voleva essere alla moda cercava di rientrare in questi canoni.
Il Dictionnaire des art et métiers condannava nel 1773 i trucchi composti da piombo, biacca, magistero di ossido di bismuto naturale”, pur riconoscendo il regresso del loro impiego negli anni settanta del Settecento: in particolar modo del vermiglione, un tipo di rosso ricavato da un miscuglio di zolfo e argento vivo che i profumieri da tempo non utilizzavano più perché “nocivo alla salute.
Dopo il 1770 gli “ideatori” di cosmetici si rivolsero più frequentemente All’Accademia delle Scienze. Nel 1778 Luigi XVI creò la Società reale di Medicina per controllare ogni autorizzazione sui “rimedi segreti”. Ciò spiega il successo, alla fine del secolo, delle materie vegetali, ritenute “meno pericolose”: quelle Toilettes de Flore nelle quali il rosso si otteneva più dallo zafferano che dal vermiglione ricavato dal bismuto. Queste scelte cosmetiche avevano indubbiamente tonalità più delicate che si accordavano con l’incarnato naturale e con la fisionomia.
La fabbricazione dei cosmetici divenne sempre meno domestica e sempre più artigianale, con il suo mercato e i suoi prodotti. Gli elaborati miscugli fatti in casa, nel segreto degli studi privati, come racconta Molière nelle Preziose Ridicole, diminuirono. È per i farmacisti e i profumieri, unicamente per loro, che le farmacopee di Lemery e di Baumé evocavano ormai la composizione di rossi e bianchi, e il dosaggio diventa il principio fondamentale.
L’acqua strumento fondamentale di bellezza
L’originalità delle pratiche di bellezza del XVIII secolo non si limitava all’uso del trucco: camminate tonificanti, aria fresca, bagni, diventano anche loro i rimedi sulla bellezza e sulla salute. L’aria fresca mantiene il colorito bianco e vivo e l’acqua in particolare diventa un vero e proprio strumento per la toeletta, anzi quello fondamentale, l’unico in grado di restituire alla pelle la sua lucentezza, la sua finezza, il suo candore. Buchoz proponeva un bagno di bellezza nella sua Toilette de Flore, mescolando lupino, borragine e violacciocca.
Testi e trattati sui bagni si moltiplicarono nella seconda metà del Settecento: ebbero luogo alcune iniziative isolate in cui venivano prese in considerazione le cure cosmetiche del corpo: nel 1761 fu installato sulla Senna uno stabilimento, i bagni di Poithevin, una lunga imbarcazione che offriva bagni minerali, naturali o artificiali, così come li prescrivono i medici. Venti o trenta cabine e vasche da bagno di rame furono collocate da una parte all’altra di un passaggio centrale, disposizione che “l’Avant-Coureur” giudicò “pensata nel modo più ingegnoso”. Più lussuosi, più orientati verso l’estetica, i bagni Tivoli che furono installati a fine secolo a Saint-Lazare, fresche fronde, acque zampillanti, aria pura, passeggiate incantevoli, ampi spazi, appartamenti numerosi. L’arte della bellezza era in questo luogo maggiormente immaginata, e promuoveva al tempo stesso l’acqua come “cemento generale della natura e principale solvente”.
Ricette cosmetiche
Sono qui riportate alcune ricette cosmetiche per la cura della pelle e dei capelli in vigore nei secolo XVII e XVIII riprese da alcuni ricettari cosmetici del tempo.
Per combattere la pelle secca e rugosa: applicare per una decina di minuti sulla pelle del viso una benda imbevuta di cera d’api; tonificare in seguito la pelle con acqua di rose.
Contro la pelle grassa: far bollire in acqua una manciata di bacche di cipresso, radici di melograno e di fragaria, foglie di noce e allume. Far riposare il decotto e poi filtrare. Applicare quindi sul viso il composto almeno 2 volte alla settimana.
Crema idratante alla malva: raccogliere quattro manciate di foglie di malva; dopo averle lavate, tritarle e aggiungere 4 cucchiai di burro. Far scaldare il composto in un pentolino finché il tutto non si sarà addensato. Applicare la crema ottenuta sul viso e sul collo per dieci giorni.
La Cérat de Galien: crema molto in voga nel XVII secolo: si componeva di cera d’api, olio di mandorle dolci, acqua distillata di rose e veniva utilizzata come crema per il viso.
Molto utilizzata era la belladonna, così denominata perché le dame usavano il succo delle bacche come belletto e per dare splendore al viso, mentre l’acqua distillata di belladonna veniva impiegata per la cura della pelle del viso.
Crema per le mani: prendere dei guanti al cui interno andrà messo un miscuglio di miele, mostarda e mandorle amare; indoddarli e lasciare agire tutta la notte.
Sempre per le mani: prendere della farina di castagne e impastarla con dell'acqua. Applicare il composto sulle mani per un qualche minuto e poi risciacquare.
Per i capelli: per rinforzare la chioma procurarsi del midollo di bue, grasso di vitello, olio di nocciolo, balsamo del Perù e vaniglia. Riscaldare i componenti a bagnomaria; in seguito filtrare il tutto profumando il composto con essenze di rosa o muschio. Applicare la pomata ottenuta sui capelli lasciando agire per un’ora.
Per il lavaggio utilizzare una miscela di uova, aceto di vino bianco e rum. Oppure utilizzare un miscuglio di miele ed olio per renderli più spessi e brillanti.
Per rendere lucenti i capelli lavarli in acqua in cui sono state precedentemente bollite delle bucce di cipolla.
Per i denti: per avere un sorriso luminoso e un alito gradevole, bruciare dei gambi di rosmarino e unire la cenere ottenuta con le foglie (sempre di rosmarino) perchè ne assorba il profumo. Strofinare la cenere sui denti mediante un fazzoletto di lino e infine sciacquare.