La pittura barocca
Scritto da I.Marone e S.Torselli. Pubblicato in pittura barocca
L'arte barocca, sospesa tra Natura e morale
L'arte definita "barocca" soffre, già alla metà del '700 e in alcuni casi fino a qualche decennio fa, di un peconcetto negativo poichè si sosteneva non fosse generata dall'adesione alle regole, ma dal capriccio dell'artista. E in effetti è evidente l'oppsizione ad alcune precise tendenze che avevano caratterizzato l'arte Rinascimentale, in particolare nello sfuggire alle regole ferree delle proporzioni classiche e all'armonia di volumi, luci e colori.
Se il tempo ha moderato l'originario giudizio stroncante, riabilitando completamente la scelta del virtuosisimo di forme e di colori che investe le arti figurative, rimane ancora duro sradicarsi da quel luogo comune secondo cui ciò che è barocco è esagerato e sopra le righe. In realtà tra le nuve linee caratteristiche del '600 ve ne sono alcune che si oppongono da subito e apertamente all'eccesso e alla ridondanza: sono le nuove tendenze che tramite Caravaggio si diffondono e che, grazie all'osservazione della Natura e alla sua fedele resistuzione sulla tela, aprono la via al naturalismo e al realismo.
Gran parte degli artisti, soprattutto negli anni immediatamente successivi al concilio di Trento, senza negare la Natura, aveva però preferito sottometterla e piegarla a regole "morali" connesse agli ideali di decoro e bellezza. Ma il naturalismo, che con un'osservazione oggettiva mette sullo stesso piano di dignità tutti gli elementi del creato, irrompe con un messaggio morale e didascalico ancora più forte: la natura è manifestazione divina e in quanto tale degna di essere riprodotta in ogni suo aspetto nelle forme più fedeli possibili alla realtà poichè quella forma è quella che gli ha dato Dio, quindi la più perfetta. Da questo presupposto trae ragione e autonomia anche il genere della natura morta, che nel barocco conosce grande fortuna.
Persuasione, stupore, effimero
Il nuovo linguaggi pittorico si serve anche di un nuovo apparato comunicativo: il concilio di Trento aveva chiarito che la parola d'odine della nuova arte era "convincere", "convertire", "persuadere". E' quindi naturale che la scelta cadesse su un linguaggio retorico, efficace e comunicativo. Nel barocco si assiste quindi al recupero della retorica classica di stampo aristotelico, che già aveva trovato spazio nell'arte del 4-500, ma arricchita di figure e di trovate che a volte facilitino, a volte dissimulino ma sempre rafforzino una forte vocazione comunicativa.
Seppur impiegata più largamente nell'arte di committenza sacra, la retorica e l' allegoria è utilizzata anche in ambito profano per sottolineare la presenza e l'importanza di grandi famiglie, come i Barberini o Pamphilj negli affreschi di Pietro da Cortona, in un nuovo codice nel quale la mitologia e l'allegoria classica vengono reinterpretate alla luce della morale e della spiritualità barocca. L'allegoria, e con essa altre figure retoriche come metonimia, metafora, parafrasi, simbolo, emblema, esprimono una relazione tra forma e contenuto in modo che la prima possa esprimere l'essenza del secondo.
La tematica più esemplificativa a tal proposito è quella classica della gloria e del trionfo pagano, connessa all'apoteosi della Chiesa, dei potenti ordini religiosi o delle famiglie cardinalizie.
Altro fondamentale codice visivo di comunicazione è lo stupore, sia nel senso naturalista (riproduzione incredibilmente fedele della realtà) sia negli aspetti più prettamente decorativi: la volontà di stupire si esprime in un aspetto sociale assai diffuso, ovvero il rendere ogni evento, pubblico o privato, uno spettacolo. Tutto ciò convoglia nell'uso di celebrare ogni avvenimento in maniera fastosa, ancora una volta con la necessità di affermare un'idea o un potere, passando dallo stupore, al coinvolgimento, al convincimento.
Un aspetto specifico dello spettacolo è quello di essere finzione e di durare il tempo della rappresentazione: quasi tutti i decoratori e gli artisti del Seicento sono chiamati a progettare e produrre questi apparati che, sontuosi e fastosi come vere e proprie architetture in legno e marmo, vengono distrutti subito dopo aver esaurito la loro funzione, materializzando temi molto cari al barocco, quello dell'effimero, del memento mori e della Vanitas.
Lo spazio barocco: la grande decorazione
Le due opere che inaugurano la grande stagione del Barocco romano sono l'Assunzione della Vergine” del Lanfranco nella cupola di Sant’Andrea della Valle (1625-27) e il “Trionfo della Divina Provvidenza” di Pietro da Cortona nel salone di Palazzo Barberini (1633-39). Le accomuna la dilatazione dello spazio, sentito come continuum popolato da figure moltiplicabili all’infinito. Superando il sistema a partiture e cornici tipico della tradizione precedente e ancora adottato dal Classicismo emiliano, i due artisti puntano a fondere spazio reale e spazio dipinto in una nuova unità spettacolare. La composizione si espande liberamente attorno a un centro che agisce come vortice o risucchio luminoso, determinando catene di moti ascendenti o ruotanti. Il traguardo riflette un mutamento di sensibilità e una precisa evoluzione culturale in rapporto al concetto di spazio. Le scoperte astronomiche del tempo erano approdate a una nuova visione della natura e dell’universo, che esercita una forte suggestione sugli artisti e apre loro nuove possibilità di rappresentazione del sacro. La nuova immagine del cosmo diventa il mezzo per rendere percepibile ai sensi, sotto forma di spettacolo carico di risonanza emozionale, il mondo delle idee e delle realtà intellegibili. L’invisibile si trasforma in trionfo celeste, e nella vastità degli spazi pittorici barocchi si riflette la rinnovata fiducia in se stessa della Chiesa, uscita vittoriosa dalla Controriforma e nuovamente consolidata nel suo assetto gerarchico e dogmatico.
La committenza gesuita: l’arte come persuasione
La Compagnia di Gesù, che fin dalle origini era stata in prima linea sul fronte missionario e della lotta ai protestanti, passa nel corso del Seicento attraverso un’evoluzione che la porta ad attenuare il rigorismo originario – anche per effetto del nuovo clima di sicurezza e ottimismo instauratosi col pontificato di Urbano VIII – e ad elaborare nuove forme di persuasione, in linea con la mentalità e le mode culturali del tempo. Nel fasto e nell’illusionismo barocco i gesuiti non tardano a riconoscere il linguaggio più adatto ai loro programmi di celebrazione dogmatica e propaganda dottrinale. La decorazione della chiesa madre dell’Ordine, il Gesù, mostra la piena adesione dei committenti alla concezione berniniana dell’arte come spettacolo e strumento di persuasione. Non è un caso che gli artisti prescelti, come il Baciccio, provenissero dalla cerchia del Bernini e ne traducessero le idee. Il risultato si vede nella volta della navata centrale con l’affresco della “Esaltazione del nome di Gesù”: dalla concezione berniniana dell’unità delle arti deriva lo spericolato artificio della pittura che si sovrappone agli stucchi. In questo modo le figure affrescate – grovigli di demoni precipitanti dall’alto e schiere di beati fluttuanti sulle nuvole – irrompono nello spazio della navata.
Dea e natura
Nel 1633 il pittore e teorico spagnolo Vicente Carducho, scrivendo a difesa dell’ideale classico-rinascimentale, era giunto a paragonare Caravaggio all’Anticristo. Le sue opere “apparentemente tanto mirabili” avrebbero trascinato alla perdizione i suoi seguaci. Affermava: “Questo anti-Michelangelo, con la sua imitazione affettata ed esteriore (…) ha potuto persuadere un numero così grande di persone di ogni genere che quella è la buona pittura (…)”. Questo giudizio impietoso è tuttavia il riconoscimento dello straordinario seguito incontrato dal Merisi. Infatti le parole del Carducho sono la reazione indignata agli sviluppi del naturalismo iberico, che con Jusepe Ribera e Diego Velàzquez aveva superato largamente le premesse italiane.
Il Seicento, effettivamente, si apre nel segno della rivoluzione “naturale” di Caravaggio. Lo storico e pittore olandese Karel van Mander è tra i primi a registrarne la portata innovatrice. Nel 1604 scrive: “Un certo Michelangelo da Caravaggio fa a Roma cose meravigliose (…) egli dice che tutte le cose non sono altro che bagattelle, fanciullaggini o baggianate – chiunque le abbia dipinte – se esse non sono fatte dal vero, e che nulla vi può essere di buono e di meglio che seguire la natura (…)”.
Attorno ai concetti di “vero” e “natura” si accende una polemica che vede allineati sulle posizioni del Carducho la maggioranza dei critici e dei teorici, ostili a Caravaggio e seguaci in nome della teoria umanistica dell’arte. Teoria che non negava la necessità di guardare alla natura, ma la subordinava al “decoro” e all’ “idea” della bellezza che l’artista portava dentro di sé.
Bisogna distinguere il significato di “naturalismo” da quello, all’apparenza equivalente, di “realismo”. Il primo termine deriva dall’ambito letterario-filosofico; in campo storico-artistico definisce l’imitazione della natura, la mimesis, che pone sullo stesso piano tutti gli aspetti del mondo sensibile senza distinzioni gerarchiche: dalla figura umana al brano di natura morta. Più restrittivo è il significato di “realismo”, espressione di conio più recente, ottocentesco. La “realtà” rappresenta l’ambito estremamente variegato dell’esperienza e della vita quotidiana, che gli artisti olandesi avevano esplorato fin dal XV secolo. Si potrà definire “naturalistica” la pittura dei caravaggeschi, di Velàzquez, di Vermeer, centrata sul dato fisico rivelato dalla luce, sulla “pelle” sensibile delle cose (e più in profondità, sul possibile mistero in esse latente). Si definirà invece “realistica” molta della pittura olandese del Seicento, attenta ai dati di ambiente, di carattere e di costume. La pittura di Hals e, naturalmente, di Rembrandt.
Il tema della morte e della vanitas
Sulla religiosità seicentesca incombe il martellante richiamo biblico alla caducità della vita e alla transitorietà dei beni materiali. “Vanità delle vanità tutto è vanità”: la celebre frase (Ecclesiaste 2,1) sintetizza molto bene questo aspetto della spiritualità controriformistica che viene ora riproposto con frequenza crescente. Quasi per un rigurgito di timori medievali, nell’arte del Seicento assumono nuovo rilevo i motivi lugubri e gli emblemi macabri. Nelle nature morte seicentesche troviamo oggetti come la clessidra e l’orologio (emblemi della fugacità del tempo), fiori recisi e frutti bacati (che rimandano all’ineluttabilità della morte). A volte le allusioni sono meno esplicite o addirittura mascherate: una pipa può ricordare il dissolversi in fumo dei piaceri umani; la candela spenta è immagine della fine; il silenzio degli strumenti musicali accatastati e impolverati allude al silenzio della morte. Nelle splendide nature morte di Pieter Claesz e Willem Claesz Heda compaiono boccali mezzi vuoti, piatti con avanzi del pranzo e pipe spente. I valori cromatici si fondono su toni bassi di grigio e bruno, accentuando il senso di caducità e malinconia. Rembrandt accentua il significato cristiano della tematica rappresentando la parabola evangelica del ricco che si affanna a calcolare i propri averi, inconsapevole della morte che lo minaccia; Vermeer ritrae una donna in atto di pesare perle sullo sfondo di un dipinto con la raffigurazione del Giudizio Finale. Alla caducità aveva fatto riferimento lo stesso Caravaggio nella “Canestra di frutta”, inserendovi una mela bacata e un acino intaccato dalla ruggine. La sinistra onnipresenza della morte è suggerita da Guercino nel celebre quadro in cui due pastori scoprono un teschio posato su una pietra con l’iscrizione “Et in Arcadia Ego”, ovvero “Io (la Morte) sono presente anche in Arcadia”. Quindi, la morte è presente anche nella dimensione apparentemente felice e incontaminata dei pastori, della poesia e della musica. Questo tema, che sarà ripreso anche da Poussin, esprime il sentimento del tramonto della classicità ideale.
Sviluppi del Classicismo
Se è importante sottolineare il carattere rivoluzionario di Caravaggio, non si deve sottovalutare la portata innovatrice della scelta classicista operata da Annibale Carracci e dal Domenichino. Per questi artisti, ritornare all’antichità classica significa rifarsi agli ideali di equilibrio, di ordine e misura che ne costituivano l’essenza. E’ una reazione esplicita agli artifici della “maniera” da un lato, e all’imitazione indiscriminata del “naturale” dall’altro. I concetti di “vero”, “verisimile” e “natura” vengono subordinati al filtro selettivo dell’”idea”, che è la capacità innata dell’artista di distinguere il perfetto dall’imperfetto, l’ordine dal disordine, la bellezza dalla deformità. Guardando a Raffaello non meno che all’antico, pittori come Annibale Carracci, Domenichino, Guido Reni, Nicolas Poussin rappresentano un’alternativa e un fronte di resistenza alle tendenze barocche. Anche queste ultime si erano alimentate all’arte classica, soprattutto ellenistico-romana; ma quelle forme di classicismo che possono convivere col barocco vengono respinte dal classicismo seicentesco. Nel 1672 il Bellori, tenendo saldi i valori di ordine, bellezza e ragione, si scaglia da un lato contro “quelli che si gloriano del nome di naturalisti” e dall’altro contro gli architetti barocchi che deformano gli edifici. Diffuso a Roma dalla cerchia dei bolognesi, l’ideale classico incontra particolare fortuna in Francia, soprattutto nell’ambito dell’ordinamento accademico voluto da Luigi XIV e attuato dal suo grande ministro Colbert. La fondazione dell’Accademia di Francia a Roma (1666), gemellata con quella di San Luca, stabilisce una comunicazione costante e uno scambio di esperienze. A Nicolas Poussin, pittore francese trapiantato in Italia, si deve la più convinta e rigorosa attuazione dell’ideale classico in opere che presuppongono l’equivalenza di poesia e pittura (secondo il principio oraziano dell’ut pictura poesis).
Le nuove tendenze estetiche del ‘700
Il XVIII secolo porta una ventata di ottimismo: la rinnovata fiducia nelle capacità umane fa maturare l’idea di progresso, identificato con il continuo miglioramento nelle forme di governo e nella vita degli uomini. Un ruolo essenziale in questo processo spetta ai philosophes francesi che reagiscono ai pregiudizi del passato alla luce della ragione, in nome di nuovi principi di tolleranza e filantropia. I costumi e le abitudini sociali vengono passati al vaglio, commentati ironicamente, spesso causticamente, con intenti moralizzatori o di denuncia. Su questo terreno s’impegnano non solo i letterati come Voltaire, ma anche gli artisti come Hogarth, autore di stampe e dipinti satirici volti a bollare il vizio e le sue conseguenze sociali: celebri sono le sue serie dedicate alle “carriere” del libertino e della cortigiana. In tutti i campi del sapere si sviluppano nuove concezioni, favorite dalla circolazione europea della cultura e da un atteggiamento fortemente cosmopolita che porta a rivalutare civiltà lontane in precedenza giudicate barbare: l’esotismo diventa una moda, e avrà sviluppi significativi in campo artistico.
Le città italiane restano le tappe più ambite nel grand tour dei gentiluomini europei; contemporaneamente, artisti come Sebastiano Ricci, Rosalba Carriera, Giambattista Tiepolo raccolgono allori a Madrid, Londra, Parigi e nelle città tedesche, dove la “maniera italiana” continua a godere di grande prestigio.
Nel Settecento si precisa anche la figura del “dilettante” di pittura, dell’amateur o connoisseur, ben distinto dall’accademico” che giudica secondo criteri di scuola.
Categoria tipica dell’estetica settecentesca è il “gusto”, definito da Montesquieu“il privilegio di scoprire con rapidità e finezza la quantità di piacere che ciascuna cosa può donare agli uomini”. Altra parola chiave nell’estetica del tempo è “piacere”, a matrice empirista e sensista, legato cioè al “senso” soggettivo e alla sua capacità di stabilire associazioni. Se il Classicismo curava l’ordine e la simmetria, ora si privilegiano la varietà e l’irregolarità. Nella sua opera “Analysis of beauty”, Hogarth coglie nella linea ondulata o serpentinata, nel ricciolo, la vera essenza della bellezza.
Il Rococò: “attimo fuggente” e “pittoresco”
In ambito pittorico, lo spirito Rococò si manifesta impareggiabilmente in Watteau, creatore del fortunato genere della Fete galante, e continua nei dipinti erotici di Boucher, trovando qualche eco anche a Venezia, nei “capricci” di Francesco Guardi e nei lievi ritratti a pastello di Rosalba Carriera. Ciò che più caratterizza la pittura rococò è l’uso dell’”attimo fuggente”. L’immagine non vuole raccontare una storia, quanto rappresentare un’emozione. Le sensazioni o emozioni sono quelle in genere prodotte dall’essere in un luogo e in uno spazio specifico: guardare un chiaro di luna in riva ad un lago, essere nell’ombra di un accogliente boschetto in piacevole conversazione, e così via. In genere queste sensazioni sono sempre di tipo mondano, raffigurano la dolce vita degli aristocratici. Feste, balletti, concerti, spettacoli, pranzi all’aperto, battute di caccia, momenti di corteggiamento sono i soggetti che più frequentemente si trovano nei quadri rococò. Il pittore che inaugura questo genere di soggetti è il francese Jean-Antoine Watteau, così come, dopo di lui, i maggiori interpreti della pittura rococò sono altri due pittori francesi: François Boucher e Jean-Honoré Fragonard. In effetti, agli inizi del Settecento la Francia si appresta ad assumere il ruolo di baricentro artistico europeo, ruolo che di fatto ha conservato fino alla metà del Novecento.
Altra componente della pittura rococò è la categoria estetica del “pittoresco”. Il termine indica quelle immagini gradevoli che nascono spontaneamente dalla natura, e hanno caratteri irregolari. In arte, il “bello” è sinonimo di regolarità e si riferisce unicamente alle cose prodotte dall’uomo. Il “pittoresco” si riferisce invece alla natura le cui forme, geometricamente irregolari, sono comunque belle a vedersi. Il pittoresco nasce in contemporanea col genere di paesaggio, agli inizi del Seicento. Nella pittura rococò, la maggior parte delle scene rappresentate hanno come sfondo un paesaggio di tipo pittoresco. La natura spontanea è scelta come cornice ideale per ogni attività piacevole. Vi compaiono anche “rovine” di edifici antichi: frammenti architettonici, statue, pezzi di colonne: il frammento antico ha sempre il suo fascino, perché è la testimonianza di una grandezza passata e ci fa avvertire lo scorrere del tempo. Natura e rovine finiscono per rappresentare simbolicamente l’eternità e la fugacità: la natura non teme il passare del tempo, mentre le rovine mostrano la transitorietà delle cose umane.
L’Italia perde il primato
Se Venezia è la città più aperta agli scambi culturali con l’Europa, la situazione artistica italiana resta nel complesso lontana dai raffinati e spregiudicati indirizzi francesi, che trovano migliore accoglienza nelle corti principesche dei paesi tedeschi.
In Italia la pittura resta nell’alveo della grande tradizione barocca. A Venezia, Tiepolo fa rivivere il genere eroico. Non mancano personalità eccentriche e brillanti ritrattisti, ma la novità di maggior peso è rappresentata dagli sviluppi del vedutismo. Benché la tradizione artistica e l’entusiasmo dei viaggiatori stranieri continuino ad assicurare all’Italia un primato di stima, è ad altri paesi – in primis Francia ed Inghilterra – che passano ora il ruolo di guida e un’effettiva supremazia artistica. A Londra nel 1768 viene fondata la Royal Academy, che favorisce la nascita di una prestigiosa scuola pittorica dominata da Joshua Reynolds.