A tavola con i morlacchi
Scritto da Stefano Torselli. Pubblicato in cucina barocca
Nel Settecento fiorisce il mito del buon selvaggio: gli usi e costumi delle popolazioni più povere sono descritti in termini lusinghieri. Nel 1771 Alberto Fortis compie una spedizione tra i Morlacchi, e nel suo “Viaggio in Dalmazia” descrive un pranzo da loro allestito in un sepolcreto.
Il pranzo era imbandito alle spese del morlacco Vukovich, con tutta la profusione di vivande che si poteva desiderare. Quel cortese galantuomo non intende parola d’italiano, ma intende perfettamente l’ospitalità. Uno di que’ sepolcri ci servì di mensa; ma mense ancor più curiose erano poste dinanzi a noi, e sostenevano due agnelli arrosto che ci furono arrecati. Erano queste focaccie d’azzimo stiacciate, destinate ad un tempo a servire di piatti e di pane. Noi mangiammo d’alcuni de’ vari cibi apportatici con molto appetito; d’altri, ch’erano appunto i raffinamenti e le delizie della cucina morlacca, non potemmo gustare.
Divorammo le focaccie che ci sembrarono squisite. Il mangiare morlacco rassomiglia di molto al tartaro, come si somigliano le due nazioni; e quindi non piacerebbe a tutti coloro che sono avvezzi alle tavole francesi e italiane. La tovaglia suol essere un tappeto di lana; salvietti usano di raro, e se ne hanno, sono di lana ancor essi. Con quel lungo e pesante coltello, che ciascun Morlacco tiene alla cintola, fanno le parti; forchette non usano molto, e al più ne ha una il padrone di casa; di cucchiai di legno, ne hanno ricchezza, e ponno provvederne tutta la compagnia: di bicchieri nella purità nazionale non si fa uso, poiché un vaso ragionevolmente grande di legno, chiamato bulcicara, in cui si mesce acqua e vino, va girando all’intorno di bocca in bocca per sino a tanto ch’è vuoto. Spesso vi si mettono in fusione le basette de’ convitati ma il vino non si guasta per così poca cosa.
Qualche invitato più assetato degli altri si traeva di capo il berretto, e bevea con esso. Tutte le porcellane e maioliche di que’ buoni selvaggi consisteano in due o tre scodelle di legno, nelle quali avevano posto varie qualità e manipolazioni di latte, ogni galantuomo della brigata v’attingeva col suo cucchiaio; così fecimo noi, un uffiziale morlacco, il Vukovich, e le nostre guide ad un tempo, con santa uguaglianza. Il degno e dotto Vescovo era tanto contento quanto qualche altro potrebb’esserlo a tavola co’ suoi canonici.
La loro maniera d’arrostire i castrati e gli agnelli è semplicissima. Sventrato e scorticato l’animale, sfrondano un grosso ramo d’albero, e ve lo infilzano tutto intiero; s’accende un gran fuoco dinanzi ad esso, di modo che prima dall’una parte, poi dall’altra si cuoce bene. Negl’intingoli loro entra sempre l’aglio come droga principale; e hanno delle detestabili torte di latte e farina, nelle quali entra pur l’aglio.
Io mi sono in seguito così ben accomodato ai cibi morlacchi, che non di raro m’è accaduto di mangiare di buon appetito il latte inacidito, l’aglio, e le scalogne col pane d’orzo, che sono le loro vivande ordinarie.