Edmund Burke
Scritto da Stefano Torselli. Pubblicato in filosofia barocca
Breve biografia
Edmund Burke nasce a Dublino, Irlanda, il 12 gennaio 1729 da padre anglicano e da madre cattolica: con il fratello Richard viene educato da anglicano perché possa, in futuro, intraprendere la carriera pubblica. Ma l'ambiente cattolico in cui vive di fatto e gli studi coltivati contribuiscono a creare in lui quello che è stato definito "stampo di pensiero cattolico". Dal 1743 al 1748 studia arti liberali al Trinity College di Dublino formandosi su autori classici greci e latini. Cicerone e Aristotele esercitano sul futuro parlamentare un'influenza profonda. Nel 1750, a Londra, studia diritto al Middle Temple; lo abbandona presto, stanco del pragmatismo materialista e della metodologia meccanicista di cui è impregnato l'insegnamento. Quindi si dà alla carriera letteraria.
Nel maggio del 1756 Burke pubblica il primo scritto, anonimo: “A Vindication of Natural Society”, un pamphlet che deride la filosofia libertina e deista allora in voga. Il 12 marzo 1757 sposa Jane Nugent. Nell'aprile dello stesso anno dà alle stampe “A Philosophical Inquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful”. In quest'opera contesta l'interpretazione dell’arte come semplice prodotto di rigide regole teoretiche. Ne indaga le fondamenta psicologiche, anticipando aspetti importanti del pensiero filosofico della maturità. Nei mesi precedenti era apparso anche l'anonimo “An Account of the European Settlements in America”, testo forse redatto da Will Burke - un parente di Edmund - nel quale sono stati individuati numerosi apporti del pensatore. Nell’opera, l'anonimo autore simpatizza con l'idea di libertà politica espressa dalle Colonie britanniche, mettendo in guardia i propri compatrioti circa la pericolosità di certe misure commerciali troppo restrittive. Il 9 febbraio 1758 nasce il figlio Richard, che morirà nel 1794. Dal medesimo anno fino al 1765 Burke dirige l'Annual Register, una corposa rassegna che si occupa di storia, di politica e di letteratura, prima solo britanniche, poi anche europee continentali. Fra il 1758 e il 1759 scrive “Essay towards an Abridgment of the English History”, pubblicato postumo nel 1811. In questo stesso periodo Burke inizia a frequentare Samuel Johnson, l'eminente letterato tory, cioè del "partito del re": nonostante la diversità delle loro opinioni politiche, fra i due intercorreranno profonde stima e amicizia.
Nel 1759 diviene segretario privato e assistente politico di William Gerard Hamilton, un suo coetaneo già attivo in Parlamento. La redazione dei “Tracts Relative to the Laws against Popery in Ireland” - scritti frammentari pubblicati postumi nel 1797 - risale all'autunno del 1761, durante un soggiorno irlandese. Dopo la separazione da Hamilton si lega a Charles Watson-Wentworth, secondo marchese di Rockingham, divenendone presto segretario. Questi, il 10 luglio 1765, viene nominato primo ministro da re Giorgio III di Hannover benché il sovrano sia assai riluttante ad affidare l'incarico a un whig, cioè del "partito del Parlamento". Eletto nello stesso anno alla Camera dei Comuni, Burke vi diviene presto la guida intellettuale e il portavoce della "corrente Rockingham" del partito whig, la quale, peraltro, ha solo brevi successi politici. Burke siede dunque nei banchi dell'opposizione per la maggior parte della propria carriera politica ed è durante questa seconda fase della sua esistenza che pubblica le opere più note, fra cui “Thoughts on the Causes of the Present Discontents” nel 1770, “Speech on the Conciliation with the Colonies” nel 1775, “Reflections on the Revolution in France” nel 1790, “Thoughts on the French Affaire” e “Appeal from the New to the Old Whigs” nel 1791, infine le “Letters on a Regicide Peace”, concluse nel 1796.
Il 9 luglio 1797 Burke muore nella sua casa di campagna di Beaconsfield, Inghilterra.
Il pensiero di Edmund Burke
Gran parte dell'attività pubblica burkiana è impegnata a difendere da un lato la chiesa anglicana dagli attacchi dei "liberi pensatori" e dei riformisti protestanti radicali, dall'altro i cattolici e i dissenzienti protestanti, lesi nei propri diritti dalla filosofia assolutistica del governo londinese. Ragione di quest'azione politica è una visione d'insieme della natura umana e dei rapporti fra lo Stato, i corpi sociali intermedi e i singoli individui minacciati dall'assolutismo moderno. Obiettivo di Burke è garantire uguali diritti a tutti i sudditi britannici, ovunque si trovino e qualunque fede religiosa professino: diritti concreti, acquisiti storicamente in virtù della secolare tradizione costituzionale e consuetudinaria britannica. Lo statista diviene celebre per quattro "battaglie parlamentari". La prima, a tutela dei diritti costituzionali tradizionali dei coloni britannici in America, si oppone alla tassazione arbitraria, imposta dal governo londinese, e difende l'autentico significato della Costituzione "non scritta" britannica. Con lungimiranza, Burke si accorge della miccia che tale politica va innescando nella polveriera nordamericana e fa di tutto per allontanare lo spettro della perdita delle Colonie. Contrario alla loro indipendenza, quando scoppia il conflitto armato fra esse e la Corona britannica giudica gli eventi come una "guerra civile" interna all'Impero - non una rivoluzione - presto sanabile. La seconda battaglia parlamentare è quella condotta contro l'amministrazione pubblica, che impedisce ai sudditi irlandesi di fruire dei diritti costituzionali britannici, anche se in tema di libertà religiosa Burke non riesce ad avere altrettanto parziale successo in difesa dei compatrioti cattolici. In terzo luogo, chiede la messa in stato d'accusa di Warren Hastings, governatore generale dell'India britannica, per il suo malgoverno, ma non è ascoltato. L'ultima battaglia ha per tema la Rivoluzione francese. Nelle “Reflections on the Revolution in France” - una delle opere più commentate e influenti della storia inglese moderna, pubblicata poco dopo la presa della Bastiglia - intuisce, l’intero corso degli eventi rivoluzionari, dal regicidio alla dittatura militare napoleonica, stigmatizzandone la natura. Per lui la Rivoluzione costituisce l'avvento della barbarie e della sovversione di ogni legge morale e di ogni consuetudine civile e politica. Nella sua polemica contro la Rivoluzione, Burke elogia il sistema politico inglese perché "in giusta corrispondenza e simmetria con l’ordine del mondo", mentre la preoccupazione per il fanatismo della ragione, che potrebbe distruggere tutti i vincoli sociali, lo porta a voler difendere la religione statuita , per poter così difendere la società statuita.
Non escluderei del tutto le alterazioni, ma anche se dovessi mutare, muterei per preservare, grave dovrebbe esser l'oppressione per spingermi al mutamento. E nell'innovare, seguirei l'esempio dei nostri avi, farei la riparazione attenendomi il più possibile allo stile dell'edificio. La prudenza politica, un'attenta circospezione, una timidezza di fondo morale più che dovuta a necessità, furono tra i primi principi normativi dei nostri antenati nella loro condotta più risoluta. (Da: Riflessioni sulla Rivoluzione francese).
Fare una rivoluzione è una misura che prima fronte richiede una giustificazione. Fare una rivoluzione significa sovvertire l'antico ordinamento del proprio paese; e non si può ricorrere a ragioni comuni per giustificare un così violento procedimento. […] Passando dai princìpi che hanno creato e cementato questa costituzione all'Assemblea nazionale, che deve apparire e agire come potere sovrano, vediamo qui un organismo costituito con ogni possibile potere e senza alcuna possibilità di controllo esterno. Vediamo un organismo senza leggi fondamentali, senza massime stabilite, senza norme di procedure rispettate, che niente può vincolare a un sistema qualsiasi. [...] Se questa mostruosa costituzione continuerà a vivere, la Francia sarà interamente governata da bande di agitatori, da società cittadine composte da manipolatori di assegnati, da fiduciari per la vendita dei beni della Chiesa, procuratori, agenti, speculatori, avventurieri tutti che comporranno una ignobile oligarchia , fondata sulla distruzione della corona, della Chiesa, della nobiltà e del popolo. Qui finiscono tutti gli ingannevoli sogni e visioni di eguaglianza e di diritti dell' uomo. Nella "palude Serbonia" di questa vile oligarchia tutti saranno assorbiti, soffocati e perduti per sempre.
Il bello ed il sublime
Intorno al I secolo d.C., un autore anonimo compose in greco un’opera intitolata “Sul Sublime” in cui si sforzò di ravvisare quelle che - a suo avviso - erano le 5 “fonti” da cui il Sublime promanava. L’Anonimo del Sublime, tuttavia, si limitava a parlare di “Sublime letterario”, che non investiva l’ambito della natura ma si arrestava alle pagine dei libri. A parecchi secoli di distanza dall’Anonimo, Burke ritorna su questo problema ed individua diverse cause del sublime.
Il terrore. Nessuna passione, come la paura, priva con tanta efficacia la mente di tutto il suo potere di agire e di ragionare. L’apprensione per un dolore o per la morte agisce in modo da sembrare un dolore reale. Quindi tutto ciò che è terribile alla vista è pure sublime. La grandezza delle dimensioni è relativa: vi sono molti animali che, sebbene non siano affatto grossi, sono capaci di suscitare l’idea del sublime, come i serpenti velenosi.
L’oscurità. Quando conosciamo l’intera estensione di un pericolo possiamo abituare a essa il nostro sguardo, così che gran parte del timore svanisce. La notte, invece, aumenta il nostro terrore; le nozioni di fantasmi e folletti, sui quali nessuno può formulare delle idee chiare, impressionano gli animi di chi crede nelle favole popolari.
La potenza. Il dolore è sempre inflitto da un potere superiore, poiché non ci sottomettiamo mai al dolore spontaneamente. La potenza trae la sua sublimità dal terrore, a cui va unita. Ogni volta che la forza è utile e viene usata a nostro beneficio o per il nostro piacere, non è mai sublime: un bue è un essere di grande forza, ma è una creatura innocente e per nulla pericolosa; per questo l’idea di un bue non è per niente sublime. L’idea di un toro, invece è grandiosa, ed esso trova sovente posto in descrizioni sublimi e in nobili paragoni.
La privazione. Tutte le privazioni sono grandi perché sono tutte terribili: il vuoto, l’oscurità, la solitudine e il silenzio.
La vastità. L’estensione può essere in lunghezza, o in altezza, o in profondità. Di queste, la lunghezza colpisce meno. Allo stesso modo l’altezza è meno grandiosa della profondità; infatti siamo maggiormente impressionati nel guardare giù da un precipizio che nel guardare verso l’alto un oggetto di uguale altezza. Come il grado estremo della dimensione è sublime, così il grado estremo della piccolezza è pure sublime. Quando noi osserviamo l’infinita divisibilità della materia, quando seguiamo la vita animale in esseri piccolissimi e pure organizzati e la scala dell’esistenza che ancora diminuisce, rimaniamo stupiti e confusi ai miracoli della piccolezza.
L’infinità. Esistono pochissime cose infinite per loro natura. Ma spesso l’occhio non è capace di percepire i limiti di molte cose, per cui sembra che esse siano infinite e producono i medesimi effetti.
La difficoltà. Quando sembra che un’opera abbia richiesto immensa forza e fatica per essere compiuta, l’idea che ne abbiamo è grandiosa. Stonehenge non offre alcunché di ammirevole quanto a disposizione di masse o a decorazione; ma quegli immensi, rozzi macigni di pietra ritti e messi l’uno sull’altro spingono il pensiero all’immensa forza necessaria per tale lavoro. Anzi, la rozzezza dell’opera accresce questo motivo di grandiosità, mentre esclude l’idea di arte.
La magnificenza. Una grande profusione di cose, splendide o pregevoli in se stesse, è magnifica. Il cielo stellato, sebbene cada frequentemente sotto il nostro sguardo, suscita sempre un’idea di grandiosità, che non può essere dovuta a qualcosa che si trovi nelle stelle stesse considerate separatamente. La causa sta certamente nel loro numero. Il disordine apparente aumenta la grandiosità, poiché l’aspetto dell’ordine ècontrario alla nostra idea di magnificenza.
Ma, esaminate le “cause” del sublime, resta da chiarire in che cosa esso si distingua, propriamente, dal belloecco cosa dice Burke: “Nel chiudere questa visione d'insieme della bellezza sorge naturale l'idea di paragonarla col sublime, e in questo paragone appare notevole il contrasto. Gli oggetti sublimi sono infatti vasti nelle loro dimensioni, e quelli belli al confronto sono piccoli; se la bellezza deve essere liscia e levigata, la grandiosità è ruvida e trascurata; la bellezza deve evitare la linea retta, ma deviare da essa insensibilmente; la grandiosità in molti casi ama la linea retta, e quando se ne allontana compie spesso una forte deviazione; la bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra e tenebrosa; la bellezza deve essere leggera e delicata, la grandiosità solida e perfino massiccia. Il bello e il sublime sono davvero idee di natura diversa, essendo l'uno fondato sul dolore e l'altro sul piacere, e per quanto possano scostarsi in seguito dalla diretta natura delle loro cause, pure queste cause sono sempre distinte fra loro, distinzioni che non deve mai dimenticare chi si proponga di suscitare passioni”.