Infanzia e giovinezza
Giuseppe Parini nacque nel 1729 a Bosisio, un paesotto del Comasco, da una famiglia di pochi mezzi, ma di un certo decoro piccoloborghese, come dimostrano i titolo di “messere” e di “madonna” con cui i suoi genitori erano registrati negli atti del Comune. Il padre aveva passato la vita nei lutti: gli erano morti in fasce cinque dei sette figli datigli dalla prima moglie. La seconda moglie affogò nel lago, e la terza fu stroncata “di notte da un subito accidente”. Dei tre figli di secondo letto, sopravisse solo Giuseppe che nella prima adolescenza fu colto “da violenta stiracchiatura ai muscoli, perlochè cosce, gambe e braccia cominciarono a estenuarsi”. Si trattava probabilmente di poliomielite che lo lasciò per tutta la vita claudicante. “Il prete zoppo” lo chiamava Pietro Verri con la sua abituale caritatevolezza.
La sua carriera fu decisa da una prozia che gli lasciò il proprio patrimonio a patto che si facesse prete e celebrasse messe in suo suffragio. La rendita era modesta in realtà, ma il giovane Parini ne aveva bisogno per mantenersi agli studi. Si trasferì quindi a Milano con la zia e s’iscrisse alle scuole Arcimbolde, di cui erano stati allievi i fratelli Verri, Beccaria e altri rampolli della nobiltà milanese.
Il periodo milanese
Quanto ardente fosse la sua vocazione religiosa lo dice egli stesso quando confessò di essere stato“istrascinato repugnante alla teologia e al sacerdozio”. Fu un vero prete del Settecento: scettico e libertino. Le sue passioni furono fin d’allora la letteratura, le donne e il gioco. Entrò presto a far parte dell’Accademia dei Trasformati, la più sofisticata della città, di cui erano soci i Verri, il Beccaria, il Baretti, il Firmian, insomma il meglio di Milano. Cantù ci dice che costoro snobbarono subito il povero prete campagnolo e malfermo. Ma non è vero. Parini aveva già pubblicato una prima raccolta di poesie perfettamente in tono con la moda di allora, ottenendo un certo successo. E il successo gli spalancò le porte delle case più in vista, ed in particolare quella dei Serbelloni.
Donna Vittoria Serbelloni
I Serbelloni appartenevano alla vecchia aristocrazia che detestava le modernità e diffidava dei letterati. Il capo della casata si era presa per moglie una romana, Vittoria Ottoboni Buoncompagni, nipote del papa Benedetto XIV, donna d’avanguardia e non solo di idee. Parini entrò al servizio dei Serbelloni come precettore . Vittoria aveva già avuto una sfilza di amanti, fra cui Pietro Verri, ed era in rotta col marito. Due anni dopo, infatti, si separarono, e Parini dedicò all’episodio un epigramma “Cari figli non piangete- che se ancor non nati siete-, non potendo vostro padre-, vostra madre vi farà” che non fa onore al suo buon gusto, ma piacque alla spregiudicata duchessa. Di che natura fossero i loro rapporti non si è mai saputo con precisione. Il fatto che entrambi fossero impegnati in altri amori, non doveva essere di grande impedimento.
Alto, magro, pallido, capelli neri e occhi languidi, Parini portava con grazia la sua infermità aiutandosi con le scarpe ortopediche che gli confezionava gratis il calzolaio Ronchetta, egli stesso poeta dialettale. Alle donne piaceva e ne ebbe così tante da scandalizzare persino il Baretti, e di tutte riuscì a conservare l’amicizia anche dopo la fine della relazione. Ma aveva anche dei nemici: entrò infatti in polemica con padre Branda e ne venne fuori una zuffa generale in cui entraroni anche Il Caffè che prese le parti del Branda e La Frusta che prese quelle di Parini. In questa disputa, molto probabilmente, l’elemento personale prevalse su quello ideologico. Baretti difendeva Parini perché Parini era nemico di Verri. E Verri era nemico di Parini perché Parini era amico di Baretti, amante della sua ex-amante Vittoria, e soprattutto protetto da Firmian, fiduciario di Maria Teresa a Milano, che non amava Verri.
Una brillante carriera
Fu infatti grazie al Firmian che Parini ebbe una brillante carriera: ottenne una cattedra alle scuole palatine, cioè all’Università, la direzione del giornale governativo e tanti altri incarichi.
Sebbene nato povero amava vivere da signore. Non ebbe pace finchè non gli concessero un appartamento a Brera e si arrabbiò moltissimo quando gli negarono una carrozza con un seguito di sei servitori.
Parini fu un grande paladino delle riforme austriache ma non un anticipatore. Con le sue odi elogiava riforme già adottate dal potere come il divieto dell’evirazione, l’obbligo del vaccino contro il vaiolo, l’abolizione dell’ordine dei Gesuiti. Verri non aveva dunque tutti i torti quando fra le righe gli rimproverava di essere l’avvocato delle cause già vinte. Anche se giusta l’accusa era ingenerosa perché non teneva conto della diversa condizione in cui si trovava Parini. Per il nobile e ricco Verri, sfidare impunemente il potere e la censura con gli scitti era un hobby. Per il borghesuccio e squattrinato Parini, scrivere era un lavoro. Difese bene i suoi titoli e la sua carriera con la diplomazia e le amicizie, soprattutto femminili. Tra le sue tante amanti ci fu Teresa Angiolini Fogliazzi, prima ballerina del teatro ducale, invano corteggiata da Verri moglie di un coreografo amico di Parini. Teresa diventò ben presto la favorita del Principe Kaunitz, il potente ministro di Maria Teresa. Grazie a lei il Kaunitz prese sotto la sua protezione il poeta.
L’impenitente seduttore ebbe il suo castigo solo in tarda età, quando s’innamorò perdutamente di Cecilia Tron“dalle belle braccia”. Da questo amore nacque l’ode “Il pericolo”, una delle migliori della sua produzione, dedicata appunto a lei che la ripagò con i tormenti della gelosia, quando all’orizzonte comparve il tenebroso Il Conte di Cagliostro che cancellò il Parini dal cuore della bella veneziana.
La produzione di Parini non ebbe mai arresti. Più che poeta e letterato egli fu uno dei maggiori interreti e testimoni dell’Illuminismo Italiano incarnandone i pregi ma anche i limitie rappresentando molto bene la disgraziata condizione dell’intellettuale costretto a restare all’ombra del potere per conservare il “posto”.
Il giovin signore
Non meno prudente si mostrò nei confronti della società. Per dununziarne i vizi e le malformazioni, compose un poemetto, Il Giorno, in cui, presentandosi come precettore di un giovane aristocratico, ne descrive la giornata e ne mette in risalto la vuotaggine. Come satira di costume, è la più valida che ci offra il Settecento anche se non si può dire che essa scavi a fondo. Ciò è naturale: Parini sapeva benissimo che a leggerla sarebbero stati i corbellati, presso i quali aveva fatto carriera, e che non poteva contare su un “pubblico” popolare in grado di fornirgli un sostegno morale. Se così fosse stato, avrebbe dato del suo futile e inutile“giovin signore” un quadro molto più graffiante ed efficace. Al Giorno egli lavorò quasi quarant’anni ma il lavoro rimase incompiuto. Forse Parini rinunziò di proposito a non terminare il suo poemetto, trovandosi in un momento in cui qualsiasi presa di posizione poteva comportare grossi rischi: quando scoppiò la Rivoluzione Francese, Parini aveva quasi sessant’anni ed era all’apice della sua carriera, titolare della cattedra di lettere e sovrintendente dell’Accademia di Belle Arti, membro della Società Patriottica e dell’Accademia Ufficiale, egli era praticamente un alto dignitario del regime austriaco e come tale si sentiva piuttosto esposto.
Gli ultimi anni
In un’ode del ’90 rese un omaggio alla “regal Parigi” dicendo che “non a sé fati oggi prepara”, ma in un’altra corbellò la nuova moda femminile del nastro rosso al collo, detta “alla ghigliottina”.
Non lo fece solo perché alla ghigliottina i rivoluzionari francesi avevano mandato la loro regina Maria Antonietta, zia dell’imperatore d’Austria, signore di Milano e dello stesso Parini, ma anche perché il sangue gli repugnava sinceramente.
Tanta prudenza ebbe il suo premio: quando nel ’96, gli austriaci evacuarono Milano, lasciandola nelle mani di Napoleone il poeta fu chiamato, insieme a Verri, a far parte della nuova Municipalità.
Alcuni suoi agiografi gli attribuirono gesti di risoluto coraggio come il rifiuto di associarsi al grido di “Morte agli aristocratici”. Ma sono solo mistificazioni risorgimentali, in realtà Parini cercò sempre di non compromettersi. Entrò in una commissione che si proponeva di “illuminare il popolo riguardo alla costituzione fisica e morale dei lombardi” sostenendo e facendo decretare che il popolo doveva levarsi il cappello davanti alle autorità. Ma non aprì bocca quando il comandante francese decise di revocare le delibere della Municipalità e Beccaria, Visconti e Serbelloni chiesero la costituzione di uno stato autonomo.
Quando gli austriaci tornarono a Milano nel ’99, non scoprirono a suo carico nessun atto di collaborazionismo e gli lasciarono la casa e la pensione.
Morì nel ’99 e il giornale non ne dette nemmeno notizia. La gloria gli venne a ceneri raffreddate.
Egli fu un esemplare figlio del suo secolo incipriato e riccioluto, un accademico prezioso, un paziente e diligente ma freddo cesellatore di “pastorellate” e “cicalate” in perfetto stile arcadico.