Il carnevale romano
Scritto da Stefano Torselli. Pubblicato in mirabilia
A Roma il carnevale cominciava undici giorni prima del mercoledì delle Ceneri, al suono della campana del Campidoglio, ma s’interrompeva il venerdì e la festa durava quindi otto giorni.
Il carnevale era inaugurato ufficialmente dalle autorità, il senatore, il governatore e i conservatori si univano in sfilata ai cardinali massimo e davano inizio così alle feste.
Era difficile limitare i disordinie l’autorità romana aveva il compito di evitare gli eccessi. Durante il carnevale l’accesso al Corso era vietato alle cortigiane e alla canaglia, ma anche ai monaci, che potevano guardar lo solo dalle finestre o dalle strade adiacenti.
Il centro dei divertimenti era il Corso per circa un chilometro e mezzo tra piazza del Popolo e piazza Venezia. Le abitazionivenivano ornate con tappeti, fronde e fiori, la folla delle maschere si agitava al centro della strada, preoccupandosi tuttavia di scansare due file di carrozze, una che proveniva da piazza del Popolo, l’altra che andava in senso contrario, e di lasciare il passo alle carrozze delle autorità. Infatti il governatore, il senatore, gli ambasciatori e il pretendente al trono degli Stuart, Carlo Edoardo, conte d’Albany, si guardavano bene dal seguire la corrente e godevano del privilegio di poter passare in mezzo al Corso.
Gli ebrei e il carnevale
Con il pontificato di Clemente IX (1667-1669) entrò nell’uso una particolare cerimonia che si svolgeva in Campidoglio: quando cominciavano i festeggiamenti, invece di far precedere la cavalcata che circondava il senatore di Roma da un corteo di ebrei giovani e vecchi agghindati in modo grottesco, il papa decretò che il ghetto si limitasse a versare un tributo annuale di trecento scudi destinato a coprire l’ammontare dei premi per i vincitori delle corse a cavallo, che erano la principale attrazione del carnevale, e che il rabbino e alcuni notabili si recassero a rendere omaggio ai conservatori e al senatore, il quale li avrebbe ringraziati simulando un calcio sotto le reni. Umiliazione per umiliazione, la seconda aveva l’unico vantaggio di essere più discreta.
I travestimenti
Era consentito travestirsi in qualsiasi modo, salvo che da preti, cardinali, frati e monache. Le maschere in genere erano quelle della Commedia dell’arte: Arlecchino, Pantalone e soprattutto Pulcinella prediletta dalle donne mentre gli uomini adottavano costumi femminili. Si vedevano tuttavia anche falsi turchi, marinai inglesi sotto i cui panni si nascondevano studenti, artisti e anche abati e gentiluomini. Ci si abbandonava liberamente a ridere e a gridare tra battaglie di confetti e di stelle filanti. Certe maschere camminavano su trampoli, altre andavano a cavalluccio le une sulle altre, altre ancora saltavano sui predellini delle carrozze o sulle panche di pietra lungo i palazzi, piombano tra i curiosi che vi stavano seduti.
I carri
Durante il carnevale sfilavano dei carri allegorici, ornati di fiori e festoni di verzura, spesso equipaggiati a spese di famiglie aristocratiche, che non disdegnavano di montarvi: nel 1711, ad esempio, si videro sfilare il principe Pamphili circondato da ussari e il principe Ruspoli a cavallo, in costume da sultano, con un seguito di mammalucchi, di giannizzeri e di eunuchi. Nel 1719 la famiglia Colonna fece costruire un’intera serie di carri trionfali, ogni giorno diversi per tutta la durata del carnevale. Nel 1721, dopo le vittorie diplomatiche riportate dall’Impero sulla Spagna, grazie alla Quadruplice Alleanza e al fatto che il cardinale Alberoni fosse caduto in disgrazia, a Roma ci fu una grande mascherata di cavalieri tedeschi che simboleggiavano i successi germanici con emblemi mitologici. Nel 1735, gli allievi dell’Accademia di Francia organizzarono una cavalcata cinese e il principe Rospigliosi sfilò su un carro in costume da magnate polacco, circondato da una folla di staffieri; mentre nel 1747 venne allestito un torneo nel cortile di Palazzo Barberini, ritenuto più adatto del Corso a un simile gioco.
Nel 1763 un carro è allestito come un colle ricoperto di alberi, in cui si aprono grotte dalle quali escono graziose ninfe: è il carro di Diana cacciatrice, la duchessa di Gravina Orsini. Per evocare un sacrificio alle divinità dell’India compiuto da sacerdoti e sacerdotesse indù, i Borghese si uniscono ai Boncompagni, agli Spada e ai Barberini: gli uomini sono in turbante, le donne hanno il volto velato ma le spalle e le braccia nude, e portano collane e braccialetti di diamanti, di smeraldi, abiti di seta rosa o azzurra ornati da splendidi pizzi. Comparse più modeste travestite da indù lo precedevano a piedi, insieme a carrozze di musici in lunghi abiti azzurri.
In tutta la città venivano recitate commedie, sia nei palazzi privati che nei seminari e nei conventi. Solo nelle case private nel 1711 se ne dettero ben novanta.
La corsa dei Berberi
La corsa dei cavalli berberi era l’apice del carnevale romano. I cavalli venivano addestrati alla prova che avrebbero dovuto sostenere. Coperti da una stretta gualdrappa di tela bianca, venivano condotti davanti all’obelisco di piazza del Popolo, dov’era prevista la partenza; li si abituava a girare la testa verso il Corso, che dovevano percorrere al passo dopo essere restati per qualche tempo immobili. L’operazione veniva ripetuta con una quindicina di cavalli accompagnati da gruppi di monelli le cui grida anticipavano il baccano della corsa. Per questa, i cavalli erano liberati dalla gualdrappa e dalle briglie, ma gli veniva passato sul dorso un insieme di cordoni cui erano assicurate delle sfere irte di punte acuminate, veri e propri speroni mobili da cui fino alla partenza erano protetti mediante strisce di cuoio. Al momento della partenza i cavalli si trasformavano in creature indomabili, saltavano oltre le barriere, e i palafrenieri avevano il loro bel da fare per trattenerli. Intanto un picchetto di dragoni aveva percorso da cima a fondo il Corso, con il lastrico coperto di finissima sabbia onde evitare che i cavalli scivolassero, per far evacuare tutte le carrozze nelle vie traverse.
Quando il Corso era perfettamente libero, Otto dragoni lo percorrevano a briglia sciolta da un capo all’altro per avvertire le autorità, e i barberi frementi venivano finalmente liberati in piazza del Popolo. La galoppata si sviluppava frenetica lungo la stretta arteria tra il trepestio e le urla della folla che ten deva il collo per scorgere da lontano i concorrenti che sopraggiungevano come fulmini. Su piazza Venezia degli uomini si gettavano al collo dei cavalli per fermarli: era questa la ripresa; il proprietario del cavallo vincente riceveva dal senatore, insieme alle felicitazioni, una cospicua somma di denaro e un palio di broccato d’oro, una sorta di vessillo fissato su un’asta variopinta e che all’estremità inferiore portava ricamato un cavallo al galoppo.