Tra ciarlatani e chimici nel periodo barocco
Scritto da Laura Savani. Pubblicato in mirabilia
La parola ciarlatano deriva dall’incrocio lessicale di due parole, ciarla e cerretano.
Nel Vocabolario degli accademici della Crusca, alla voce Ciarlatano si legge: “Colui che per le piazze spaccia unguenti o altre medicine, cava denti e anche fa giuochi di mano”. «Coloro insomma che laddove la gente più si aduna, salgono sopra banchi, panche o palchi per dispensare farmaci di varia natura, specifici contro determinate malattie, antidoti contro veleni, per cavar denti, compiere piccole operazioni chirurgiche».
Questa scienza collegata al “ciarlàr”, la ciarlataneria, stava dando vita ad una nuova scienza, la chimica, che pretendeva di descrivere il mondo in un modo totalmente diverso da quello biblico con le sue ciarle ammantate di scientificità. Essa fioriva sul terreno dove s’era combattuta, e ancora si stava combattendo, una delle ultime battaglie in nome della «magia naturale» del Rinascimento e al tempo stesso una delle prime battaglie in nome della «tecnologia» dell’età moderno-contemporanea. Ci si trovava in un clima di profonda “rivoluzione scientifica” e anche il linguaggio usato in questo campo divenne talmente diverso da apparire eretico. L’ambivalenza intrinseca alla ciarlataneria era riprodotta fedelmente in ambito chimico. Da un lato una sapienza intuitiva e immediata, folgorante, quasi mistica, si realizzava nelle arti proprie della vecchia magia rinascimentale; dall’altro lato una razionalità dimostrativa, argomentata, illuminante, di stampo fisico-matematico, si realizzava nelle tecniche applicative della scienza nascente. Le teorie e le pratiche di non pochi adepti oscillavano tra i due poli, incrociandosi e in parte confondendosi e a ciò contribuì la perdurante resistenza o renitenza da parte della medicina ufficiale ad accettare la nuova scienza.
Molti medici asserivano che i medicamenti chimici erano «per lo più mal sicuri e pericolosi», per cui erano «da non permettersi senza l’approvazione de’ medici galenisti», cioè tradizionalisti.
I medici tradizionalisti non avevano tutti i torti nell’opporsi all’adozione di una scienza che ai vecchi e collaudati «semplici» della farmacopea botanica sostituiva i nuovi e aleatori «metalli» tra cui l’arsenico e l’antimonio. Avevano anzi ragione d’essere diffidenti nei confronti di quel «trionfale carro dell’antimonio» di cui s’era vaticinata, agli inizi del Seicento, l’inarrestabile marcia (destinata a protrarsi fino all’Ottocento inoltrato): un trionfo del tutto fantasioso, ma di lunga durata, motivato non da ragioni chimiche, ma da suggestioni astrologico-alchemiche.A quest’ultimo riguardo è disponibile una testimonianza autobiografica settecentesca dello scrittore e storico napoletano Pietro Giannone. Scrive Giannone in veste di paziente: «Nella mia adolescenza mancò poco che non tornassi in quello stato nel quale fui prima di nascere, poiché, infermato di febbre ancorché non gravemente, il medico, poco riflettendo sul mio gracile temperamento, mi diede una purgagione con antimonio superiore alle mie forze; sicché poco mancò che non esalassi l’anima tra le braccia della mia cara madre».
Le ragioni della scienza chimica non sempre coincidevano con quelle della salute. Nello stentato procedere della medicina seicentesca, c’era il riscontro con una scienza rivoluzionaria che nei suoi primi passi sul terreno della pratica medica commetteva qualche errore. Errori che le venivano imputati come inevitabili conseguenze del suo essereeterodossa, eretica e vituperabile come ciarlataneria.
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