A Napoli nessuno conosce Ferdinando I né Ferdinando IV...ma in compenso tutti conoscono Re Nasone. Re Nasone salì al trono fanciullo, come Luigi XIV e morì altrettanto vecchio. Regnò dal 1759 al 1825, cioè 65 anni, compresa la minore età... Si trovò mescolato a quel dramma gigantesco che sconvolse il mondo da Lisbona a Mosca e da Parigi al Cairo. Re Nasone non aveva ricevuto educazione alcuna: aveva avuto il principe di San Nicandro che non avendo saputo mai nulla, non aveva ritenuto necessario che il suo pupillo sapesse più di lui... Così, durante la sua vita, Re Nasone, non aperse mai un libro e non lesse mai una memoria. Quando fu maggiorenne lasciò regnare il suo ministro; quando fu sposato, lasciò regnare sua moglie. Non poteva fare a meno di assistere ai consigli di stato; ma aveva proibito che vi comparisse un solo calamaio per tema che la sua vista potesse trascinare a scrivere. Rimaneva la sua firma, che non poteva fare a meno di dare una volta al giorno. Napoleone nello stesso caso aveva ridotto la sua a cinque lettere e poi a tre e finalmente a una sola. Re Nasone fece di meglio: apponeva un timbro.
Alexandre Dumas
Nel 1759 morì il re di Spagna, Ferdinando VI, e il fratellastro, Carlo III di Napoli, fu chiamato a succedergli. Si dice che per Carlo fu un giorno di lutto; sicuramente lo fu per Napoli, sinceramente affezionata a questo re rustico e di modi semplici che le aveva restituito il suo rango di capitale.
Prima di partire per la Spagna, Carlo riunì un’assise di nobili, alti funzionari, medici e ambasciatori stranieri perché constatassero “lo stato di demenza in cui si trovava il suo reale figlio primogenito” e riconoscessero come principe ereditario di Spagna il secondogenito Carlo Antonio e come re di Napoli il terzogenito Ferdinando.
Quest’ultimo era nato a Napoli nel 1751, aveva, quindi, solo otto anni quando il padre lo liberò con cerimonia solenne dalla propria tutela in modo da rendere chiaro fin da quel momento “che non desidero esercitare alcuna autorità su un figlio che diventa sovrano indipendente in Italia come io lo sono in Spagna”.
L’addio della città a Carlo III fu commosso e commovente: tutti piangevano, l’unico volto allegro era quello di Ferdinando che, scrisse l’ambasciatore francese, “non ha versato una lacrima e anzi non nascondeva la sua contentezza di restarsene a Napoli.”
Il presidente del Consiglio di Reggenza, destinato a restare in carica fino alla maggiore età del nuovo re, era il Principe di San Nicandro ma si trattava soltanto di una controfigura. L’anima di quel supremo consesso era il Primo Ministro Tanucci: Ferdinando accettava le decisioni del suo primo ministro senza neanche discuterle, perché di discutere non aveva nessuna voglia. Da bambino, con la sua vivacità, prometteva bene ma dall’adolescenza in poi era cresciuto soltanto di scheletro fino a raggiungere l’altezza di un granatiere, di cervello era rimasto bambino.
Anni dopo il cognato Giuseppe II, in una lettera da Napoli a sua madre, l’imperatrice Maria Teresa, ne dava colpa a Tanucci che, secondo lui, aveva fatto impartire una cattiva educazione a Ferdinando per inabilitarlo al potere e restarne il padrone. Che il Tanucci si fosse poco preoccupato del Principe e della sua educazione è vero ma anche una pedagogia più accurata non avrebbe potuto cavare di più da un essere cui madre natura aveva negato qualsiasi senso di responsabilità.
Ferdinando non era stupido, era solo totalmente refrattario a qualsiasi serio impegno a cominciare da quello dello studio. Non riuscì mai ad andare oltre le quattro operazioni aritmetiche, né ad imparare una lingua, neanche quella italiana. Parlava solo napoletano; frequentava gli scugnizzi di strada; passava la giornata con loro a cacciare, a pescare e a rivendere pesce e selvaggina al mercato. Queste abitudini gli valsero l’affettuoso nome di “Re Lazzarone”. Anche quando salì al trono, con il nome di Ferdinando IV, non cambiò le sue abitudini rifiutandosi di occuparsi degli affari di Stato; anzi per risparmiarsi anche la fatica di sottoscrivere i documenti, fece fare un timbro con la sua firma e lo dette al Tanucci perché l’apponesse dove voleva.
In realtà il vero Re di Napoli era ancora Carlo, che seguitava a governare attraverso il fidatissimo Tanucci, che lo teneva al corrente di tutto.
...Carolina
Nel 1767 Carlo decise che Ferdinando doveva sposarsi per assicurare la successione al trono e la sposa la scelse nella nidiata di figlie di Maria Teresa d’Austria: il turno toccava a Maria Giuseppina, che però poco prima di partire per sposare Ferdinando si ammalò di Vaiolo e morì.
Il suo posto fu preso da Maria Carolina affettuosamente chiamata Carlotta in famiglia. Carolina era nata a Vienna nell’agosto del 1752 e aveva sedici anni quando, sposata come al solito per procura, intraprese il suo viaggio verso Napoli. Ferdinando l’aspettava alla Portella e rimase senza fiato nel vedere la sposa, tanto era bella, maestosa e regale. Anche lei rimase senza fiato, ma solo per la rozzezza di lui: “mio marito è ripugnante” scriveva Carolina alla sua ex governante a Vienna.
Non avevano nulla in comune, neanche la lingua, perché lei parlava un italiano perfetto e lui soltanto il napoletano.
Nell’interno del palazzo un cortigiano maligno aveva affisso la scritta: "Essa lo cambierà o lui la gusterà” e nei primi tempi l’alternativa fu incerta. Carolina aveva ricevuto un’eccellente educazione moderna e a Vienna aveva respirato l’aria dell’illuminismo; cercò, quindi, di convertire quel suo zotico marito ai propri interessi intellettuali costringendolo a subire la compagnia della poca gente colta che c’era a Napoli e imponendogli di frequentare l’opera seria al San Carlo. Ferdinando la seguiva come un cane al guinzaglio ma per ingannare la noia durante gli spettacoli si faceva servire gli spaghetti e si metteva a mangiarli alla napoletana, cioè senza forchetta, fra i divertiti applausi della platea. Una volta Maria Carolina, indignata, si alzò di scatto e uscì. Ferdinando seguitò a mangiare: ormai aveva superato quel senso di soggezione che aveva avuto all’inizio per quella moglie regale.
La migliore descrizione di questo stravagante personaggio e dei suoi bizzarri costumi ce l’ha lasciata, in una lettera alla madre, suo cognato Giuseppe II, quando venne a Napoli a trovare la sorella: “ Alto un metro e ottantacinque, scarno e ossuto, con la schiena curva, dondola sulle gambe troppo deboli per il peso del corpo massiccio. Ha grosse braccia, grossi polsi e grosse mani sempre sudice. La testa è piccola con una selva di capelli color caffè, che non incipria mai. Il naso via via che si distacca dalla fronte, si gonfia in una palla, fino alla bocca larghissima e col labbro inferiore molto sporgente. Per quanto brutto, non è del tutto repulsivo. Sta quasi sempre vestito nel suo costume di caccia con un cappello tirato giù da ogni parte, un giaccone di pelo grigio con le tasche che scendono fino a mezza gamba, calzoni e panciotto di cuoio e un coltello lungo come una baionetta”. Giuseppe tentò invano d’intavolare con lui un discorso serio: il re s’interessava solo di barzellette basate sulle burle e le bastonature; la sua attività più impegnativa erano le manovre che ogni mattina faceva eseguire a un battaglione nel cortile del palazzo: “Non riuscii a capire a cosa servono questi esercizi. I tamburi e i pifferi fanno un baccano infernale, maggiorato dalle urla del re che impartisce ordini ridendo, dimenandosi e assestando piattonate con la sciabola sulla schiena di chi sbaglia. Poi arriva il vivandiere su cui tutti, buttate via le armi, si avventano, strappandosi di mano cibo e vino”. Ferdinando credeva ciecamente in San Gennaro ma non conosceva i dieci comandamenti; andava a letto con la spada perché aveva paura del buio e non voleva mai restar solo. L’imperatore raccontò alla madre che uno degli spassi preferiti del re era quello di assestare tremendi pizzichi nel sedere alle dame di corte, d’introdurre topi vivi nei loro scolli e di riempire di gelati e marmellata le tasche dei loro mariti.
Una sera che la regina cantava al clavicembalo egli ci pregò di fargli compagnia mentre stava seduto sul vaso. Facemmo conversazione per più di mezz’ora e io pensavo ch’egli sarebbe rimasto seduto lì, coi pantaloni calati, Dio sa per quanto…non mancò di darci i dettagli dell’operazione, anzi voleva perfino mostrarcene i frutti, poi sempre coi pantaloni calati e col vaso in mano si mise a rincorrere due dei suoi ospiti che scappavano. Lampi di luce sui costumi di un secolo, che grazie alle sue parrucche e ciprie e merletti e nèi e cicisbei, passa per raffinato e sofisticato.
I tentativi di Carolina per incivilire quel suo zotico marito erano falliti. Alcuni storici dicono che a questo fiasco aveva avuto molto peso il Tanucci, ben felice che la regina non acquistasse su Ferdinando un ascendente che potesse far concorrenza al suo. La regina lo detestava: Tanucci rappresentava Carlo III, vale a dire il vincolo che subordinava Napoli alla Spagna. Per Tanucci Carolina rappresentava, invece, la lunga mano degli Asburgo per attrarre il reame nell’orbita della sua famiglia austriaca.
Tutte le riforme del Tanucci che avevano provocato scontentezze tra i nobili, furono strumentalizzate da Maria Carolina. La lotta fra i due fu molto accesa ma alla fine ebbe la meglio la regina, grazie ad una piccola clausola che la previdente Maria Teresa aveva fatto inserire nel contratto di nozze della figlia: dal momento in cui fosse nato un erede maschio, Carolina sarebbe stata ammessa alle riunoni del governo in modo da familiarizzarsi col potere nel caso di una sua reggenza. Ora l’erede c’era e ad esso ne seguirono anche degli altri (questa coppia incompatibile ebbe ben diciotto figli) e Tanucci non potè impedire la scalata di Maria Carolina alla “stanza dei bottoni” e da quel momento la sua sorte fu segnata. L’oramai ottuagenario ministro fu licenziato dopo quarantadue anni di fedeltà alla corona e con mala grazia. Si ritirò disgustato in campagna e morì lasciando un irrisorio patrimonio. Carlo III ne fu indignato e ingiunse al figlio di sostituire il Tanucci con una persona altrettanto fedele e leale: La Sambuca. Anche La Sambuca fu subito inviso a Carolina che era ben decisa a fare di Napoli una potenza asburgica.
Iniziava così il lungo regno di Maria Carolina che storici soprattutto italiani e francesi avrebbero con concorde giudizio condannato.
“L’avversaria implacabile della rivoluzione, la nemica mortale di Napoleone, la furia scatenata contro l’una e l’altro” fu giudicata un’intrigante accecata dall’odio, una caparbia ed infida persecutrice di quegli ideali nuovi che proprio durante il suo regno trovarono interpreti e martiri. Ci riuscirebbe difficile capire la stima che ebbe per lei la madre se non pensassimo che Maria Carolina continuò semplicemente la politica di famiglia di assolutismo illuminato imperniato su alleanze dinastiche, ma quando i tempi avevano già superato quelle forme ed erano ormai maturi per altro. Educata alla corte viennese, sorella di sovrani filosofi quali Giuseppe II e Leopoldo II, ella promosse le riforme proteggendo anche la massoneria. Ma quando scoppiò in Francia la rivoluzione, che costò la vita alla sorella Maria Antonietta, divenne l’anima della reazione a Napoli e fu la maggiore responsabile dei massacri del 1799, in cui persero la vita quasi tutti i più grandi uomini del regno. Nel Rapporto del commissario francese Garat al ministro degli Esteri francese (1798), conservato al Quai d'Orsay, si può leggere:
Il re di Napoli conserva tra i quadri del suo Palazzo, la rappresentazione della morte di Luigi XVI e di sua moglie; in basso c'era scritto per mano della regina: "Giuro di perseguire la mia vendetta fino alla tomba!.
Lo storico André Bonnefons così descrive Maria Carolina: “la figura incantevole, lungo l’ovale del viso, i tratti superbi, emanava da tutta la sua persona un non so che d’inebriante e di voluttuoso, capace di turbare i più indifferenti”. Maria Carolina in realtà non era civetta o voluttuosa; non era neppure così bella e affascinante, tuttavia nature come la sua amano uomini decisi e risoluti, e tale non era Ferdinando.
Il confidente dei "guai" coniugali di Ferdinando era il padre Carlo III, al quale egli scriveva lettere disperate. Carolina rimaneva incinta regolarmente e regolava gli impacci della maternità affidando la propria prole a governanti ed istitutori; volera restare libera non solo di governare ma anche di divertirsi. Sappiamo infatti da una lettera di Ferdinando che quando Carolina restò incinta tre mesi dopo la nascita di Carlo, di un altro figlio, sfogò la propria rabbia contro il marito perchè lo riteneva colpevole della sua nuova gravidanza: ...diventò una furia, mi saltò come un cane sopra e mi prese anco una mano in bocca, per cui ne porto ancora i segni...a tavola fece anche di peggio, chiamando tutte le cameriste che sono zitelle, le quali altro non potevano vedere che lei gridava come un'aquila con termini anche niente decenti ed io col capo calato stavo sentendomi quei complimenti senza nemmeno aprir bocca.
Autoritaria, capricciosa e dissoluta, Carolina scelse i suoi collaboratori tra i favoriti. Fra costoro c’era un irlandese di nome John Acton che, dopo aver servito nella marina francese, aveva ereditato il posto dello zio che comandava la marina toscana. Maria Carolina chiese al fratello Leopoldo di mandarglielo per consigli e poi lo ingaggiò a titolo permanente, cosa di cui Leopoldo si dolse moltissimo. Tra i motivi che indussero la regina a giuocare quel brutto tiro al fratello c’era l’idea di fare di Napoli il caposaldo marinaro dell’Impero austriaco per il dominio sul Mediterraneo. A questo si aggiungeva anche il fascino dell’uomo, non bello, ma carico di sex-appeal. Con il suo stile compassato, Acton servì la regina ma più ancora se stesso e il suo paese.
La Sambuca cercò di aprire gli occhi al re ma non riuscì a cavarne altro che alcune reazioni di stizza: ogni tanto Ferdinando faceva qualche scenata alla moglie minacciando di farla sorprendere, pugnalare e gettare dalla finestra insieme al suo amante ma in fondo non chiedeva di meglio che di essere liberato dagli impegni del potere e dall’incombente presenza di quella moglie esigente. Non tentò nemmeno di discolpare La Sambuca quando la regina e il suo favorito decisero di sbarazzarsene incriminandolo per alto tradimento, sottraendogli perfino la corrispondenza privata. Non ci trovarono nulla e dovettero contentarsi di un licenziamento in tronco come con il Tanucci. Per evitare rappresaglie da parte di Carlo III, il suo posto fu preso non da Acton ma dal marchese Caracciolo, buon economista, che fece quel che potè, dato il dissesto in cui versavano le finanze del Reame, drenate dalle spese di riarmo.
Quando Caracciolo morì, il governo venne ristrutturato secondo un organigramma che concentrava tutto il potere nelle mani di Acton che si contentò formalmente del titolo di generale.
La politica estera del Reame si distaccò da Madrid per orientarsi su Vienna e fu la sola politica che ebbe questo reame totalmente sordo ai problemi interni. Tutto l’interno del Regno rimase abbandonato a se stesso, conteso fra baroni e briganti con una struttura sociale articolata in due sole classi, i servi e i padroni, l’una più ignorante dell’altra. Neanche il Tanucci era riuscito a risolvere questi problemi; aveva avviato però qualche riforma, liberando lo Stato da qualsiasi ipoteca clericale e riducendo l’opulenza del clero. Aveva laicizzato e resa obbligatoria e gratuita, almeno su carta, l’istruzione elementare. La Sambuca fece qualcosa anche lui in questo campo, concedendo più finanziamenti all’Università e istituendo nuove cattedre ma tutto si fermò qui.
Quando Ferdinando si recò in visita in Toscana presso il cognato Leopoldo, questi gli chiese quante riforme aveva fatto a Napoli. “Nessuna” rispose il re, che poi a sua volta chiese: “Ma quanti napoletani hai al tuo servizio?” “Nessuno” rispose l’altro. “Io invece al mio servizio ho trentamila toscani, i quali si vede che, con tutte le tue riforme, nel Granducato non hanno da mangiare” ribattè Ferdinando.
Sotto il regno di Ferdinando furono portate a termine le opere iniziate da Carlo III: gli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, la fabbricazione delle porcellane, Il Museo Nazionale di Capodimonte e La reggia di Caserta, capolavoro del Vanvitelli. Di suo Ferdinando fece una sola cosa: il teatro dell’opera buffa che prese il suo nome come quello dell’opera seria prese il nome di suo padre. I due teatri esemplificano come meglio non si può la differenza tra i due personaggi.