“La pace, mia cara bambina, è meglio di ogni altra cosa al mondo. Tuttavia per difenderla, occorre essere disposti anche a fare la guerra”.
(Eugenio di Savoia alla futura Imperatrice Maria Teresa d’Austria)
Napoleone Bonaparte collocò Eugenio di Savoia fra i sette più grandi condottieri della storia, insieme ad Alessandro Magno, Annibale, Cesare, Gustavo Adolfo di Svezia, Henri Turenne e Federico il Grande.
Voltaire scrisse che Eugenio “ scosse la grandezza di Luigi XIV e della potenza ottomana, governò l’impero e, nonostante tutte le vittorie e gli incarichi ricoperti, sdegnò le tentazioni sia del fasto che della ricchezza”. Su quest’ultima virtù ci sarebbe da avanzare qualche riserva, considerando il patrimonio che il principe lasciò alla sua morte. Sicuramente Eugenio scosse la grandezza del Re Sole e della potenza ottomana e la sua carriera non conobbe ostacoli.
I primi anni
Figlio di Eugenio Maurizio di Savoia-Carignano, conte di Soissons e di Olimpia Mancini, Eugenio di Savoia nacque a Parigi il 18 ottobre 1663.
Gli storici concordano nel ritenere che la vita del principe fu fortemente influenzata dalle vicende familiari. Sua madre era nipote del cardinale Mazzarino e per lungo tempo fu in intimi rapporti con Luigi XIV (per molti ne fu anche l’amante). Nominata Dame d’Atour de la Reine, sovrintendente della Casa della Regina, con il compito di custodire i gioielli e il guardaroba della sovrana, Olimpia cadde in disgrazia con l'accusa di avere tentato di avvelenare la regina Maria Teresa (vedi l’Affare dei veleni), e fu costretta a riparare all’estero.
Sicuramente Eugenio covò dei risentimenti nei confronti di Luigi XIV e fu animato dal desiderio di riscattarsi dalle tante chiacchere che aveva ascoltato sulla propria madre e sulle proprie zie (le sorelle di Olimpia, vedi Mazzarinette).
Ma le chiacchere sulla sua famiglia continuarono a perseguitarlo: le sue due sorelle (una terza era morta bambina) Maria Giovanna Battista e Luisa Filiberta, dopo essere state allontanate dalla corte a causa del loro discutibile comportamento, trasformarono palazzo Soissons in un vero e proprio bordello e anche se bruttine ebbero parecchi amanti. Maria Giovanna, che era claudicante, mise al mondo un numero impressionante di figli illegittimi dei quali non era neppure in grado di indicare chi fosse il padre. Persino Olimpia arrivò a descrivere la figlia come “la più spregevole di tutte le cretature”.
Tutto questo segnò profondamente il carattere del giovane Eugenio che, gracile di costituzione e avviato alla carriera ecclesiastica da Luigi XIV, meditò a lungo di farsi abate, guadagnandosi il soprannome che gli rimase cucito addosso per tutta la vita di “Piccolo abate”. Se scelse infine la carriera militare fu anche per schierarsi contro il re di Francia, nei confronti del quale maturò, con il passare del tempo, una sorda avversione.
Eugenio non era bello e infatti la duchessa d’Orléans lo descriveva così, quando era ancora un ragazzo: “Non è di bell’aspetto o di portamento distinto. È vero che gli occhi non sono brutti, ma il naso gli rovina la faccia; ha due grandi denti, che sporgono in fuori. È sempre sporco e ha lunghi capelli che non pettina mai…è piccolo e di aspetto sgradevole, con il naso rivolto all’insù, larghe narici e un labbro superiore tanto stretto da impedirgli persino di chiudere la bocca.”A tutto questo va aggiunto il volto segnato dal vaiolo che Eugenio contrasse in età matura. La duchessa d’Orléans fu anche la prima a mettere in circolazione voci compromettenti sulle abitudini sessuali del principe: “Non si trova bene con le donne; una coppia di paggi giovani e belli sembra essergli più congeniale”.
Una rapida ascesa
Nel 1683 Eugenio chiese al re di Francia di entrare nell’esercito francese ma senza ottenere risposta. Così dopo la morte del fratello Luigi Giulio, comandante di un reggimento di dragoni dell’impero, il principe fuggì da Parigi in abiti da donna e si pose sotto la protezione di Leopoldo I d’Asburgo.
Pochi mesi dopo ottenne lo stesso grado e lo stesso reggimento del fratello; aveva appena vent’anni ma non avendo i soldi per poterlo accettare chiese un prestito al cugino, Vittorio Amedeo di Savoia, e da allora iniziò la sua incredibile ascesa.
Nel 1685 fu promosso maggiore generale e l’anno successivo si conquistò anche fama di eroe durante la presa di Buda, difesa dai turchi di Abdi Pascià: fu ferito in combattimento due volte e il suo cavallo fu ucciso sotto di lui.
Nel 1687 venne nominato luogotenente generale e proprio in quel periodo il principe maturò le sue personali idee sulle strategie militari. Fu per questo motivo che entrò in conflitto con alcuni generali imperiali che avevano una visione molto diversa dell’arte bellica.
Federico il Grande, suo ammiratore, scriveva: “Il principe Eugenio soleva dire che ogni volta che un generale era alieno dall’intraprendere qualche cosa, la sua migliore linea di condotta fosse quella di convocare un consiglio di guerra; ciò è verissimo, perché l’esperienza mostra che in tale consiglio la maggioranza è sempre favorevole a una politica attendista”.
Le guerre, alla fine del seicento avevano ritmi e rituali molto precisi: si combatteva dalla primavera all’autunno (e questo spiega perché durassero tanti anni); in inverno erano quasi impossibili i grandi spostamenti degli eserciti, viste le condizioni stradali del tempo; i mesi di pausa venivano sfruttati per reclutare nuovi soldati; non si faceva appello all’amor di patria perché tale concetto nacque in epoca romantica. Gli eserciti di allora erano multinazionali e l’unica ragione di arruolamento era rappresentata dalla paga e dall’opportunità di mangiare per qualche mese, aggiunta alla speranza di mettere le mani su un bottino di guerra. I governi però corrispondevano le paghe con scarsa puntualità e ciò era causa di ribellioni e rivolte. I vecchi generali si abbandonavano all’ozio e giocavano alla guerra come se muovessero gli scacchi, si accontentavano di cingere d’assedio una città e di bivaccare all’esterno di essa, senza correre rischi inutili.
Eugenio di Savoia scompaginò questi schemi: combatteva in prima fila, bruciava i tempi, per prendere di sorpesa il nemico, sottoponeva i propri eserciti a marce forzate, rischiava in prima persona, chiedeva sacrifici ai propri soldati ma sapeva anche come entusiasmarli.
Un soldato raffinato
Il ritratto più eccittante di Eugenio di Savoia, e di William Thacheray, lo scrittore inglese del XIX secolo che non aveva avuto la fortuna di conoscere il principe, ma che si occupò della sua figura nel romanzo storico “La storia di Henry Esmond”:“…era preda di una specie di raptus guerriero: gli occhi lampeggiavano, si lanciava come una furia all’assalto, gridava insulti ed esortazioni, incitando i suoi sanguinari cani da caccia, egli stesso sempre il primo alla caccia”.
Sicuramente in queste parole c’è molta enfasi: il principe Eugenio era un grande condottiero, era “il primo alla caccia” e infatti fu ferito tantissime volte in combattimento, ma non gridava insulti; era anzi una persona cortese, di modi raffinati e di solito intratteneva rapporti cordiali e persino di amicizia (e comunque di rispetto), con i generali nemici. Era insomma un soldato aristocratico, un capitano di ventura come molti soldati del tempo; nelle sue vene scorreva sangue italiano e sangue francese ma legò il suo destino all’Austria combattendo contro i francesi su suolo italiano.
Ai suoi ordini si battevano tedeschi, italiani, francesi, spagnoli, slavi ed ungheresi; era talmente circondato da culture diverse che si firmava Eugenio von Savoy: un po’ italiano, un po’ tedesco e un po’ francese. Parlava correntemente il francese, la sua lingua madre, ma anche l’italiano; conosceva il latino e lo spagnolo ma pochissimo il tedesco e quasi nulla l’inglese.
Trascorse due terzi della sua vita (morì a 73 anni) impegnato nelle campagne di guerra, ma trovò ugualmente il tempo per dedicarsi all’arte e alle letture. La sua biblioteca era una delle più ricche dell’epoca: quindicimila volumi tutti rilegati in marocchino, con il suo stemma inciso in oro. La sua pinacoteca raccoglieva capolavori di Guido Reni, della scuola di Raffaello, di Giorgione, Tiziano, Holbein, Guercino, Correggio. Raffinato umanista, fu amico dei maggiori pensatori e letterati del tempo come Leibniz e Giannone.
Le imprese al servizio dell’impero
Distintosi contro la Francia nella prima fase della guerra d’Augusta, fu nominato feldmaresciallo dopo il successo riportato nella battaglia di Zenta (1697), il suo primo capolavoro di strategia.
L’esercito era in pessime condizioni e i soldati non venivano pagati da diversi mesi, mancavano le munizioni, gli indumenti erano ridotti a brandelli e i viveri scarseggiavano ma Eugenio riuscì a ridare fiducia ai suoi uomini e a riorganizzare il fronte in poche settimane.
L’impresa non fu certo facile se si considera che gran parte dei soldati erano mercenari interessati unicamente a sbarcare il lunario e per nulla disposti a rischiare la vita.
La vittoria di Zenta fu determinata dalla grande capacità di Eugenio di prendere immediate decisioni e di ottenere dai suoi uomini sacrifici fuori dal comune; il suo carisma era tale che nessuno dei soldati si lamentò per la fatica. Il principe dava l’esempio mostrandosi sereno e deciso. L’ unico segno di nervosismo che i soldati riuscivano a percepire era nelle prese di tabacco che Eugenio fiutava nei momenti più difficili: teneva il tabacco in una tasca dei pantaloni, senza la protezione di una scatola.
L’attacco fu sferrato all'imbrunire e pur disponendo di forze inferiori il principe accerchiò i giannizzeri e fu una carneficin. I turchi lasciarono sul campo 20mila morti, 10mila annegarono nel Tibisco, tremila furono fatti prigionieri mentre l’esercito imperiale subì perdite limitatissime.
Come trofeo di guerra Eugenio si impadronì del gran sigillo che il sultano portava al collo e ricevette dall’imperatore possedimenti tra il Danubio e la Drava e il permesso di costruire a Vienna il palazzo del Belvedere.
Quando scoppiò la guerra di Successione Spagnola (1701), Eugenio ricevette il comando delle forze imperiali inviate in Italia per la conquista del Milanese, obbiettivo che non riuscì a raggiungere, nonostante le vittorie conseguite contro gli eserciti francesi a Carpi, a Chiari (1701) e a Luzzana (1702).
Nel 1703, domata la rivolta ungherese, ottenne la nomina a presidente del consiglio aulico di guerra; l’anno successivo partecipò col duca di Malborough alla vittoriosa battaglia di Blenheim.
Blenheim
Blenheim è un luogo che non esiste, anche se la battaglia nella quale Eugenio e il duca di Malborough (comandante delle truppe inglesi e olandesi) sconfissero i francesi di Tallard e Marsin e l’elettore di Baviera, viene generalmente ricordata con questo nome. La battaglia in realtà si svolse a Hochstadt, in Baviera. I combattimenti più accaniti avvennero in un villaggio, che si chiama Blindheim, e che gli inglesi anglicizzarono in Blenheim. Come ricompensa per la vittoria il governo inglese fece costruire un castello per il duca di Malborough, vicino Woodstock. E in ricordo della vittoria, la tenuta fu chiamata “Blenheim”. Il viale alberato del parco corrisponde all’ordine di battaglia di Hochstadt e il palazzo è ancora proprietà della famiglia Churchill.
La battaglia fu un trionfo e infatti all’indomani il duca di Malborough scriveva alla moglie Sarah: “Non posso finire la mia lettera senza essere tanto vanitoso da dire alla mia carissima anima che, a memoria d’uomo vivente, non vi è stata alcuna vittoria grande come questa”.
Gli storici, in effetti, concordano nel ritenere che la battaglia modificò il corso della storia. Se i francesi avessero vinto, avrebbero conquistato Vienna e il potere di Luigi XIV non avrebbe avuto bilanciamenti in Europa.
Durante la battaglia due episodi mostrarono di che pasta fossero fatti i due condottieri alleati: Malborough sorprese uno dei suoi generali che si ritirava con i suoi cavalleggeri. “Signore”, lo apostrofò con flemma britannica, “state commettendo un errore: il nemico e dall’altra parte”. Eugenio fece fucilare due soldati che fuggivano e poi, rendendosi conto delle difficoltà della fanteria, ne assunse personalmente il comando lasciando il proprio cavallo.
L’assedio di Torino
Nel 1705 Eugenio di Savoia fu sconfitto dal generale Louis Joseph Vendome (suo cugino di primo grado in quanto figlio di Laura Mancini sorella di Olimpia) a Cassano d’Adda.
Subito dopo (1706) corse in aiuto del cugino, Vittorio Amedeo di Savoia, per costringere i francesi ad abbandonare Torino, messa sotto assedio.
Fu durante l’assedio di Torino, negli ultimi mesi del 1705, che il minatore Pietro Micca fece esplodere un deposito sotterraneo di polveri, sacrificando la propria vita, ma anche quella di molti francesi.
Giunto in appoggio alle truppe del duca Vittorio Amedeo, Eugenio conquistò una vittoria memorabile aggirando gli assedianti. A presidiare la città c’era una guarnigione di diecimila piemontesi al comando del conte Daun. Quando le truppe dei Savoia investirono in pieno i francesi, che non si aspettavano l’attacco, anche Daun potè uscire dalla città e mettere in fuga i francesi che ripararono verso Pinerolo.
In memoria di quella vittoria il duca di Savoia fece erigere la basilica sul colle di Superga.
Malplaquet
Di nuovo a fianco del duca di Malborough Eugenio vinse le battaglie di Oudenaarde (1708) e di Malplaquet (1709).
Gli storici ritengono che Malplaquet sia la dimostrazione dell’inutilità delle guerre. Fu un massacro senza precedenti, più di trentamila morti nella somma fra i due eserciti. Il comando alleato era per l’ennesima volta affidato al principe Eugenio e al duca di Malborough che avevano ai loro ordini un esercito di oltre 100mila uomini. In questa occasione brillarono in maniera particolare la sagacia tattica e il coraggio di Eugenio, che fu anche ferito.
Ma la battaglia fu talmente dura che nel momento in cui i francesi di Villars e Blouffers si ritirarono, gli alleati era così sfiniti da non avere la forza di inseguirli e di dare quindi consistenza alla loro vittoria.
Fu l’ultima impresa militare di Malborough che al suo rientro in patria subì pesanti critiche e fu soprannominato “il macellaio di Malplaquet”.
Un generale, Lord Orkney, lasciò scritto: “Prego Iddio che questa sia stata la mia ultima battaglia”.
Link correlati: L'assedio di Torino del 1706
Gli ultimi anni
Quando gli alleati dell’Austria abbandonarono la coalizione con il trattato di Utrecht nel 1713, Eugenio dovette arrestarsi su posizioni definitive che gli costarono la perdita delle città di Landau e Friburgo, sancita nel 1714 dalla pace di Rastatt da lui stesso negoziata.
Con la ripresa dell’offensiva turca Eugenio sbaragliò gli ottomano a Petervaradino (1716), quindi cinse d’assedio e conquistò Belgrado (1717) costringendo la Porta alla pace di Passarowitz (1718). Negli anni che seguirono diresse il riordinamento amministrativo e militare negli ex territori turchi e riorganizzò l’esercito asburgico che ebbe ancora modo di comandare, sul fronte secondario del Reno, durante la Guerra di Successione Polacca (1733-1735). Oramai lontano dai campi di battaglia per la malferma salute, Eugenio studiava dal Belvedere le carte che gli inviavano i messaggeri sempre più spaventati dalle sconfitte ai confini dell’impero. Alla fine Carlo VI fu costretto a patteggiare un armistizio ma la mattina del 21 aprile 1736, Eugenio fu trovato morto, compostamente vestito e seduto in poltrona, da una cameriera. La sera prima aveva discusso animatamente in Consiglio, polemizzando ancora una volta sulla cessione della Lorena alla Francia e sull’affronto crudele al quale era stato obbligato Francesco Stefano di Lorena, genero di Carlo VI.
Nell’arco di mezzo secolo Eugenio di Savoia prestò servizio sotto tre imperatori: Leopoldo I, Giuseppe I e Carlo VI.
Gli fu attribuita questa frase che riassumeva il rapporto che ebbe con i tre Asburgo: “Leopoldo mi fu padre, Giuseppe amico, Carlo padrone” ma molti osservatori dell’epoca ritenevano che in realtà fosse il principe a governare l’impero. Accolto come un parente negli appartamenti privati dell’imperatore, Eugenio rimase fedele alla Erzhaus (alla corona) per tutta la vita.
A dispetto delle voci che tanti anni prima la duchessa d’Orleans aveva messo in giro sul conto del principe, va ricordata la grande amicizia che legò Eugenio alla contessa Batthiany, vedova di un nobile ungherese. Si mormorava persino che i due figli della nobildonna fossero di Eugenio. Di sicuro il principe le dedicò moltissimo del suo tempo.
Il Belvedere
Alla fine del XVII secolo, con le ricompense per le vittorie contro i turchi, Eugenio di Savoia aveva acquistato un appezzamento di terreno a Weinberg, vicino Vienna, con il proposito di costruirvi, secondo la moda del tempo, una dimora estiva.
Ci vollero 25 anni perché i due edifici, il Belvedere inferiore e il Belvedere superiore, fossero completati. La realizzazione dell’opera fu affidata all’architetto Lucas von Hildebrandt, che aveva già concluso i lavori del Palazzo viennese di Eugenio, dopo le dimissioni dell’architetto di corte, Johann Bernhard Fischer von Erlach, che ne aveva curato il progetto.
Il nome di Belvedere è successivo, gli fu dato dall’imperatrice Maria Teresa ,che conosceva il principe fin dall’infanzia, quando nel 1752 acquistò il complesso dalla nipote di Eugenio, Anna Vittoria di Savoia, erede universale dei beni del principe.
Quando entrò in possesso della dimora alla morte dello zio, Vittoria non ebbe alcuno scrupolo nel disperdere le preziose collezioni d’arte contenute al suo interno al solo scopo di realizzare le somme di denaro che le occorrevano per mantenere un tenore di vita regale. La collezione di quadri fu in massima parte venduta a Carlo Emanuele di Savoia e ciò spiega come molte opere siano finite nelle gallerie di Torino.
Il Belvedere ospitava un giardino zoologico, famoso in tutta Europa, nel quale erano raccolte cinquanta diverse specie di mammiferi esotici e una biblioteca che fu acquistata dall’imperatore Carlo VI e che divenne la parte più importante della biblioteca imperiale. Appassionato lettore e valente umanista il principe aveva confidato ad un ambasciatore inglese: “Posso vivere assolutamente felice con un reddito di diecimila fiorini: ho una tale abbondanza di libri eccellenti che non potrò mai annoiarmi”.