“Ed ecco che apparve ai miei occhi un cavallo livido, chi lo cavalcava era chiamato Peste e Ade lo seguiva”. (Apocalisse di San Giovanni)
Premessa
Inesorabile, allucinante, insostenibile, la peste ha crocifisso l'umanità per millenni, un flagello che esprime nella sua etimologia quel potere che le aveva conferito l' Apocalisse, “di sterminare un quarto della terra.”
Storici e demografi hanno a lungo misconosciuto e sottovalutato il suo carattere primordiale, quello di non essere una malattia umana: malattia propria dei roditori, la peste può accidentalmente colpire l'uomo. Per non avere tenuto presente questo carattere essenzialmente animale del morbo, molti storici del passato si sono troppo spesso smarriti in interpretazioni erronee sull'apparizione della malattia, come cercare, per esempio, relazioni tra condizioni climatiche, carestie e povertà. Ciò significa ignorare che, da sempre, la peste ha colpito indifferentemente, ricchi e poveri, forti e deboli, giovani e vecchi, uomini e donne.
I roditori di campagna e i roditori di città dipendono dalle stesse risorse alimentari dell'uomo, vivono negli stessi raccolti e degli stessi cereali; abbondanza o scarsità condizionano la densità della loro popolazione, dei loro territori, e dei loro spostamenti e, infine, lo sbocciare dell'epizoozia, preliminare obbligatorio per colpire l'uomo. Variando secondo la natura del suolo e delle colture, da parecchie decine a parecchie centinaia per ettaro, i roditori costituiscono il supporto invisibile, ignorato fino al 1894, attraverso il quale la peste è circolata, circola e circolerà sempre.
La mancanza di informazioni, se non frammentarie, sulla paleontologia dei roditori, la loro estensione, la natura della specie e la loro ripartizione nel mondo prima dei tempi moderni, spiega il perché l'uomo sia sempre stato impreparato ad affrontare la peste.
Si può dire che l'uomo abbia facilitato e determinato il propagarsi del morbo: l'agevolò con il suo abbigliamento e con le sue abitazioni, portando di giorno e di notte lo stesso vestito, praticando involontariamente ma sistematicamente l'allevamento della pulce come quella del pidocchio, quest'ultimo altrettanto capace di trasmettere la peste da uomo a uomo.
Fino al momento in cui, a partire dall'epoca barocca, non si generalizzò l'uso delle finestre di vetro, l'uomo, vivendo in case buie e mal riscaldate, favorì massimamente, quale sorgente di calore, l'attaccamento al suo corpo a al suo letto di questi freddolosi parassiti. In queste condizioni era sufficiente che una sola pulce di roditore infetto contaminasse un solo uomo perché questo con le sue pulci trasmettesse e moltiplicasse la malattia attorno a lui.
La peste a Milano (1630)
Nel Southern Literary Messenger, maggio 1835, Edgar Allan Poe, allora critico letterario di questo periodico, pubblicò un articolo sui Promessi Sposi e, scrisse fra l'altro:
“Le scene descritte dal Manzoni, ci danno cognizione di vera vita vissuta. Vorremmo offrire larghe citazioni di tali scene… Ma ci limiteremo ad un estratto più breve, come saggio della potenza espressiva di questo scrittore. È una pittura di alcuni fra gli orrori della pestilenza che devastò Milano nel 1630. E può anche servire a persuaderci che la pestilenza dalla quale fummo afflitti recentemente fu, al confronto, uno zuccherino”.
Certamente Poe non era tipo da lasciarsi scappare il terribile!
Alessandro Manzoni ci ha lasciato uno splendido affresco di Milano nella prima metà del Seicento e un'accurata ricostruzione storica dell'epidemia di peste che devastò la città nel 1630, il più grosso tributo che Milano pagò alla Guerra dei Trent'anni.
Con l'arrivo devastatore dell'esercito dei lanzichenecchi, alleato degli Spagnoli politicamente e militarmente, la popolazione fu sottoposta ad una autentica bufera e ad ogni sorta di violenza e saccheggio e quando l'esercito si ritirò, lasciò dietro di sé oltre che le devastazioni il terribile morbo.
“Cominciarono prima nel borgo di porta Orientale, poi in ogni quartiere, a farsi frequenti le malattie, le morti con accedenti strani, di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni, morti per lo più celeri, violente, repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia.”(Cap.XXI de I Promessi Sposi).
Secondo alcuni storici e memorialisti, fu un soldato italiano, militante nell'esercito tedesco, a portare a Milano la peste, era il 16 ottobre 1629:
“Pietro Paolo Lovato si parti di Giavena e vene a Mill.o er recapito nella Casa del Colonna in borgho di P. O. dove li stava una sua Madona la qualle se addimandava Sabetta lovatta et detto soldato si amalo et fu condoto a lo spedale Magg.re et fu scoperto mal Contaggioso et dalli e doj giorni morse et ne lo stesso Tempo si amallo il Colonna con uno bubone ne lanquinaia et morse. In tri giorni et il resto della sua famiglia fu condotto al lazareto Magg.re e questo e il Primo Casso che ocorso in Mil.o.”
Le prime vittime furono accertate nel territorio di Lecco e il primo ad accorgersene e a darne l'allarme alle autorità, sollecitando interventi precisi e rapidi, fu il protofisico (una sorta di ministro della Sanità) Ludovico Settala: ne aveva diretta esperienza essendo passato indenne per quella del 1576.
La gente invece sembrava non volere affrontare la realtà; si aveva così tanta paura della parola “peste” che invece di definirla tale la si definiva “febbre pestilenziale”.
Solo quando furono colpite le famiglie di due notabili, quella del Tadino (storico) e quella di Lutio Cotta, tutti riconobbero il flagello e la trascuratezza avuta nel gestirlo.
Le ricerche storiche recentemente condotte rivelano che il tribunale aveva posto al bando sessanta borghi, e ordinato la consegna di tutti i panni comperati dai tedeschi; il giorno successivo le bollette di sanità furono richieste per tutto lo Stato, tuttavia ogni provvedimento fu preso con lentezza burocratica e con sostanziale ritardo.
Il lazzaretto
Venne riaperto il lazzaretto che nel giro di pochi giorni si riempì di malati e moribondi; la sua area era compresa tra le attuali via Lazaretto, via San Gregorio, corso Buenos Aires, viale Vittorio Veneto.
Il lazzaretto (dal nome dell'isola di Santa Maria di Nazareth, con riferimento anche a lazzaro, lebbroso) era un locale o un gruppo di locali in cui veniva effettuato l'isolamento delle persone sospette di affezioni contagiose e tenute in osservazione per quarantena. Erano spesso situati fuori dall'abitato e circondati da mura invalicabili, dotati di una cappella ma assolutamente privi di servizi igienici.
In essi i malati erano praticamente abbandonati a se stessi per tutta la durata della degenza, in quanto la funzione del lazzaretto era principalmente quella di proteggere la popolazione dal contagio più che di guarire gli ammalati.
Il lazzaretto, data l'insipienza e l'inefficienza dei poteri politici, venne affidato alla direzione ed amministrazione dei padri cappuccini: questi si adoperano eroicamente per i malati e molti di loro persero la vita, prendendo la pesta a loro volta.
I sintomi della malattia
L'incubazione della malattia andava dalle 24 alle 5 ore; straordinariamente si protraeva sino ad 8 giorni; tuttavia chi ebbe occasione di trovarsi in un'epidemia di peste sapeva bene che, il più delle volte, la malattia insorgeva rapidamente.
La febbre, preceduta da intenso brivido, si faceva alta con cefalea, dolori ai lombi, spossatezza, arsura, nausea, a volte vomito.
Seguiva uno stato soporifero che presto diventava stordimento, fino alla perdita completa della coscienza.
Apparentemente in alcuni casi la manifestazione pestosa esterna si riduceva a pustole dolorose e a carboncini pestosi; generalmente compariva un bubbone, localizzato ordinariamente all'inguine e per lo più unico, poiché poteva manifestarsi al collo, all'ascella, alla piega del gomito.
Compariva, in genere, entro le dodici ore dai primi sintomi ed era tanto più dolente e virulento, quanto meno pronunziato: bubbone rosso scuro, livido, a superficie lucida, duro ligneo, che non consentiva palpazione per l'intensissimo dolore.
L'insorgenza del bubbone era sempre preceduta da dolore locale, che si andava intensificando sino all'esplicazione. Di rado il bubbone si riassorbiva spontaneamente; il più delle volte, se l'infermo non soccombeva in tempi brevi per setticemia, giungeva a suppurare dopo 12-15 giorni; si rammolliva con intensa infiammazione all'intorno e lo si poteva svuotare come un ascesso, dando luogo a fuoruscita di pus giallastro e cremoso; guariva con cicatrice estesa, dopo settimane.
La forma più grave era quella emorragica con localizzazione ghiandolare, accompagnata da abbandonati emorragie, da emottisi, da petecchie: ed era quella forma tutta particolare che gli antichi chiamavano peste nera o morte nera.
Al contrario c'erano delle forme fulminanti, specialmente negli alcolizzati, con esito letale prima ancora della comparsa delle manifestazioni locali.
Alle forme gravi si associava sempre una sintomatologia assai varia, data da disturbi visivi, fotofobia, sensazioni di freddo, senso di terrore, vomito incoercibile, sudore spastico; l'aspetto di un malato di peste assumeva in tali circostanze una maschera tutta propria, la facies pestica, caratterizzata da espressioni di terrore, occhi incavati, labbra tumide e aride, membra contratte. Questa forma, propriamente maligna, con stato tifoso e perdita della coscienza, che si protraeva sino alla morte, è quella del personaggio di Don Rodrigo.
Infine frequenti furono le manifestazioni di pazzia durante l'epidemia: persone che erravano sbandate, fuori di sé, sorridenti e allegre in tanto dolore.
Processioni e superstizioni
Il Governatore di Milano Ambrogio Spinola, impegnato nella Guerra dei Trent'anni, pressato dalle autorità politiche che richiedevano il suo intervento, rimandò tutto nelle mano del vice Governatore Ferrer che con tutte le altre autorità non seppe proporre altro che il ricorso al soprannaturale: tutti ormai speravano in un miracolo e perciò si fece pressioni sul cardinale Federico Borromeo, perché autorizzasse e guidasse una solenne processione per chiedere una grazia a San Carlo Borromeo. Federico, all'inizio esitante, alla fine cedette e la processione si svolse ampia e solenne per le principali strade di Milano: vi parteciparono tutti i cittadini che ancora si reggevano in piedi ma il contagio favorito dall'ammassamento scatenò in forma ancora più grave la forza delle peste e i malati aumentarono in forma impressionante; più esposti alla morte furono i bambini, gli anziani e le donne.
Nel lazzaretto c'era un via vai di malati e di morti avviati alle fosse comuni mentre la città era sinistramente attraversata da carri guidati dai monatti incaricati della raccolta dei malati e dei morti: si trattava di gente che aveva avuto la peste e ne era immunizzata; essi si abbandonavano a ruberie, a violenze e a scene orgiastiche e ad una sorte di sadico compiacimento.
Scene raccapriccianti di dolore e di morte: ovunque fetore di cadaveri, visioni di solitudine e di abbandono, serrati tutti gli usci, ovunque cenci, e segni di un progressivo imbarbarimento delle menti e dei costumi.
Federico Borromeo abbandonò la diocesi e scese per le strade in mezzo alla folla, istituì centri di pronto soccorso, distribuì medicinali, visitò lazzaretti ed ebbe per tutti una parola di conforto. Centinaia di altri ecclesiastici ne imitarono l'esempio, basta leggere le bellissime pagine del Manzoni sulla peste per cogliere in tutto il suo eroismo l'opera dei religiosi in favore delle vittime del contagio.
Ma la peste non fu solo un male di per sé, non seminò solo sofferenze e morte: scompigliò la vita mentale della gente avviandola verso le credenze più folli, verso l'irrazionalità.
Non trovando la vera causa dell'epidemia, la gente inventò la figura dell'untore, un individuo spinto da ragioni politiche e da perverse tendenze assassine ad imbrattare di cose unte le case e i luoghi pubblici: chi ne era toccato, prendeva la peste.
Questa caccia alle streghe, che il clero milanese non osò sconfessare, continuò ad inquinare la già ammorbata atmosfera. La popolazione superstite viveva nello stato d'animo di chi si sente costantemente e misteriosamente minacciato da un nemico subdolo e potentissimo. Tutti vivevano nella paura e il livello intellettuale si abbassò a tal punto che perfino persone di alto sentire come il cardinale Federico Borromeo e il Tadino finirono per cedere alla superstizione.
Il cardinale Borromeo è passato alla storia, grazie al ritratto che il Manzoni ne fece nel suo romanzo, come modello di vita cristiana, una personalità religiosamente ricca ma tutto questo non coincide con la figura storica di Federico, una personalità sì pia ma anche estremamente superstiziosa, credente nelle streghe e negli untori.
La Storia della colonna infame
In questo clima folle e irrazionale, si trovò il capro espiatorio nelle figure di Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, ingiustamente accusati di essere untori.
La vicenda ispirò Manzoni per la sua “Storia della colonna infame”, che uscì in appendice all'edizione definitiva de “I Promessi Sposi”.
Ma come andarono i fatti?
“La mattina del 21 giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donna chiamata Caterina Rosa , trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vedra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di Porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di San Lorenzo) …”. Così inizia il pamphlet del Manzoni ma, a proposito di lei, della protagonista, lo scrittore lascia cadere solo una parola sprezzante, “donnicciola”.
Sappiamo che la donna vide arrivare uno sconosciuto che aveva in mano un foglio di carta sul quale stava solo vergando delle parole. Fin qui nulla di strano ma a Caterina il fatto non solo sembrò strano ma sospetto e criminoso, anche perché l'uomo camminava rasentando i muri e ad un certo punto appoggiò le mani contro il muro che stava costeggiando.
In seguito il pover'uomo disse che se camminava lungo i muri era per ripararsi dalla pioggia, e quanto alle mani, voleva semplicemente pulirsele dall'inchiostro con il quale si era involontariamente sporcato scrivendo.
Ma nella testa di Caterina il gesto accese di colpo l'immagine dell'untore, un'idea presente in ogni strato della popolazione (ignoranti ma anche sapienti, non solo donnicciole ma anche medici, storici e poeti).
Denunciato da Caterina, arrestato dalle autorità, interrogato, torturato, il poveretto, che si chiamava Guglielmo Piazza ed era, oltrettutto, un commissario della Sanità, non trovò di meglio, nella speranza dell'impunità o forse solo per sottrarsi momentaneamente ai tormenti, che denunciare a sua volta un innocente, il barbiere Giangiacomo Mora, il quale, torturato, finì con il dire anche lui ciò che gli inquirenti volevano sentire.
I due poveretti furono condannati a morte dopo un'orrenda tortura: Quell'infernale sentenza portava che, messi su un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega; spezzate loro l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate ne fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame”; e si sa che la sentenza fu diligentemente eseguita.
Quanto a Caterina, testimone di una calunnia infame, fatta la sua parte, uscì di scena, inghiottita dal silenzio.
Conclusione
Verso la fine d'agosto et principio di settembre (1630) quando manco pensava la disperata città di Milano l'aggiutto della divina misericordia, ecco che una notte mandò la sua benedizione con tanta acqua, la quale, durante poco meno di duoi giorni, fu cosa miracolosa, refrigerandone l'aria, N.S. permise in un istante cessare il contagio di tutte le sorte, et perciò le diaboliche malie, che fu cosa di stupore et di meraviglia in otto giorni cessare di modo il contagio pestilente, che parue quasi netta tutta la città (Tadino)
Non conosciamo il numero esatto delle vittime ma sappiamo che la popolazione milanese da 250.000 unità arrivò a 60.000 e tutti gli storici sono d'accordo nel dire che ci vollero anni prima che la città si risollevasse e la vita riprendesse il suo corso normale. L'economia ne uscì ancora più malconcia: centinaia di botteghe fallirono, decine d'opifici chiusero i battenti, il pane e i generi di prima necessità vennero a mancare. Una cappa di squallore e disperazione avvolse Milano, il tempo della splendida corte di Ludovico il Moro era ormai solo un ricordo lontano e sepolto.
Più di ogni altra malattia, la peste fu e resta la morte per eccellenza. Che l'uomo le abbia strappato i suoi segreti non può bastare a cancellare il residuo arcaico di terrore legato all'umanità attraverso secoli di epidemia.
Quello che fece terrore della peste fu la morte improvvisa, così spesso rappresentata da pittori e incisori, la morte onnipresente, sempre in cammino e di cui non si conosceva né il giorno né l'ora.
L'angoscia fu troppo profondamente introdotta nel subconscio collettivo per poter essere cancellata, per questo ognuno di noi conserva, istintivamente, il ricordo arcaico e nascosto della morte nera.