Suor Virginia de Leyva, la Monaca di Monza
Scritto da Laura Savani. Pubblicato in società barocca
Un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desideri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell’animo suo. A. Manzoni
Resa indimenticabile dalla penna del Manzoni che di lei tracciò un romantico ed inquietante ritratto nei “Promessi Sposi” creando il personaggio di Gertrude, Suor Virginia de Leyva (al secolo Marianna de Leyva) nacque a Milano dal nobile Martino de Leyva, appartenente ad una delle famiglie più illustri del patriziato spagnolo e da Virginia Marino, figlia del ricchissimo banchiere Tommaso Marino, vedova e con cinque figli nati dal primo matrimonio. Alla bambina venne imposto lo stesso nome della madrina, la zia paterna Marianna sposa di Massimiliano Stampa. Non esistono documenti che attestino l’esatta data di nascita di Marianna ma nel processo, avvenuto il 22 dicembre 1607, è lei stessa a fornirci un indizio: “Io avrò 32 anni”. Si desume quindi una data che va dalla fine del 1575 all’inizio del 1576. È comunque provato che la futura “Monaca di Monza” nacque a Palazzo Marino e qui vi dimorò fino alla morte della madre avvenuta nel 1576, quando a Milano infuriava la peste.
Prima di morire Virginia Marino aveva redatto un testamento che fu alla base di un’intricata vicenda giudiziaria. Eredi del suo patrimonio il figlio primogenito nato dal primo matrimonio e Marianna, unica figlia di secondo letto. Ma il testamento venne presto impugnato dalle sorellastre di Marianna escluse dall’eredità. La causa andò avanti per diversi anni e, nel frattempo, la bambina venne affidata alle cure delle zie e di una balia. Martino invece lasciò Milano per combattere nelle Fiandre; tornò solo per firmare un accordo circa il testamento che si risolse a discapito di Marianna: dell’eredità materna solo 5 parti andarono a lei e al padre. La fretta di Martino di firmare un accordo era dovuta probabilmente al fatto che questi doveva lasciare Milano per continuare la sua carriera militare. Del resto i de Leyva non avevano problemi economici con le rendite delle tenute di Mirabello, della Torrazza e della contea di Monza e le rendite milanesi della dogana e della mercanzia.
Da una lettera del padre scopriamo che nel 1586 per Marianna c’erano dei progetti matrimoniali ma quando Martino si risposò con una nobildonna spagnola dalla quale ebbe il tanto atteso erede, il futuro della bambina prese una strada diversa.
Venne spedita immediatamente in convento fra le umiliate, nel monastero di Santa Margherita a Monza; aveva solo 13 anni, sufficienti per compiere la vestizione ma nessuna vocazione. La pratica di far monacare i figli cadetti ed in particolar modo le femmine era molto frequente nelle nobili famiglie. Secondo il diritto di maggiorascato l’intera eredità toccava al primogenito, continuatore del nome: “Così andava il mondo nel secolo decimo settimo”.
Martino de Leyva vide per l’ultima volta la figlia nel 1589; firmò per lei dei documenti in cui si decideva della sua dote (documenti in cui appare evidente che il padre derubava sfacciatamente la figlia) e poi ripartì per tornare dalla sua nuova famiglia e svolgere la carica di Maestro di Campo generale della cavalleria e della gente d’armi del regno di Napoli.
Due anni dopo Marianna prese il velo assumendo il nome di Suor Virginia Maria, in memoria della madre.
Aveva 16 anni e lo storico Ripamonti così la descrive: “modesta, circospetta, affabilissima, soffusa di un invidiabile candore, amica con tutte, delle discipline letterarie istrutta, come lo poteva essere in allora una giovinetta ben educata, obbediente, per nulla dispettosa, esempio di contegno sociale perfetto.”
All’età di 20 anni, per un biennio, Suor Virgina esercitò per volontà paterna autorità feudale come contessa di Monza e per tutti divenne la “Signora”.
Paolo Osio
Nel 1597 Suor Virginia divenne maestra delle educande, circa una ventina di ragazze, tra le quali c’era una certa Isabella degli Hostensi ed è a questo punto che la sua vita prende una piega diversa. Adiacente al convento vi era l’abitazione di Giovanni Paolo Osio di circa 25 anni, “ricco ed ozioso”, appartenente ad una famiglia molto nota a Monza già colpevole di omicidio. “Scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi”.
Tra Isabella e Paolo inziò una relazione, fatta di saluti e piccoli gesti, presto scoperta da Suor Virginia che provvide subito a far allontanare la ragazza.
Da una finestra che dava sul convento, lo “scellerato”, cercò di parlare a Marianna, forse per tentare di scusarsi, ma ottenne solo di essere bandito per un anno da Monza poi, grazie alla superiora del convento, amica della famiglia Osio, ottenne la grazia.
Nel 1598 Paolo ritornò a Monza e in questo periodo Suor Virginia si scoprì profondamente attratta da lui. Non ci è dato sapere il come e il quando ma “la sventurata rispose” ed iniziò così uno scambio di lettere e di alcuni regali. Ne seguì infine un incontro e una relazione amorosa resa possibile anche grazie alla complicità di alcune suore.
Nel 1602 Marianna diede alla luce un bambino nato morto; in seguito al parto Suor Virginia cercò di cancellare il suo amore per Paolo ma senza successo, ricorrendo anche a pratiche magiche e sortilegi.
La relazione tra i due continuò e nel 1603, Marianna diede nuovamente alla luce un altro figlio, questa volta una bambina, Alma Francesca Margherita, che venne affidata al padre e successivamente alla nonna paterna. Per vedere la figlia Suor Virginia usciva spesso dal monastero. Qualche volta la bambina le veniva portata nel convento stesso.
Qualcosa a questo punto cominciò a trapelare.
I tre omicidi
Nel 1605 una conversa, Caterina da Meda, al corrente della tresca e decisa a rivelare la relazione dei due amanti al padre confessore, venne uccisa con tre colpi in testa da Paolo che nascose il corpo e gettò la testa in un pozzo. I resti della ragazza furono ritrovati solo in seguito ma nessuno all’iniziò sembrò curarsi della sua scomparsa. Si pensò ad un fuga, del resto Caterina aveva sempre dimostrato poca inclinazione per la vita monastica.
L’omicidio della conversa fu comunque inutile perchè la colpevole relazione tra i due era ormai sulla bocca di troppe persone. Il fabbro ed il farmacista del convento erano al corrente in qualche modo delle strane abitudini del monastero. La necessità del segreto spinse Paolo ad uccidere prima il fabbro e poi a tentare di eliminare anche il farmacista ed il prete Arrigone, suo complice.
Lo scompiglio e il trambusto cominciarono ad essere fin troppo evidenti mettendo inevitabilmente in allarme il governatore di Milano che nel 1607 fece arrestare l’Osio mentre il cardinale Federico Borromeo compì un sopralluogo nel monastero di Santa Margherita chiedendo di poter vedere in privato Suor Virginia: l’esito del colloquio fu che “la donna rimase più sospettosa di quanto fosse in precedenza; dall’altro il Cardinale se ne partì più inquieto e preoccupato di quanto fosse prima di giungervi.”
Deciso ad eliminare chiunque fosse al corrente della tresca, Paolo Osio riuscì a fuggire dalla prigione di Pavia e a far uccidere il farmacista da un suo sgherro, provvedendo poi a far nascondere l’arma del delitto in casa dell’Arrigone. Il prete fu presto scagionato grazie alla testimonianza del custode del convento.
Messo alle strette l’Osio si rifugiò nel monastero di Santa Margherita, coperto da alcune suore, mentre Suor Virginia ammise la propria colpa in un drammatico colloquio con il cardinale Borromeo che ordinò il suo trasferimento in un altro convento.
Quando il corpo della conversa fu ritrovato la posizione di Paolo si aggravò ulterioriormente; per i tre omicidi e per aver sedotto una religiosa venne condannato a morte in contumacia. A questo punto le sue tracce si perdono: secondo lo storico Ripamonti, il giovane fu ucciso nel 1608 in casa di un amico che lo aveva tradito. Ma secondo un altro racconto venne decapitato a Monza nel 1609. Da alcuni documenti però è accertato che nel 1609 Paolo era ancora vivo mentre nel 1613 risulterebbe essere già defunto.
La condanna di Suor Virginia
Il processo canonico contro Suor Virginia iniziò il 27 novembre 1607. Oltre a lei furono giudicate anche le suore complici della tresca. La sentenza (1608) si risolse con la condanna della suora ad essere murata in una cella nella casa delle penitenti in S. Valeria a Milano. Vi rimase 14 anni (1622) , pentita e ravveduta, espiando le sue colpe sino alla morte.
“Vecchia ricurva, emaciata, magra, veneranda; al vederla si crederebbe a malapena che un tempo abbia potuto essere bella e spudorata”, così la descrive il Ripamonti. Il suo pentimento fu ritenuto sincero anche dal cardinale Federico Borromeo che definì la suora “uno specchio di penitenza”.
Morì il 7 gennaio 1650 a Milano come risulta dal libro mastro di S. Valeria.
Il caso di Suor Virginia de Leyva è sicuramente il più noto ma di certo non un fatto isolato. All’epoca i conventi avevano smesso da un pezzo di essere luoghi di virtù; erano diventati luoghi di perdizione più che di devozione e raccoglimento. La società feudale rinata dalla Controriforma non tollerava la suddivisione dei patrimoni e i figli cadetti, specie le femmine, venivano destinati al chiostro. Non sorrette dalla vocazione, molte ragazze si piegavano malvolentieri al sacrificio, riuscendo alcune volte ad ottenere che le regole conventuali fossero per loro attenuate. Secondo un libello uscito a Venezia nel XVIII secolo, esse ricevevano in parlatorio i loro ganzi e a carnevale uscivano mascherate e scollate, servendosi delle converse come mezzane nelle loro tresche. Il De Brosses racconta che nel 1737 scoppiò a Venezia una rissa fra tre monasteri che si contendevano l’onore di fornire un’amante al nuovo Nunzio Apostolico. I conventi pullulavano di monache di Monza ma il malcostume non dev far dimenticare che vi erano ancora voti presi con autentica vocazione.
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