L'artista nel periodo barocco
Scritto da Laura Savani. Pubblicato in uomo e società
Il seicento fu il secolo del barocco, un’arte ampollosa, encomiastica, declamatoria, che espresse plasticamente l’assolutismo autoritario della Chiesa post-tridentina. Nel campo plastico e figurativo, per barocco s’intende la fine dell’arte rinascimentale. Una fine logica, per naturale esaurimento; Raffaello, Michelangelo e gli altri grandi dei secoli d’oro avevano raggiunto l’equilibrio, l’armonia, la perfezione assoluta. Su questa strada gli artisti del seicento non avevano più traguardi da conquistare.
L’artista barocco non sapeva di essere un "artista barocco", non aveva la consapevolezza di appartenere a una nuova età della cultura e dell’arte. Tipico prodotto della Controriforma, il Barocco nasce e si sviluppa quasi esclusivamente nei Paesi cattolici: quelli protestanti ne sono toccati solo per contagio. Il perché è facile da capire. Nei Paesi protestanti, e specialmente in quelli calvinisti, l’arte è profana perché le chiese hanno messo al bando gli elementi decorativi, e gode di una libertà garantita dal “mercato”; il pittore e lo scultore non lavorano per il mecenate che li mantiene e di cui devono secondare i gusti. Lavorano per una clientela anonima di artigiani, di mercanti, d’imprenditori, di professionisti, insomma di borghesi arricchiti, che agli abbellimenti concedono poco. Questa è la grande arte fiamminga, con la sua disadorna e essenziale ritrattistica.
Nei paesi cattolici, e soprattutto in Italia, la situazione è opposta. L’arte non ha mercato perché manca un ceto borghese in grado di acquistarne i prodotti.
L’arbitrario, il bizzarro, l’esclamativo, il compiacimento stilistico vi attecchiscono; la principale committente è la Chiesa, di cui gli artisti sono al soldo e debbono secondare i voleri. Nel Seicento l’arte non aveva altra ragione di essere che quella di strumento propagantistico della Fede. Doveva essere edificante e apologetica e per gli artisti non ci fu scampo: la Chiesa era amministrata dai Carafa, dai Ghislieri, dagli Odescalchi, gente di punto gusto e implacabile zelo.
Il pittore sulla tela e lo scultore nel marmo devono celebrare il signore che li paga, e che li paga appunto perché lo celebrino in tutta la magnificenza delle sue uniformi e decorazioni, simbolo della sua potenza. Le loro case non sono fatte per l’intimità ma per la rappresentanza: gli architetti sono chiamati a progettarle in modo che facciano il più spicco possibile sulla miseria del quartiere circostante, ne tengano in soggezione la plebe, stupiscano e impressionino il visitatore.
È per nascondere questa mancanza di libertà che l’artista si abbandona a quell’orgia di forme e di colori, a quella teatralità di sfondi, a quei contorsionismi muscolari nella scultura, a quella scenografica nell’architettura. A questo piatto conformismo che mira a gonfiare e ingigantire non c’è altra evasione che la bizzarria decorativa.