La Milano Spagnola
La Milano del XVII secolo si trovava sotto il dominio spagnolo dal 1536 e il Seicento fu per la città uno dei periodi più tribolati della sua storia.
Le sue sorti di colonia dell'immenso impero fondato da Carlo V erano affidate ad un governatore nominato da Madrid, i cui poteri equivalevano a quelli d'un Viceré, la cui volontà era limitata solo da quella del re di Spagna. I membri del Senato, reclutati fra i cittadini patrizi fedeli alla Spagna, venivano consultati dal governatore ma nei fatti non avevano alcun diritto di veto sulle sue decisioni. La burocrazia godeva invece di ampia autonomia e questa tradizione amministrativa servì da modello agli spagnoli che avevano come unica preoccupazione quella di evitare grane coi sudditi e impedire sommosse.
La città non aveva una vita politica propria, era una classica provincia spagnola, inerte e parassitaria ma costituiva una base militare di grande importanza strategica, grazie alle fortezze, ai rifugi e ai centri di rifornimento degli eserciti spagnoli.
Il celebre castello Sforzesco era una città nella città: ospitava una guarnigione e le sue mura cingevano case, palazzi, botteghe, cinque pozzi, un ospedale, un mulino, una chiesa e un curato; nella sua piazza c'era spazio sufficiente per seimila soldati e sui bastioni c'era posto per duecento cannoni.
Il continuo via vai di truppe aveva trasformato il territorio milanese in un'immensa e desolata brughiera. Le campagne si erano spopolate perché molti contadini per sfuggire alle violenze e ai saccheggi si erano trasferiti in città mettendo in crisi l'agricoltura.
La Spagna assistette impassibile a questa rovina: considerava la Lombardia una semplice base militare ma non si rendeva conto che il depauperamento delle colonie avrebbe indebolito il suo dominio fino a farlo crollare.
Gli stessi imprenditori e mercanti milanesi preferivano investire i loro capitali in beni immobili piuttosto che farli circolare; le corporazioni rappresentavano ormai un ostacolo alla prosperità, a metà del Seicento se ne contavano un centinaio e fra queste vi erano: mercanti, armaioli, calzolai, barbieri, librai, stampatori, cartai, orefici, speziali, ricamatori, pellicciai.
Ogni arte aveva un proprio statuto e spesso il Sindaco passava gran parte del suo tempo a risolvere baruffe tra di loro.
Un altro problema era il fisco perché tutto era tassabile e tassato. Ogni giorno saltava fuori una nuova gabella: c'era l'imposta di famiglia, quella sugli immobili e sui redditi, quelle sui generi di consumo come sale, farina, vino, legna; c'erano le taglie, i donativi, i balzelli straordinari, con cui la popolazione contribuiva al mantenimento delle truppe spagnole.
I sistemi di esazione erano antiquati e colpivano soprattutto il popolo e la borghesia mentre la nobiltà fruiva di ogni sorta di esenzione e di immunità.
Il nobile milanese viveva delle rendite delle proprie terre nel contado e passava il tempo tra feste e banchetti, battute di caccia e teatro; studiava presso i gesuiti e i barnabiti e, maniaco dell'etichetta, scimmiottava il nobile spagnolo anche se con una concezione della vita meno ascetica e tragica.
Anche in caso di condanna, il nobile godeva di un trattamento di favore: gli era infatti riservata la mannaia e una speciale messa in scena: parenti, amici, servi, debitori potevano accompagnarlo al supplizio vestiti di nero, impugnando torce e cantando salmi, e dare solenne sepoltura al cadavere.
Per i comuni mortali il trattamento era ben diverso: a seconda del reato venivano squartati, arrotati o legati alla coda di un cavallo e trascinati per le strade, divertimenti gratuiti per un popolo cinico e rozzo.
Di una totale immunità beneficiavano invece i diplomatici accreditati presso il governatore: alle loro abitazioni non potevano avvicinarsi nemmeno i magistrati e gli sbirri.
La legge funzionava male, anzi non funzionava affatto, e spesso il sistema più pratico per risolvere una disputa era il duello.
Anche il clero era piuttosto riottoso, specialmente quello regolare: i monaci era turbolenti e attaccabrighe e alcuni abati disponevano di vere e proprie milizie personali.
I conventi erano più luoghi di perdizione che di devozione, erano fucine e ostelli di briganti e la storia di Suor Virginia de Leyva, la Monaca di Monza non fu un caso isolato.
Contro la corruzione ecclesiastica tuonavano i vescovi e Carlo Borromeo decise di sopprimere l'Ordine degli Umiliati, tale ormai solo di nome, e avviare una riforma dei costumi che diede meno frutti di quelli sperati. Con particolare durezza venivano colpiti casi di bestemmia, sodomia e adulterio, eresia, danza e gioco delle carte.
Un tale fu scomunicato per aver ballato di domenica e ad un altro, morto improvvisamente mentre giaceva con una ragazza, fu negata la sepoltura.
Erano eccessi che nuocevano alla fede più di quanto giovassero alla morale e la riforma non diede i frutti sperati poiché fu a lungo avversata dalla popolazione.
Con la peste del 1630 Milano visse una delle pagine più tragiche della sua storia e l'economia ne uscì ancora più malconcia. Il quadro di Milano nella prima metà del Seicento non poteva apparire più desolato e desolante.
Per gli spagnoli la città era solo terra di conquista e ogni forma di vita intellettuale, artistica e di relazione era guardata con sospetto.
Un po' di mecenatismo si poteva cogliere in alcuni illuminati patrizi e in certi ordini religiosi: il conte Vitaliano Borromeo fondò l'Accademia dei Faticosi presso il convento dei Teatini, i gesuiti fondarono quella degli Animosi e degli Arisofi, riservate agli studi di filosofia e teologia, di gran moda in epoca barocca. Erano però istituzioni riservate all'élite mentre per la massa c'erano le vecchie scuole pubbliche del Broletto, ribattezzate scuole Palatine anche se solo una piccola minoranza le frequentava; la maggior parte della popolazione viveva nell'ignoranza.
Alla fine del XVII secolo Milano non era più quella “piccola Parigi” con tanti artigiani e mercanti descritta da Michel Montaigne nel 1581.
La dominazione spagnola si resse all'insegna di un contratto feudale: protezione militare in cambio di pesanti tasse e l'agricoltura, l'artigianato e il commercio si impoverirono.
Un giudizio sulla dominazione spagnola
Il problema dell'effettivo carattere del dominio spagnolo su Milano ha trovato gli storici molto discordi; secondo studi recenti il giudizio tradizionalmente negativo dovrebbe essere modificato e tra i governi stranieri quello spagnolo non sarebbe da considerarsi il peggiore; una parte di responsabilità nel formarsi della cattiva fama dell'amministrazione spagnola sarebbe da attribuirsi alla propaganda svolta dall'Austria durante il regno di Maria Teresa e dopo la Restaurazione del 1815.
In ogni caso la Spagna lasciò al ducato di Milano una sostanziale autonomia amministrativa; la decadenza del ducato fu il risultato di molteplici fattori, tra cui, pare, soprattutto la concorrenza di altri centri di produzione che sorsero all'estero; è anche vero però che i provvedimenti cui ricorse il governo nella seconda metà del XVII secolo furono del tutto inefficaci.
La Milano austriaca
Con il trattato di Utrecht (1713) Milano passò all'Austria e i nuovi padroni vi trovarono una situazione caotica.
La dominazione spagnola e le continue guerre avevano reso il territorio ingovernabile per corruzione, malgoverno, malcostume. I sudditi, resi ormai stracchi e disincantati, cercavano di lavorare il meno possibile e vivevano nella costante ricerca di espedienti per non pagare le tasse.
Milano era una città fetida a causa del limo delle marcite e delle risaie che la circondavano, mista a quella delle fogne a cielo aperto che si riversavano nei Navigli stagnanti che ammorbavano l'aria e provocavano infezioni mortali.
La case, del tutto prive di camini, erano senza vetri alle finestre con grondaie sporgenti dai tetti che spandevano l'acqua sulle strade, costantemente infangate a causa della quasi totale mancanza di selciato, piene di escrementi lasciati dai cavalli e dai buoi che trainavano carri e carrozze.
Gli stipendi erano bassi e Via Marina era il ritrovo preferiti degli oziosi per chiacchierare fino a notte tarda, mentre nelle osterie e nelle campagne, anziché lavorare, i contadini si appassionavano al gioco delle bocce. Molti borghesi arricchiti, con traffici non sempre onesti, ostentavano stemmi di una nobiltà inventata.
Il popolo era quasi indifferente a quale bandiera sventolasse sul giogo ma la nobiltà, abituata alla lingua, al cerimoniale e alla pompa spagnola, vedeva i nuovi padroni di cattivo occhio.
Milano si stava adattando al nuovo padrone ma la guerra di Successione Polacca rimise tutto in subbuglio.
Carlo Emanuele III di Savoia irruppe nella città quasi completamente sguarnita dalle truppe austriache, facendosi precedere da un proclama in cui si parlava di “liberazione dell'Italia”. Sebbene la parola Italia non avesse all'epoca nessun significato patriottico, Carlo Emanuele riuscì a suscitare parecchie simpatie; tuttavia il suo dominio durò solo tre anni, dal 1733 al 1736, poiché i Savoia minacciavano di annettersi una bella fetta di terre lombarde.
Gli austriaci, tornandovi, fecero pagare caro ai milanesi il loro collaborazionismo con il “nemico invasore” e del rancore che essi seminarono si videro i frutti nel 1740, quando scoppiò la terza guerra di successione, quella per il trono d'Austria: parte del popolo milanese cospirò per i franco-spagnoli che volevano assegnare la Lombardia a Filippo di Borbone, il secondogenito di Elisabetta Farnese, futuro Duca di Parma.
La pace di Aquisgrana del 1748 deluse queste speranze e Milano tornò definitivamente all'Austria, il cui castigo fu ancora più pesante.
Molti, per sottrarvisi, dovettero prendere la via dell'esilio: fra di essi la Contessa del Grillo, moglie di un Borromeo e impresaria del più vivace salotto intellettuale di Milano sul modello di quelli francesi. A qualcuno la fuga nemmeno bastò: la polizia austriaca non esitò a violare la sovranità della Serenissima per catturare il conte Biancani, rifugiatosi nel suo territorio, e mandarlo al patibolo.
Da quel momento in poi Milano non ebbe più una sua vita politica; ebbe soltanto una propria economia e una vita culturale e sociale che in compenso acquistò molta importanza.
La Milano di Maria Teresa
Ciò che emergeva dal lungo seguito di guerre di cui aveva costituito una delle principali poste, era un paese in regresso; anche territorialmente Milano non era più il glorioso ducato degli Sforza.
“La Spagna ha lasciato a Milano un'eredità scandalosa, qui non lavora nessuno: il disordine rasenta il caos”, scrivevano gli osservatori austriaci a Maria Teresa.
L'uomo che organizzò in Lombardia le riforme di Maria Teresa, fu Anton Kaunitz, soprannominato “l'oracolo”; gli bastarono poche osservazioni per convincere la sovrana che la trasformazione doveva essere radicale: “Per costruire la nuova fabbrica, bisogna abbattere l'antica”.
Dal 1757 Kaunitz divenne l'arbitro supremo della provincia, tutto faceva capo alla sua cancelleria, era lui che decideva ogni cosa.
Gli affari di Milano si decidevano a Vienna, in un ufficio denominato “Consiglio d'Italia”; con i governatori e i burocrati di Milano, Kaunitz manteneva una corrispondenza segreta.
Primo rappresentante di Maria Teresa a Milano fu il conte Ferdinando Harrach e dopo di lui, nel 1750, il nobile genovese Gian Luca Pallavicino.
Snellire, riordinare e unificare, erano questi i criteri di riforma per uno stato con un debito pubblico enorme. Fino a quel momento erano stati i ceti più poveri a pagare i tributi; fin dai tempi di Carlo VI, padre di Maria Teresa, il nobile milanese non solo era esente dalle tasse ma controllava per intero il meccanismo fiscale. L'uguaglianza tributaria che piano piano stava prendendo forma, portò inevitabilmente un enorme malcontento nelle classi privilegiate. Ciò nonostante fu proprio nel Settecento che Milano conobbe un periodo di sviluppo e di fioritura, sia nel campo economico, con la creazione delle prime manifatture accentrate nel campo dell'industria tessile, sia in quello culturale, con l'azione degli illuministi lombardi, con l'opera dei fratelli Verri, del Beccaria, di Paolo Frisi; con la pubblicazione del Caffè e con l'opera poetica del Giuseppe Parini; questo portò allo sviluppo di un'efficace azione di rinnovamento in polemica con la vecchia cultura retorica e disimpegnata.
A questa ripresa contribuì soprattutto l'opera riformatrice del governo di Maria Teresa e di Giuseppe II, che modernizzò le strutture finanziarie, amministrative ed ecclesiastiche del territorio milanese, favorendo gli interessi della nuova borghesia e dell'aristocrazia imborghesita.
Milano si rinnova
Maria Teresa, imperatrice dal 1740, era stata in Lombardia solo due volte, e solo di passaggio; nel 1738, diretta a Firenze, si era fermata brevemente a Mantova e l'anno seguente di ritorno a Vienna, aveva soggiornato a Milano. “Maria Theresia Dei Gratia, Romanorum Imperatrix, Regina Hungariae, Bohemiae & c, Arcidux Austriae, Dux Mediolani, Mantuae & c, & c”. Preceduti dalle auguste parole, stampate a enormi lettere ai piedi dello stemma imperiale, già dal 1740 in Lombardia fioccavano sempre più numerosi gli editti, le grida, gli ordini e le ordinanze della nuova sovrana.
Maria Teresa teneva moltissimo al piccolo ducato e lo espressecon la fermezza che dimostrò per riconquistarlo.
Fin dagli ultimi anni del Seicento la Lombardia aveva ripreso vitalità economica e culturale. Appena le persone, le merci e le idee ricominciarono a circolare, i milanesi risollevarono il morale, e accolsero i forestieri con una cordialità che si trasformava in tripudio se questi comperavano o vendevano.
De Brosses se ne andò “con grande rimpianto perché i milanesi sono la gente migliore d'Italia, se non mi inganno; pieni di cortesie, e ci hanno trattati con tutto il garbo possibile. Il loro costumi non differiscono quasi per nulla da quelli dei francesi”, se non fosse che “ci si consumerebbe invano il cervello per tentare di immaginare fino a che punto siano abominevoli i vini di Lombardia".
Nel 1776 il pittore Thomas Jones confermò di avere innaffiato il pranzo con “vino bianco di colore sieroso”.
La cordialità era diffusa e come riferì l'astronomo Lalande, i nobili mostravano una “generosità e magnificenza” sconosciute agli austeri borghesi.
La ricchezza di Milano risiedeva nella campagna, nonostante la deplorevole qualità del vino, e l'equilibrio tra agricoltura nei campi e commercio nelle strade urbane costituiva il segreto dei lombardi.
Scrive Montesquieu che “le terre del milanese sono abbastanza ben coltivate per un paese che è appartenuto alla Spagna” e l'acqua regna sovrana nelle campagne, dove “gli abitanti non sono fate, né ninfe, né cavalieri, ma vacche e ranocchi”.
L'impianto di Milano era quello dei tempi di Montaigne: la fossa interna del Naviglio, alimentata dalle acque del Ticino, racchiude palazzi e casupole, chiese e conventi. Da seicento anni il sistema dei canali collegava la città alla regione, convogliava le merci e spurgava gli scarti.
Sotto Maria Teresa, i bastioni spagnoli segnavano ancora il confine tra Milano e il contado ma la loro funzione di difesa militare era ormai inutile; servivano al passeggio e alla contemplazione del panorama; tra la cerchia dei Navigli e le mura si stendevano orti, giardini e terre incolte o residenze signorili. A metà Settecento, Milano appariva una quieta capitale di provincia con un mercato efficiente.
Simbolo della triste condizione degli ultimi due secoli era il Duomo; la costruzione era ancora incompleta nel XVIII secolo; l'edificio era in mattoni, solo a tratti ricoperto con lastre di marmo, con un tetto in legno e alti finestroni gotici. Era un enorme cantiere disordinato, dove stazionavano venditori, giocolieri, pitocchi e perdigiorno.
Scriveva il De Brosses: “questo edificio, senza esempio nella storia antica e moderna, profana e religiosa, rassomiglia a un gigante vestito di broccato d'oro, carico di diamanti ma senza scarpe e senza gli indumenti più necessari. In questo stato esso rimarrà finchè qualche sovrano, impadronendosi dei patrimoni legati per questa opera, non li destinerà senz'altro al suo compimento.”
La cattedrale malandata catturò l'attenzione del governo austriaco, che diede un incoraggiante impulso ai lavori, imbiancandolo di marmi e innalzando al cielo le guglie. Sulla guglia maggiore venne posata nel 1769 la statua dorata della Madonna, alta più di 4 metri.
Nello stesso tempo quest'aria di rinnovo contagiò le grandi famiglie del ducato che restaurarono i palazzi degli avi, ridisegnando le facciate nello stile del rococò viennese.
Eredi di una civiltà raffinata, i milanesi fecero fiorire uno splendido artigianato; molti forestieri andavano a rifornirsi di carrozze, gioielli e accessori nel quartieri a ovest del duomo, dove vi erano botteghe rappresentanti le più antiche abilità manuali.
La Milano dell'arciduca Ferdinando
Dieci anni dopo l'entrata in vigore del nuovo sistema fiscale, Maria Teresa, ormai sicura del proprio potere, decise di dare lustro alla città di Milano, conferendole gli attributi di una piccola capitale, assegnando al penultimo dei suo figli maschi, Ferdinando, il compito di rappresentarla e di costruire una corte con tanto di etichetta, fasto ed eleganza.
L'arte diplomatica del governatore di Milano, Beltrame, pilotato a sua volta da Kaunitz, aveva convinto Francesco d'Este a dare in sposa a Ferdinando la nipote Beatrice, unica erede del ducato di Modena e Massa. “Non vedo all'orizzonte nessuna donna più degna per il mio amato fratello”, scriveva Giuseppe II a sua madre.
Ferdinando era bello, beneducato e cavalcava benissimo. Secondo il suo precettore “ha una natura eccellente. Desidererei solo che prendesse un po' più di piacere per la lettura. I buoni libri sono necessari per acquisire l'arte di governare. L'arciduca legge tutti i documenti, per quanto voluminosi ma non si riesce a fargli aprire un libro”.
Il matrimonio fra il quindicenne Ferdinando e la diciannovenne Beatrice d'Este, venne celebrato nel Duomo di Milano il 15 ottobre 1771. Temporaneamente gli sposi si stabilirono nel palazzo del Broletto che Maria Teresa aveva fatto costruire in attesa del restauro della malandata residenza ufficiale.
Abituato ai larghi spazi di Schönbrunn, Ferdinando insistette e finalmente ottenne dalla madre il permesso di iniziare la costruzione di una villa di campagna a Monza, su un fondo confiscato ai gesuiti. Il denaro occorrente, sessantamila zecchini, venne prelevato dall'erario e l'oculata imperatrice scrisse ai due giovani sposi: “Dopo le prime spese, vi raccomando di non esagerare…”.
L'arcivescovo che aveva benedetto le nozze, perché non si illudesse di contare a Milano più dell'Arciduca, venne messo a sedere un gradino più in basso della coppia.
Dopo il matrimonio, Maria Teresa intrecciò con la nuora Beatrice una fitta corrispondenza; attraverso spie, controllava il giovane Ferdinando, il cui comportamento non era molto esemplare: l'arciduca non era quel che si dice un devoto e induceva la madre a rimproverarlo spesso. Inguaribilmente mondano e amante del teatro, legato in maniera ossessiva all'etichetta ma ancor più desideroso di eliminare il lassismo lasciato in eredità dalla Spagna, Ferdinando impose regole rigidissime ai milanesi, esigendo di circondarsi solo di persone di rango molto elevato, e dividendo i nobili in tre categorie. Vietò ai nobili di star seduti durante le rappresentazioni, di giocare d'azzardo nei teatri, e di ballare durante le feste ufficiali alle quali avevano il diritto di partecipare ma in piedi, e lungo le pareti.
Ferdinando richiese che gli venissero inviati “il maggior numero possibile di ussari”, così “da imprimere ai cittadini maggiore soggezione, poiché la preesistente milizia nazionale, priva di uniforme e mancando di disciplina e di qualche pratica nel maneggiare le armi, farebbe ben poca buona figura”.
Giuseppe Piermarini, venuto da Foligno e nominato architetto di corte, ricostruì il palazzo Ducale in stile classico e diresse la preparazione della grandiosa scenografia che fece da sfondo alle feste; progettò la villa reale a Monza e il Teatro alla Scala.
Il volto di Milano si rinnovò: le strade, lastricate con pietre e ciottoli, divennero più sicure. Nel 1786 si diffuse l'illuminazione pubblica con lampioni ad olio e più tardi alle contrade venne assegnato un nome; alle 5280 case un numero ciascuna.
A Milano, il vento dei lumi spazzò via rapidamente lo stile grazioso, come veniva chiamato il barocchetto di Maria Teresa, in favore di un'architettura più sobria e sottile.
Da Parigi si apprese anche un minimo di igiene: “Vi è un gabinetto con comodo inglese ove corre l'acqua essendo il vaso di maiolica in declivio o sia con buco da una parte per cui ogni cosa mediante una valvola, che si alza dalla parte del foro e dell'acqua che scorrendo velocemente e in abbondanza porta via ogni immondezza. Il tutto poi resta chiuso da coperchi di noce similmente al davanti. Vi sono poi cuscini al di sopra, dimodoché figura come comodo canapè”, scriveva sbalordita una marchesa dopo aver visitato i servizi igienici di palazzo Belgioioso
È questa l'epoca delle ville in campagna, destinate alle vacanze dei ricchi. La villeggiatura nelle “case di delizia” comincia ai primi di marzo, e termina con le prime nebbie invernali. È di moda il giardino orizzontale, con specchi d'acqua, canali, siepi tagliate e lunghissime fughe architettoniche. Ancora oggi in Lombardia, la zona della Brianza, è ricca di ville costruite nel settecento.
Conclusione
Da questo momento la cultura lombarda si orientò in un senso assai diverso da quello di tutto il resto della penisola, eccettuata la Toscana che molto le somigliò. Milano cercò i contatti con la vita moderna e ne accolse le esigenze; comprese la rivoluzione industriale e rispose alle sue sollecitazioni.
Concretezza, praticità furono le sue caratteristiche. Sposò la Tecnica, se ne nutrì e la nutrì. L'oligarchia milanese rimase comunque intatta, come la sua antica abitudine di offrirsi volenterosamente ai nuovi padroni, insieme ai frutti della sua fatica fisica e intellettuale.