La peste a Genova nel Seicento
Scritto da Irene Marone. Pubblicato in storia barocca
Un esempio di efficienza
Anche Genova fu coinvolta nella terribile pestilenza che, intorno al 1630, avvolse tutto il nord Italia. Tuttavia Genova, da sempre città mercantile e marinara, sapeva di essere a rischio epidemie per i continui interscambi commerciali con l'estero ed aveva fatto tesoro delle esperienza maturate durante le epidemie del 3-400: già da allora era stato istituito in città un Magistrato di Sanità incaricato di gestire l'emergenza.
Questi imponeva la sospensione di balli, feste e canti e l'organizzazione di un cordone sanitario lungo le mura che permettesse l'ingresso solo ai possessori di un apposito certificato di sanità.
Contrariamente a quanto avvenne ad esempio a Milano o a Firenze, tutti gli ospedali e i lazzaretti furono allestiti lontano dal centro abitato, all' interno del quale venivano eseguite pulizie straordinarie delle strade ed opere di bonifica dei pozzi neri.
Venivano organizzate ronde di controllo nelle zone portuali, sede di accessi pressochè incontrollati alla città, ed era prevista la quarantena o addirittura il rogo per le navi provenienti da luoghi sospetti.
Misure poco “democratiche”
Ufficiali sanitari nominati dal Magistrato avevano l'ordine di segnalare le case più sporche e insalubri, sospettate di ospitare dei contagiati: queste, sempre situate nei quartieri più poveri, venivano asperse con sostanze purificanti come l'aceto e poi sigillate....con ancora dentro i loro abitanti!
Raramente i poveri venivano trasportati nei lazzaretti fuori città per essere curati poiché i mezzi a disposizione per i trasferimenti erano pochi e richiedevano il pagamento di una parcella che, insieme a quelle salatissime di medici, solo i più ricchi del ceto mercantile potevano permettersi.
Ai nobili era concesso farsi curare a casa dai loro medici personali e l'approvvigionamento di beni alimentari, un vero problema nelle città colpite dalla peste, era garantito da appositi funzionari.
Inoltre l'erario della città si occupava di foraggiare i familiari dei malati “notabili”, in caso fossero rimasti isolati o in una situazione di indigenza.
Dopo la morte di questi malati i loro averi venivano bruciati a scopo di profilassi ma anche per limitare lo sciacallaggio.