Un adolescente“indolente e pigro”
L’ardiduca Pietro Leopoldo nacque a Vienna nel 1747, figlio dell’Imperatore Francesco I e di Maria Teresa d'Austria.
Da adolescente non sembrava promettere niente di buono. Alla vita di corte partecipava svogliatamente, mal sopportava l’etichetta, non si divertiva alle feste, odiava l’esercito e le uniformi; trascurato nell’abbigliamento, usava un linguaggio per nulla appropriato al suo rango; soffriva di malinconia e si sentiva a suo agio solo con la servitù.
Leopoldo ha avuto dalla natura un cuore buono, generoso e sensibile. Ma è indolente e pigro, con una forte tendenza a formarsi idee preconcette, cui rinuncia con difficoltà perché ha troppo alta opinione di se stesso e non ama chiedere consigli, né seguire quelli che gli vengono dati. Cerca di raggiungere i suoi fini con l’astuzia e per vie traverse. Vorrei che nell’aspetto e nel contegno diventasse più libero, franco e sicuro, meno rozzo nell’accento e nella voce, più avvincente nel modo di comportasi e di esprimersi. Ha una grande preferenza per la piccola gente e predilezione per le cose piatte e insipide. Vorrebbe essere cortese, ma difficilmente ci riesce. Così si espimeva Maria Teresa parlando di Leopoldo in una lettera al suo precettore.
Probabilmente il comportamento di Leopoldo dipendeva da un complesso di “frustrazione”: Maria Teresa era un’ottima madre che però rischiava di “soffocare” per le troppe attenzioni la sua prole. L’avvenire di Leopoldo sembrava privo di prospettive: il trono era destinato al primogenito Giuseppe, il Granducato di Toscana al secondogenito Carlo; a lui, terzogenito, sarebbe toccato il Ducato di Modena e Massa.
Il Granducato di Toscana
Con la morte del fratello Carlo, nel 1760, gli si aprirono le porte della successione al Granducato di Toscana e tutto per lui improvvisamente cambiò. Cambiò anche il suo carattere e trovò persino piacevole comandare un reparto di cavalleria in una parata militare.
Nel 1765 sposò l’Infanta di Spagna Maria Luisa di Borbone, figlia di Carlo III. Si incontrarono per la prima volta a Innsbruck e si piacquero subito. Fu un matrimonio abbastanza felice anche se la luna di miele iniziò sotto cattivi auspici: l’Imperatore Francesco morì improvvisamente, stroncato da un infarto mentre tornava da teatro.
Leopoldo aveva solo diciotto anni quando giunse a Firenze con la sposa e con un consigliere, il Conte von Thurn che doveva assolvere le mansioni di sorvegliante per conto dell’Imperatrice. Il Granducato significava l’allontanamento da Vienna, cioè dalle soffocanti attenzioni di sua madre, l’indipendenza, la responsabilità, il potere.
L’entusiasmo aumentò quando Leopoldo licenziò, appena insediato, il Botta-Adorno e tutti i lorenesi del periodo della reggenza che avevano tanto irritato i fiorentini. Fu chiaro fin da allora che il Granduca voleva governare la Toscana a modo suo. Leopoldo per Maria Teresa rimaneva un figlio che doveva agire secondo gli interessi di Vienna e la Toscana non era che uno stato satellite. Il Conte von Thurn cadde in disgrazia per avere difeso l’operato del Granduca e, già gravemente malato, ne morì. Il suo posto fu preso dal Principe Rosemberg, destinato ad esercitare un’azione importante sulle scelte del giovane sovrano. Lungi dallo scoraggiarsi per i rabuffi materni, Leopoldo accentuò la propria indipendenza fino ad entrare in conflitto con il fratello imperatore, Giuseppe, cui secondo il testamento del loro padre Francesco Stefano, avrebbe dovuto versare tutto ciò che si trovava nelle casse dello stato granducale: un milione e ducentomila fiorini. Era un brutto colpo per le finanze e il Granduca cercò di rimediare. Si rassegnò a cedere solo dopo uno scambio di lettere molto aspre che compromise i buoni rapporti con il fratello e la madre. Proprio in quel momento, per fortuna, dopo la nascita di una femmina la Granduchessa mise al mondo un maschio, Francesco, che divenne automaticamente erede al trono imperiale essendo Giuseppe rimasto due volte vedovo e senza figli. L’evento riportò l’armonia tra i due fratelli e Giuseppe assegnò al nipotino una pensione annua di sessantamila fiorini.
Leopoldo II un sovrano illuminato
La crisi delle finanze granducali, spinse Leopoldo ad anticipare le riforme. Era pieno di idee formate nella Vienna illuminista e soprattutto grazie al suo precettore francese Sauboin, un fisiocrate che lo aveva seguita anche a Firenze. Il Granduca mise alla porta i preti e cercò di non inimicarsi i nobili gratificandoli con ordini cavallereschi, con divise nuove e incarichi onorifici. Bandì dalla corte la pompa e ridusse il rituale di corte. Ogni venerdì le porte di Palazzo Pitti si aprivano per chiunque volesse dire o chiedere qualcosa al Granduca che riceveva tutti molto affabilmente. Era una forma di democrazia ma anche di “spionaggio”: Leopoldo si servì di questi incontri per stabilire un contatto diretto con i propri sudditi e per sapere da loro cosa accadeva nelle sue terre.
I Fiorentini amarono subito il Granduca: amavano la sua parsimonia, la sua frugalità e il suo essere alla mano; piacevano le sue frequenti apparizioni in teatro (anche quelli più proletari) da spettatore qualunque; piaceva persino il suo libertinaggio. La voce popolare accreditò al Granduca molte amanti e forse più del dovuto. Tuttavia Leopoldo fu un ottimo marito e un ottimo padre. Lo dimostrano i sedici figli avuti dalla moglie e l’armonia che c’era in famiglia. Maria Luisa era informata delle scappatelle del marito. Si racconta che quando portava i principini alle Cascine e i bambini per strada li salutavano, essa diceva ai suoi: “ Rispondete…potrebbero essere vostri fratelli…”.
Leopoldo cercò i suoi collaboratori nel ceto medio, quello più aperto alle riforme ma senza troppe ideologie, gli uomini gli valutava in base all’esperienza. Il primo che assunse ai suoi servizi, fu Pompeo Neri che aveva dato prova di essere un grande riformatore del catasto in Lombardia. Prima lo sperimentò in alcuni incarichi operativi e quando fu certo che il Neri avesse qualità di equilibrio ed efficienza, gli affidò la direzione del Consiglio di Stato. Il ministero delle finanze (che allora si chiamava segreteria) lo affidò a Gian Francesco Gianni e a Rucellai affidò i delicati rapporti con la Chiesa. Il Granduca rimase fedele ai suoi collaboratori e nel suo lungo regno ne cambiò pochissimi. Apertissimo ai consigli soleva dire che “dieci occhi vedono meglio di due”; le critiche e le obbiezioni non lo irritavano, anzi!
Le riforme leopoldine
La Toscana era già allora una delle regioni più belle d’Italia, la più completa e armoniosa. Le materie prime erano presenti ma era difficile estrarle mentre i torrenti erano pericolosi. Il marmo di Carrara, il mercurio dell’Amiata, l’alabastro di Volterra, il ferro dell’isola d’Elba alimentavano l'artigianato.
La base economica della Toscana del settecento era l’agricoltura in particolare ulivo, vite, legumi, castagne e patate. Granduca dedicò le sue prime misure al miglioramento del fabbiaogno del pane, il raccolto del grano bastava al fabbisogno solo nelle annate buone ma con annate cattive andava importato. Per non avere un prezzo troppo alto abolì le tasse d'importazione cosentendo così, nei momenti di carestia, anche al popolo di sfamarsi.
Leopoldo si era accorto che nel porto di Livorno transitavano molti carichi di grano provenienti o diretti in Oriente. Abolendo il dazio, il Granduca pensò che in caso di cattiva annata e quindi di prezzi maggiorati, ai mercanti sarebbe convenuto vendere sul posto. In questo modo i prezzi sarebbero automaticamente diminuiti con gran sollievo del consumatore. Per contro in caso di annata buona e quindi di prezzi bassi, ai mercanti sarebbe convenuto comprare sul posto con gran sollievo del produttore.
Leopoldo volle rendere i suoi sudditi indipendenti, cioè autarchici, almeno sulla produzione del grano. La vecchia classe terriera, che si era ormai addormentata sul sistema di mezzadria, dovette richiamare in servizio il vecchio spirito di imprenditoria che fu alla base delle grandi bonifiche.
Le riforme del Granduca toccarono anche le corporazioni o “Arti”. In passato avevano assolto compiti utilissimi ma nel XVIII secolo impedivano la nascita di imprese concorrenti. Erano in pratica diventate delle cittadelle con privilegi ereditari e esosi monopoli. Questo provocava un costo alto di produzione e quindi prezzi alti del prodotto a scapito del consumatore. Leopoldo unificò le corporazioni in una Camera di Commercio e poi ne trasferì le competenze a un “provveditore”, in seguito abolì anche questo. Balzelli e pedaggi interni sparirono con la riforma del Neri.
La confusione più grande regnava nei rapporti tra la capitale, Firenze, e le altre città. Ogni città aveva una sua facciata di autonomia ma erano praticamente inabilitate a svolgere funzioni amministrative. Vi era quindi una sorda guerriglia di “competenze” contro l’autorità di Firenze e il povero cittadino era costretto a subire due taglieggiamenti burocratici. Il Neri fece dei tagli netti: da buon giurista separò in maniera definitiva i compiti giurisdizionali da quelli amministrativi. Egli aveva una chiara idea di cosa fosse uno Stato di diritto e la della divisione dei poteri. Creò una Camera delle comunità per esercitare sui Comuni quel controllo che oggi esercita un prefetto. La sua riforma funzinò così bene che i comuni rimasti fuori chiesero di entrare a farne parte. La ragione era semplice: la Camera, pur avendo abolito le vecchie automie, aveva restituito ai Comuni certi compiti amministrativi come la redazione del bilancio, la nomina degli impiegati municipali, la costruzione di strade, la manutenzione di ospedali eccetera.
La riforma leopoldina che fece più effetto nel mondo, per i grandi principi morali che vi erano coinvolti, fu quella del codice penale. Leopoldo vi lavorò su per oltre vent’anni e la varò nel 1786. Il codice leopoldino fu una conquista del pensiero giuridico moderno abolendo i quattro più infami residuati medievali: i delitti di lesa maestà, la confisca dei beni, la tortura e la pena di morte.
Cesare Beccaria e tutti i progressisti europei esultarono, Mirabeau chiamò Leopoldo “il nuovo Solone”. I benpensanti gridarono allo scandalo, pronosticando una Toscana in balìa dei crimini e dei terroristi. I fatti diedero ancora una volta ragione al Granduca che era così sicuro del risultato che, prima di varare il codice aveva ordinato al Gianni, da poco succeduto al Neri, di sciogliere l’esercito e di sostituirlo con una “milizia civica”.
I contrastitra ducato di Toscana e Chiesa
In una delle sue “istruzioni”, Maria Teresa aveva raccomandato a Leopoldo fermezza e intransigenza contro le intromissioni delle Chiesa negli affari di Stato e allo stesso tempo obbedienza al Pontefice in fatto di dogma. Leopoldo seguì i consigli materni. Era un praticante scrupoloso e aveva il massimo rispetto per il prete in chiesa ma al di fuori della chiesa non riconosceva privilegi. Con le sue riforme aveva posto un rigido freno all’estendersi delle proprietà ecclesiastiche e aveva cercato di ripartirle in maniera più equa a vantaggio del basso clero.
Leopoldo era un libertino afflitto però da sensi di colpa che lo mettevano in contrasto con se stesso. Profondamente attirato dalle idee gianseniste di Scipion de’ Ricci, ne fece il proprio direttore di coscienza. Dopo averlo fatto nominare vescovo di Pistoia e Prato lo fece suo consigliere. Leopoldo voleva fare dell’episcopato toscano uno strumento dello Stato sottraendolo a ogni dipendenza da Roma.
Quando nel 1781 l’Incontri morì, Leopoldo avrebbe voluto proporre il Ricci come successore ma questi era troppo giovane, e vescovo solo da pochi mesi. Proprio in quel momento si trovò a passare a Firenze, in visita a Palazzo Pitt,i un prelato di Prato emigrato in Piemonte, Antonio Martini, uno dei più grandi conoscitori di testi biblici e anche lui di idee gianseniste. Leopoldo rimase molto colpito dal Martini e gli offrì senza troppo pensarci (cosa innaturale per lui) l’Arcivescovado.
La nomina fu considerata un trionfo per il partito riformatore e i fatti sembrarono confermarlo: il Tribunale dell’Inquisizione venne abolito (anche se in realtà negli ultimi tempi aveva perso molto del suo potere); venne poi posto un rigido freno al drenaggio di fondi che la Curia romana operava sul patrimonio ecclesiastico toscano, e le rendite furono riservate al clero locale. In seguito ebbe inizio la pubblicazione degli Annali ecclesiastici di ispirazione chiaramente giansenista. Furono ridotte congregazioni e confraternite e infine la competenza dei tribunali episcopali venne ridotta alle sole materie religiose e i loro poteri punitivi limitati a semplici contravvenzioni. Per i delitti comuni il sacerdote era sottoposto al tribunale civile.
Nel 1786 il Ricci decise di convocare a Pistoia un sinodo diocesano, una sorta di piccolo Concilio, che sancisse una vera “Riforma” giansenista. Il Ricci aveva ovviamente “pubblicizzato” l’avvenimento e sia dall’Italia che dall’estero arrivarono a Pistoia i più agguerriti teologi. I giansenisti ovviamente accorsero in massa, convinti che la Toscana avrebbe offerto il primo modello di una Chiesa nazional-cattolica non vincolata e non dipendente, sotto il profilo disciplinare, da Roma.
Leopoldo seguì con ansia quella battaglia che ebbe dei risvolti di dramma e di farsa. Dei quindici vescovi toscani solo due si schierarono con il Ricci; gli altri, tutti contro, avevano alla loro testa proprio l’Arcivescovo Martini. Qualcuno ipotizzò che il Martini passò all’opposizione per gelosia nei confronti del Ricci. È una cosa probabile ma ancor di più dovette giuocare in lui il senso di responsabilità e di dovere verso la Chiesa. Quanto ai 260 parroci, si erano tutti schierati per il Ricci ma erano tutti preti di campagna o di montagna che nei dibattiti si trovarono spaesati e vi parteciparono con battute involontariamente umoristiche.
I giansenisti di tutta Europa esaltarono il sinodo di Pistoia come un trionfo; i loro avversari lo ridussero ad una burletta. Le 86 “proporzioni” del sinodo furono rifiutate dall’episcopato toscano e per questo il Papa non intervenne con condanne.
Per Leopoldo la delusione fu grande e convocò i suoi quindici vescovi a Palazzo Pitti per cercare di riunirli su un fronte comune. Ma la folla accolse i riformatori con insulti e minacce: qualcuno aveva fatto intendere al popolino che i vescovi volevano rimuovere dal Duomo una reliquia della Vergine. Questa falsa notizia generò una sorta di caccia alle streghe e tutti i sacerdoti sospettati di giansenismo furono costretti a portare in processione le immagini dei Santi. Questa reazione provocata dagli oppositori inflisse una sconfitta sia al Ricci che al Granduca. Tutte le riforme furono revocate: nella messa il latino riprese il posto dell’italiano; venne abolita la recitazione a voce alta delle preghiere e i messali giansenisti furono dati alle fiamme.
Dal trono granducale a quello imperiale
Il 6 febbraio 1790 l’imperatore Giuseppe II: ormai malato, scrisse a Leopoldo di tenersi pronto per il trono perchè i medici non gli avevano dato speranze e la situazione dell’impero era critica: le province belghe erano in rivolta e l’Austria poteva considerarle ormai perdute, dal momento che l’Inghilterra, la Prussia e l’Olanda erano dalla parte dei rivoltosi. L’esercito, poi, era impegnato nella guerra contro i turchi e l’Ungheria era anche lei in procinto di ribellarsi.
Giuseppe, dunque, pregò il fratello di assumere immediatamente la carica di “coreggente”, dal momento che lui, malato come era, non era più in gardo di vigilare sull’impero e di prendere delle decisioni.
Leopoldo, che si trovava a Pisa, rientrò di corsa a Firenze e nominò subito un consiglio di Reggenza che esercitasse il potere fino alla maggiore età del figlio secondogenito Ferdinando, ma non partì per Vienna. Il motivo non si conosce: egli si giustificò adducendo problemi di salute ma si sospetta che non volesse arrivare a Vienna prima della morte di Giuseppe per non farsi condizionare nelle decisioni da prendere. Trascorse quei giorni a scrivere lettere a fratelli e sorelle in cui appare chiaro il suo proposito di capovolgere la politica dell’Imperatore. Leopoldo era deciso a firmare la pace con i Turchi, prevenire qualsiasi contrasto con la Prussia e revocare le riforme in Ungheria. Ed è un fatto che si decise a dare l’addio a Firenze solo dopo la notizia della morte di Giuseppe.
Lasciò un lungo rapporto al figlio Ferdinando che rappresenta un bilancio dei suoi venticinque anni di regno, dando poi un ritratto dei suoi sudditi sotto certi aspetti ancora attuale. L’amore per Firenze e per i suoi sudditi non gli faceva velo ma in reatà qualsiasi sentimento non gli faceva velo. Guardava uomini e cose con distacco senza mai lasciarsi condizionare da simpatie o antipatie. Era un uomo caldo solo di sensi ma passioni non ne aveva tranne quella per il lavoro che era la sua medicina. Aveva sempre bisogno di fare e di scrivere conscio del fatto di essere un protagonista.
Gli sguardi dell’Europa erano rimasti appuntati sulla Toscana vista come il gabinetto sperimentale dell’assolutismo illuminato. Nonostante lo scatto di grado dal trono granducale a quello imperiale, Leopoldo partì da Firenze con “ la morte nel cuore ” e preoccupato per ciò che avrebbe trovato a Vienna. Il suo attaccamento alla Toscana era l’attaccamento di venticinque anni di vita, i più belli, quelli della giovinezza e della maturità. Firenze fu per Leopoldo il potere e il successo. Alla Toscana, un paese dissestato e diviso, aveva dato le migliori leggi d’Italia, la migliore amministrazione, un bilancio in pareggio, una moneta sicura, omogeneità e anche un certo slancio imprenditoriale. La Toscana era la sua “creatura”.
Tra i tanti rimpianti che provò nel dare l’addio a Firenze fu quello per Livia Raimondi, la sua relazione più duratura che aveva provocato un piccolo dramma, non da parte di Maria Ludovica, ormai abituata, ma della favorita in carica, Anna Cowper. Leopoldo sistemò Livia in un buen ritiro, dove oggi è insediato il “Circolo degli ufficiali” e dove esiste ancora una “Sala della Livia” con il soffitto affrescato rappresentante una cicogna circondata da puttini. L’allusione è chiara: Livia era incinta e il frutto di questa relazione fu un figlio cui venne dato il nome di Luigi. A questa sua seconda famiglia Leopoldo era molto attaccato e quando dovette partire per Vienna provvide comunque ad assicurare a Livia una dote e una pensione vitalizia. Quanto al figlio Luigi, gli fu dato il cognome di von Grun, studiò all’Università di Vienna ed entrò nell’amministrazione ma morì ancora giovane.
Anche nell’impero Leopoldo II fu l’artefice di una politica di riforme non perdendo mai di vista la realtà della situazione. In politica estera, di fronte alla Rivoluzione Francese, mantenne un atteggiamento di vigilante attesa, poco propenso a immischiarsi nelle vicende interne della Francia senza un accordo con le altre potenze. Morì a Vienna nel 1792 per una peritonite.
bibliografia usata:
Maria Teresa d'Austria - Edgarda Ferri
Maria Teresa d'Austria - Franz Herre
Storia d'Italia - Indro Montanelli e Roberto Gervaso
La Toscana di Pietro Leopoldo Pietro Leopoldo - A. Wandruszka