L'opera buffa, una specialità tutta italiana
Nel primo periodo del XVIII secolo, il melodramma continuò a diffondersi rimanendo sempre una specialità italiana, al punto che molti artisti del nostro paese furono frequentemente assunti presso le corti di tutta Europa.
Nel campo operistico si ebbe la progressiva divisione fra il genere serio, con trame derivate per lo più dalla storia dell'antichità, e il genere buffo, con vicende ambientate invece nello stesso Settecento e con personaggi tipici del mondo popolare e borghese ( il vecchio borghese, la servetta astuta, il marito geloso).
La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi, rappresentata a Napoli nel 1733, ha una posizione di tutto riguardo nella storia dell'opera: ad essa, infatti, si fanno risalire le origini dell'opera buffa, che ebbe nella seconda metà del Settecento un grande sviluppo e raggiunse con Rossini, nell'Ottocento, la sua perfezione. L'esecuzione parigina del 1752, accolta entusiasticamente dagli intellettuali che lavoravano all' Enciclopedia, suscitò la celebre querelle des bouffon , vivace polemica tra sostenitori della musica francese e quella italiana, nella quale Jean-Jacques Rousseau si schierò decisamente per quest'ultima.
Il duetto finale della Serva Padrona di Giovan Battista Pergolesi (1733)
Nel genere serio l'attenzione del pubblico e del compositore era rivolta soprattutto al cantante e alla sua abilità vocale; nel genere buffo invece si richiedevano agli interpreti non tanto grandi capacità tecniche ma vivacità scenica, spontaneità e naturalezza; non a caso molti interpreti dovevano sovente cantare in dialetto; la trama poi era tutta fondata su vicende incalzanti, ricche di scambi di persona, di burle, di inganni e la musica cercava di sottolineare questo continuo intreccio di situazioni.
Nel primo periodo che si estese fino al 1730 circa, l'opera buffa godette di un successo esclusivamente popolare. I cantanti scritturati (basso comico, tenore, soprano, mezzosoprano) erano di second'ordine o peggio; lo stile vocale era semplice e alieno dai virtuosismi del bel canto. Tra i primi compositori che diedero saggi di questo tipo, troviamo A. Orefice e L. Vinci, oltre ad Alessandro Scarlatti, che usò un testo in lingua italiana (invece che in dialetto) per il Trionfo dell'onore. Successivamente questo genere prese sempre più piede, e insigni musicisti si dedicarono all'opera buffa creando veri capolavori sia dal punto di vista stilistico, con un maggior rilievo dell'orchestra e un progressivo svilippo dei concertati e dei pezzi d'assieme, sia da punto di vista psicologico, con una più raffinata caratterizzazione dei personaggi.
I primi anni del Settecento segnarono anche la piena affermazione di una forma affine all'opera buffa, l'intermezzo, una semplice e breve vicenda, con due o tre personaggi al massimo, che veniva rappresentata negli intervalli dell'opera seria: a questo proposito "La serva padrona" di Pergolesi contribuì enormemente al successo europeo del genere, soprattutto dopo che nel 1752 venne rappresentanta a Parigi, dando il via a vivaci polemiche tra coloro che sostenevano i pregi di freschezza del nuovo stile italiano e quelli che difendevano invece la compostezza dell'opera seria francese.
Grandi personalità nel campo dell'opera buffa furono Paisiello, Domenico Cimarosa (Il matrimonio segreto) e, a Venezia Baldassarre Galuppi e Piccinni, che musicarono testi di Goldoni. Erede dell'opera buffa, nell'ottocento, fu Rossini che diede i massimi e ultimi capolavori del genere (L'Italiana in Algeri, Il barbiere di Siviglia).
L'opera seria
Nel Settecento il libretto acquistò, grazie all'opera di poeti quali Zeno e Metastasio, un'alta dignità letteraria. La struttura musicale assunse al contrario l'aspetto schematico di una sistematica alternanza di recitativi, cui era affidato lo sviluppo dell'azione, e di arie che assolvevano la funzione di pause liriche e presentavano una scrittura vocale altamente virtuosistica; l'orchestra non aveva episodi autonomi a eccezione della sinfonia d'apertura, in tre movimenti (allegro, adagio, allegro) mentre praticamente assente era il coro.
Questo modello operistico destinato ad imporsi in pochi decenni su tutte le scene europee si sviluppò soprattutto nell'ambito della scuola napoletana, che contò tra i suoi primi rappresentanti F. Provenzale e A. Scarlatti: quest'ultimo in particolare elaborò i modelli stilistici successivamente ripresi da Porpora, Vinci, Leo, Hasse, Pergolesi e in parte da Handel. A tale schema formale si attenne la maggior parte dei musicisti italiani del secondo Settecento: Latilla, Piccinni, Sarti, Sacchini, Salieri; una sua diretta influenza si percepisce anche nelle prime opere di Gluck e nelle opere serie di Mozart.
L'opera seria si rinnova
Facendo seguito ai tentativi di alcuni operisti quali Jommelli e Tommaso Traetta di superare il rigido schematismo dell'opera seria, Gluck si fece promotore, con Orfeo (1762) e con Alceste (1767), di una riforma volta a valorizzare l'elemento poetico, subordinato dagli Italiani agli astratti valori musicali, a contenere il virtuosismo vocale, a conferire maggiore libertà formale alla struttura delle arie e degli atti, a potenziare le parti, a colmare la distanza stilistica tra recitativo e aria, a superare infine attraverso un'intuizione drammatica più semplice e incisiva l'aulica e distaccata intonazione espressiva dell'opera italiana.
Atto II scena 3° dell'opera Alceste di C.W.Gluck (1767)
Le opere di Gluck ebbero una notevole influenza sull'ambiente musicale francese e su alcuni dei maggiori operisti italiani del tardo settecento e del primo ottocento: in particolare Sacchini, Spontini, Salieri e Cherubini.
In misura inferiore condizionarono l'opera di Mozart che, da un lato, si rifece allo schema dell'opera seria italiana (La clemenza di Tito), dall'altro, attuò una sintesi del dramma serio con elementi stilistici dell'opera buffa e del sinfonismo strumentale (Le nozze di Figaro, Don Giovanni) e proseguì la tradizione tedesca del Singspiel (Il ratto del serraglio, Il Flauto magico).