Thomas Hobbes (Inghilterra, 1588 – 1679) fu il primo tra i grandi filosofi moderni che cercò di mettere la dottrina politica in stretta relazione con un sistema di pensiero moderno e che si sforzò di rendere questo sistema tanto vasto da spiegare scientificamente tutti i fatti naturali, ivi compresa la condotta umana nel suo aspetto individuale come in quello sociale. Egli formulò una vera scienza della politica, che costituiva parte integrale della sua concezione complessiva del mondo naturale e che era svolta con straordinaria chiarezza. Per questo egli fu utile anche a quei pensatori che cercarono di confutarlo.
La dottrina politica non fu che una parte di quel sistema universale ch’egli intese costruire su principi scientifici e che si definirebbe oggi come un sistema materialistico. Si dedicò tardi allo studio di matematica e fisica non acquistando perfetta padronanza, ma capì Hobbes il fine cui tendeva la nuova scienza della natura. Essa suggeriva l’idea rivoluzionaria che il mondo fisico non sia che un sistema meccanico, in cui tutto ciò che avviene può essere dimostrato con precisione geometrica dallo spostamento reciproco dei corpi. Il trionfo della scienza fondata su questo principio - costituito dalla teoria del moto planetario di Newton doveva essere molto più tardo, ma Hobbes intuì il principio e ne fece centro del suo sistema. In fondo ogni avvenimento non è che un movimento e ogni forma di processo naturale deve essere spiegata analizzando le complesse apparenze dei moti fondamentali di cui consistono. Egli concepì così un sistema filosofico in tre parti, di cui la prima doveva trattare del corpo e comprendere ciò che ora chiameremo geometria e meccanica; la seconda, della fisiologia e della psicologia degli individui; la terza, e conclusiva, del complesso di tutti i corpi, del corpo « artificiale », che si chiama società o stato.
La filosofia di Hobbes intendeva dunque assimilare la psicologia e la politica alle scienze fisiche esatte. Tutta la conoscenza nel suo insieme è una cosa unica, di cui la meccanica dà il modello.La dimostrazione non era affatto empirica ed egli non pensava che le sue conclusioni dovessero derivare dall’osservazione sistematica. Senza dubbio le considerava vere e di conseguenza le illustrava spesso riferendosi ai fatti, ma questi riferimenti erano più illustrazioni che induzioni. Buon metodo voleva dire per lui trasportare ad altre materie quella forma di pensiero che aveva condotto a risultati così brillanti nella geometria. Il segreto della geometria consiste nel fatto ch’essa parte dalle cose più semplici e quando giunge ai problemi più complessi si serve soltanto di ciò che ha precedentemente dimostrato. La solidità della costruzione dipende così dal fatto che niente è dato per ammesso ed ogni progresso è garantito da ciò che precede, da tutto il cammino precedente fin dalle verità in sé evidenti da cui parte la costruzione.
L'istinto di autoconservazione
Hobbes partendo da semplici considerazioni elaborò un sistema filosofico, che qui non tratterò per arrivare a spiegare la psicologia degli uomini e di concerto il funzionamento della società. Così diceva nel Leviatano:
Io sostengo che è inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di potere oltre il potere, che cessa soltanto con la morte. E questo non sempre perchè un uomo speri una gioia più intensa di quella che ha già raggiunto, o perchè non possa accontentarsi di un più modesto potere: ma perchè egli non può assicurarsi il potere e i mezzi per una vita buona come quella che conduce, se non acquistando di più.
Il bisogno apparentemente modesto di sicurezza equivale perciò a un bisogno infinito di potere d’ogni sorta, ricchezza o posizione o reputazione o onore: di tutto ciò che può insomma stornare l’inevitabile distruzione che alla fine deve pur raggiungere tutti gli uomini. Da queste considerazioni sui moventi umani, deriva la definizione dello stato dell’uomo fuori della società. Ciascun essere umano è mosso soltanto da considerazioni che tocchino la sua sicurezza e il suo potere, e gli altri esseri umani valgono di conseguenza per lui soltanto in questo senso. Dato che gli individui sono eguali in potenza ed astuzia, nessuno può essere mai sicuro, e la condizione degli uomini, finché non c’è potere civile che ne regoli la condotta, è quindi «guerra di tutti contro tutti».
Nella natura umana, egli dice, ci sono due principi: desiderio e ragione. Il primo spinge gli uomini a prendere per sé ciò di cui altri uomini hanno bisogno e così li mette l’uno contro l’altro, mentre la ragione insegna loro a « fuggire una distruzione contro natura ». Ciò che la ragione aggiunge non è un movente nuovo, ma un potere regolatore, per cui la ricerca della sicurezza diventa più efficace, senza cessare di seguire la norma generale dell’autoconservazione. C’è un desiderio di possesso violento che causa l’antagonismo e c’è invece un egoismo più calcolato che porta l’uomo alla società.
Prima dell’istituzione della società, l’uomo naturale è un essere quasi non-razionale; nell’istituire e nel condurre lo stato egli mostra invece delle capacità di raziocinio preternaturali. Per essere sociale egli deve essere l’egoista perfetto e gli egoisti di questa sorta sono rari. Se gli uomini fossero così selvaggi e anti-sociali come sono rappresentati nel loro stadio pre-sociale, non sarebbero mai capaci di costituire un governo. Se fossero abbastanza ragionevoli per costituire un governo, non ne sarebbero mai stati privi. Il paradosso è dovuto al fatto che la rappresentazione dell’origine della società è derivata dalla fusione delle due parti di una psicologia analitica. Per una convenzione psicologica, Hobbes considera il movente come se fosse radicalmente irrazionale, e nello stesso tempo si fonda sulla ragione per quel regolamento dei moventi che soli rendono possibile la società.
La materia prima della natura umana che deve condurre alla società consiste dunque di due elementi in contrasto, desiderio e avversione primitivi, da cui derivano tutti gli impulsi e le emozioni; e la ragione, da cui l’azione può essere volta in modo intelligente al fine dell’autoconservazione.
La legge di natura è un precetto, o una regola generale, trovata dalla ragione, che impedisce a un uomo di fare ciò che distrugge la sua vita o lo priva dei mezzi per preservarla; e di trascurare ciò che pensa possa meglio preservarla.
Sostanzialmente tutte le leggi di Hobbes si riassumono in questo: la pace e la cooperazione servono all’autoconservazione più che la violenza e la competizione generale, e la pace richiede fiducia reciproca. Per la legge della sua natura, l’uomo deve cercare di raggiungere la sicurezza. Se egli deve fare questo sforzo da sé, si può dire ch’egli ha il « diritto» di prendere o di fare ciò che egli suppone conduca al suo scopo. Questo uso della parola diritto, come Hobbes riconosce, è assolutamente figurato, perchè realmente rappresenta in questo caso un’assenza totale di diritto, in qualsiasi senso legale e morale: ma una considerazione intelligente dei mezzi e dei fini dimostra «che ciascuno dovrebbe cercare la pace, per quanto spera di ottenerla». Il « dovrebbe » significa solamente che qualsiasi altro metodo è, in definitiva, e quando praticato da tutti gli uomini, rovinoso per la sicurezza desiderata. Ne deriva che un uomo dovrebbe essere « disposto, quando gli altri lo siano altrettanto, finché si tratti della pace, e finché egli lo creda necessario per la sua difesa, a lasciar perdere questo diritto a tutte le cose, e ad accontentarsi di tanta libertà rispetto agli altri uomini, quanta ne permetterebbe agli altri uomini rispetto a sé ». Praticamente tutta l’importanza di questa legge è data dalla clausola « quando anche gli altri siano », giacché sarebbe dannosissimo concedere la libertà agli altri, se essi non la concedessero eguale a te. La prima condizione della società consiste quindi nella fiducia reciproca e nel mantenimento dei patti, che non possono essere mantenuti se non si parte dal presupposto razionale che altre persone vogliano unirsi con te sullo stesso piano.
Poiché tutta la condotta umana è determinata dall’egoismo individuale, la società deve essere considerata solo un mezzo per il raggiungimento di questo fine. Hobbes era nello stesso tempo l’utilitarista radicale e il perfetto radicale individualista. Il potere dello stato e l’autorità della legge sono giustificati soltanto perchè contribuiscono alla sicurezza degli individui umani, e l’obbedienza e il rispetto per l’autorità non sono ragionevoli a meno che non promettano di procurare un vantaggio individuale superiore a quello del loro contrario. Il benessere sociale come tale scompare interamente, sostituito da una somma di egoismi separati.
Questo netto individualismo fece della filosofia di Hobbes la dottrina più rivoluzionaria del suo tempo. Essa costituisce infatti un perfetto solvente di tutta la lealtà, la riverenza, ed il sentimento su cui si era fondata la monarchia. Con Hobbes il potere della tradizione è per la prima volta nettamente spezzato da un chiaro e freddo razionalismo. Lo stato è un leviatano, ma nessuno ama ed onora un Leviatano. Esso ha solo un fine utilitario ed è buono per ciò che fa, ma soltanto in quanto serve alla sicurezza privata. In questa sua argomentazione Hobbes sintetizzava una concezione della natura umana che risultava da due secoli di decadenza dell’economia e delle istituzioni sociali. Inoltre egli coglieva già lo spirito che avrebbe animato almeno per altri due secoli il pensiero sociale, quello del laissez faire.
La sovranità e la corporazione fittizia
La teoria sulla sovranità di Hobbes deriva da questa considerazione: dato che la società si fonda sulla fiducia reciproca, il primo passo successivo deve evidentemente spiegare come essa sia ragionevolmente possibile. Gli uomini non si accordano spontaneamente tanto da rispettare i diritti reciproci e, a meno che tutti non lo facciano, è irragionevole per chiunque rinunciare ad aiutarsi come può. Il rispetto dei patti si può ragionevolmente sperare soltanto quando esista un governo effettivo che punisce i trasgressori.
I patti senza la forza sono soltanto parole, e non possono dare ad un uomo nessuna sicurezza.’ I vincoli delle parole sono troppo deboli per imbrigliare l’ambizione, l’avarizia, la collera, e le altre passioni degli uomini, quando non ci sia il timore di un potere coercitivo.
Hobbes giustifica la forza con l’antico espediente del contratto per cui tutti rinunciano ad aiutarsi da sé e si sottopongono ad un sovrano: Io concedo ed affido il mio diritto di autogoverno a questo uomo, o a questa assemblea, a condizione che tu gli conceda anche il tuo e ne autorizzi del pari tutte le azioni. Questa è la generazione dei grande Leviatano, o piuttosto del Dio Mortale, cui noi dobbiamo, sotto il Dio Immortale, la nostra pace e la nostra difesa.
Il pensiero di Hobbes su questo punto può forse essere espresso più precisamente usando il concetto legale di corporazione, invece che di contratto, com’egli fece nel “De Cive”. Una mera moltitudine, egli dice, non può avere dei diritti e non può agire; solo gli individui possono farlo. Dire che un corpo di uomini agisce collettivamente significa effettivamente dire che alcuni individui agiscono in nome di tutto il gruppo, come suoi agenti o rappresentanti accreditati. Se non esiste un rappresentante di questo tipo, il corpo non ha un’esistenza collettiva. Hobbes ne deduce che non è il consenso ma l’«unione» che fa una corporazione, e unione significa sottomissione della volontà di tutti alla volontà di uno. La corporazione non è realmente un corpo collettivo ma una persona, il suo capo o direttore, la cui volontà sarà accolta come la volontà di tutti i suoi membri. Lo stato è unico a non avere superiori, esistendo le altre corporazioni solo per suo permesso.
Da questa idea il pensiero hobesiano arriva a importanti considerazioni: ogni distinzione tra società e stato non è che confusione, e lo stesso si può dire della distinzione tra lo stato e il suo governo. A meno che non esista un governo tangibile non esiste stato né società, ma soltanto una folla «senza capo». Anche ogni distinzione tra legge e morale è una confusione. La società ha infatti solo una voce con cui può parlare e solo una volontà che può far valere, quella del sovrano, che fa di essa una società. Per lui non c’è scelta se non tra il potere assoluto e la completa anarchia, tra un sovrano onnipotente e la mancanza assoluta di società. Un corpo sociale esiste infatti soltanto attraverso le sue autorità costituite, ed i suoi membri non hanno diritti che alla delega. Tutta l’autorità sociale deve essere quindi concentrata nel sovrano. Legge e morale sono solamente la sua volontà, e la sua autorità è illimitata, ovvero è limitata soltanto dal suo potere, per la buona ragione che non esiste altra autorità s’egli non la permette. La sovranità è indivisibile e inalienabile, perchè o la sua autorità è riconosciuta e uno stato esiste, o non è riconosciuta ed esiste l’anarchia. Tutti i poteri necessari del governo come la legislazione, l’amministrazione della giustizia, l’esercizio della forza e l’organizzazione delle magistrature in sottordine sono inerenti al sovrano.
Per fini polemici egli accentuò il fatto che l’opposizione all’autorità non si può mai giustificare, dato che la giustificazione richiederebbe la approvazione dell’autorità stessa. Però l’opposizione si verificherà effettivamente ove il governo non sappia dare quella sicurezza che è l’unica ragione per cui i sudditi si sottomettono ad esso. L’unica ragione che giustifica l’esistenza del governo il fatto che esso effettivamente governi. Se la resistenza è fortunata ed il sovrano perde il suo potere, egli cessa ipso facto d’essere sovrano ed i suoi sudditi cessano d’essere sudditi. Essi sono allora ricondotti alle loro risorse individuali di autoprotezione e possono giustamente prestare la loro obbedienza a un nuovo sovrano che può proteggerli.
Non esistono forme di governo corrotte; il popolo accusa di corruzione un governo chiamandolo tirannide e oligarchia, solo perchè non gli piace come esercita il potere; usa invece termini di approvazione come monarchia o democrazia, quando gli piace. A Hobbes, vissuto in periodi tribolati, l’aspirazione a una giustizia e a un diritto maggiore non gli sembrava altro che una confusione intellettuale. L’odio per la tirannide gli sembrava soltanto antipatia per un particolare esercizio di potere e l’entusiasmo per la libertà o sentimentalismo chimerico o totale ipocrisia.
Dato che le leggi di natura stabiliscono soltanto i principi razionali su cui uno stato può essere costruito, esse non costituiscono limiti all’autorità del sovrano. L’argomentazione di Hobbes suona come un gioco di parole, ma ha una sua ragione. Nessuna legge civile, egli dice, può mai essere contraria alla legge di natura; la proprietà può essere un diritto naturale, ma la legge civile definisce la proprietà, e se un particolare diritto è estinto, esso cessa d’essere proprietà e non è più incluso nella legge di natura. I limiti di un sovrano non gli sono imposti dalla legge di natura, ma dal potere dei suoi sudditi. Il sovrano di Hobbes ha di fronte una condizione e non una teoria, ma non può esserci nessuna limitazione di legge civile nel suo campo. La concezione di Bodin di una legge costituzionale che limita la competenza del sovrano è totalmente scomparsa.
Stato e chiesa
La dottrina di Hobbes della sovranità compie il processo di subordinazione della chiesa al potere civile che era cominciato quando Marsilio da Padova aveva portato alla sua logica conclusione la separazione dell’autorità spirituale da quella temporale. Per un materialista come Hobbes, la spiritualità diventa un mero fantasma, un’invenzione dell’immaginazione. Egli non nega che esista qualche cosa di simile a una rivelazione o a verità spirituali, ma non c’è niente da dire intorno ad esse.
Perchè con i misteri della nostra religione è come con le pillole salutari per il malato, che, inghiottite intere, hanno la virtù di curare; se masticate, sono per lo più rigurgitate, senza effetto alcuno.’
Egli considerava la fede nelle sostanze immateriali un errore cardinale derivato da Aristotele e propagato dal clero a proprio vantaggio; è il lato metafisico di quell’altro errore cardinale, che consiste nella fede che la chiesa sia il regno di Dio ed investita quindi di un’autorità diversa da quella dello stato. Hobbes affetta ancora di credere che la fede non possa essere imposta, ma la professione di fede è un atto aperto e perciò cade nell’ambito della legge. La libertà di fede è affatto inefficace per quanto riguarda le conseguenze esterne. L’osservanza e la professione di fede, il canone dei libri religiosi, il credo ed il governo della chiesa, se hanno qualche autorità, la derivano dal sovrano. Non esistendo un modello obiettivo di verità religiosa, la costituzione di qualsiasi fede o forma di culto deve essere un atto della volontà del sovrano.
Perciò la chiesa è per Hobbes una corporazione, deve avere un capo e il capo ne è il sovrano, governo spirituale e temporale sono identici. Hobbes sostiene ancora, come Marsilio, che dovere della chiesa è d’istruire, ma aggiunge che nessuna dottrina è legittima, quando non sia autorizzata dal sovrano. Egli le attribuisce meno importanza morale di Machiavelli. Sembra che il desiderio di libertà di coscienza, come desiderio di libertà politica, sia apparso al suo intelletto solo una prova di confusione mentale, e che la forza di una convinzione religiosa profonda gli sia stata del tutto ignota. Ciò nonostante le questioni ecclesiastiche avevano ancora gran posto nel suo pensiero politico, giacché egli dedicò loro quasi metà del Leviatano. Da questo punto di vista il pensiero inglese dovette avere uno sviluppo molto rapido tra 1650 e la fine del secolo. Quando Locke scrisse, infatti, quarant’anni dopo, poteva considerare la separazione di politica e religione molto più effettiva di quel che Hobbes non avesse mai immaginato.