Filippo Bruno - il futuro Giordano - nasce a Nola nel 1548. Il padre Giovanni è un modesto gentiluomo dedito al mestiere delle armi, al servizio di grandi nobili della regione. La madre, Fraulisa Savolino, è una donna di discreta cultura: inizia il figlio all'amore del bello, della poesia, e della contemplazione della natura. A 17 anni il giovane si presenta al monastero di San Domenico Maggiore a Napoli. Il 15 Giugno 1565 veste l'abito di novizio dell'Ordine dei Frati Predicatori. Nel 1573 viene ordinato sacerdote. Nel 1575 si laurea in teologia; l'anno successivo lascia il convento, "prigione angusta e nera", e fugge a Roma. Nel 1579 giunge a Ginevra dove si converte al Calvinismo, ma anche qui ha uno scontro con le autorità della città riformata: è processato e costretto a una ritrattazione. Passa i due anni successivi a Tolosa come rettore di filosofia nell'università locale. Nel 1581 va a Parigi, dove rimane fino al 1583. Nel frattempo si diffonde la fama della sua memoria prodigiosa: dedicatosi giovanissimo alla mnemotecnica, interiorizza lunghe serie di immagini legate al sistema astrologico e zodiacale aumentando i confini della propria mente. Attraverso il metodo mnemotecnico si cerca di dominare la natura e il proprio spirito diventando "maghi".
La magia dell'universo
Tutto il pensiero di Bruno è fondato su un'intuizione tipicamente magica dell'universo inteso come un tutto unitario, un grande essere animato dove Dio viene a coincidere con la natura stessa. L'universo viene da lui descritto come infinito: è un sostenitore entusiasta della teoria eliocentrica di Copernico e si rappresenta un cosmo dove le stelle diventano soli al centro di infiniti mondi. L'universo stesso non ha alcun centro, è piuttosto vita che infinitamente si ricrea e si espande. A Parigi il filosofo viene a contatto diretto col re Enrico III, cultore di esoterismo, che resta affascinato dal nolano e gli assegna una cattedra di lettore al College de France. Ma la situazione si fa di nuovo problematica, così Bruno decide di passare in Inghilterra.
Un continuo perigrinare
Nel 1583 sbarca a Dover. Dimora presso Michel de Castelnau, ambasciatore del re di Francia presso la regina d'Inghilterra. Scrive alcune delle sue opere fondamentali, dove ormai è giunta a un pieno sviluppo la sua visione metafisica. Successivamente compie una serie di viaggi attraverso le più importanti città tedesche. Nel 1590 è a Francoforte, il massimo mercato librario d'Europa. Qui Bruno viene raggiunto dall'invito di un giovane nobile veneziano, Giovanni Mocenigo, che ha acquistato a Venezia una sua opera e vuole conoscerlo di persona per apprendere da lui l'arte della memoria. Il nolano arriva a Venezia nel 1591 e si trasferisce a casa del Mocenigo. Un'ipotesi credibile sostiene che Bruno torni in Italia mosso dal desiderio di realizzare un vasto, utopistico programma di riforma politica e religiosa che lo avrebbe dovuto vedere nel ruolo di guida. Sicuramente Bruno ripone delle speranze nel nuovo papa recentemente eletto, che ha fama di essere uomo mite e ragionevole. Inoltre è convinto di poter superare ogni difficoltà grazie alla forza fascinatrice derivata dalle sue pratiche magiche, che avrebbero dovuto consentirgli di soggiogare le persone influenti, essenziali alla realizzazione del suo progetto.
La convivenza col Mocenigo si rivela ben presto problematica: il nobile veneziano comincia a non vederlo di buon occhio, l'insegnamento che il nolano gli impartisce non lo soddisfa, forse prova un po’ d’invidia; fatto sta che comincia a meditare il tradimento, e la situazione precipita quando Bruno manifesta l'idea di voler partire nuovamente per Francoforte. Il Mocenigo lo rinchiude in un solaio con l'aiuto di un servo e cinque gondolieri, quindi ricatta il suo prigioniero minacciandolo di denunciarlo all'Inquisizione se egli non rinuncia a partire. Bruno è infuriato, e non mostra di dare molto credito alle minacce del Mocenigo. Questi, vista la reazione del nolano, comincia a spaventarsi: la mattina dopo manda a chiamare un capitano di giustizia, e Bruno viene condotto nel carcere del tribunale del Sant'Uffizio.
Il tradimento di Mocenigo
Le denunce che sporge il Mocenigo sono tre, datate 23, 25 e 29 Maggio 1591. Sostiene di avergli sentito dire che è bestemmia grande credere che il pane della messa si transustanzi in carne; che lui è nemico della messa; che nessuna religione gli piace; che Cristo fu un tristo e che, se faceva di tutto per sedurre i popoli, avrebbe dovuto prevedere di finire appeso; che in Dio non c'è distinzione di persone, perchè questa sarebbe un'imperfezione; che il mondo è eterno e che ci sono infiniti mondi; che Cristo faceva miracoli apparenti ed era un mago, così come gli apostoli; che Cristo morì mal volentieri, e fece di tutto per sfuggire alla morte; che non esiste punizione alcuna per i peccati, e che le anime create dalla natura passano da un animale all'altro; che la Vergine non può aver partorito; che i frati sono tutti asini e le loro dottrine sono dottrine d'asini; eccetera eccetera.
Il processo
Il 26 Maggio Bruno viene ascoltato dal tribunale per la prima volta. Per tutta la fase veneta del processo si comporterà seguendo una linea difensiva articolata in tre punti: ammissione parziale di dubbi ed errori, per lo più teologici; negazione ferma di tutte le accuse più volgari (bestemmie, ridicolizzazioni del clero, pareri offensivi su Cristo, eccetera); manifestazione di una ferma volontà di pentimento e ravvedimento. Ma il Mocenigo si reca a testimoniare una terza volta, come abbiamo detto, il 29 Maggio. Alle denunce precedenti aggiunge di aver sentito dire al nolano che il comportamento della Chiesa odierna non è quello che usavano gli apostoli, perché quelli convertivano la gente con le predicazioni e i buoni esempi, mentre ora chi non è cattolico deve sopportare pene e castighi. Sottolinea poi come Bruno lo abbia invitato a indulgere al peccato della carne. A tutte le accuse ne fa da sfondo una più grave: "di aver soggiornato in paesi di eretici, vivendo alla loro guisa".
Nel suo secondo constituto davanti ai giudici veneziani (30 Maggio 1592), Bruno sottolinea di essere andato a Ginevra solo in cerca di condizioni di vita libere, e di non aver mai aderito alla religione protestante, ma di essersi dedicato unicamente alla ricerca e all'insegnamento della filosofia. Insiste sul punto di aver fatto solo filosofia, fondandosi solo sulla ragione naturale e non sui precetti della fede: questo, ammette, può averlo talora indotto in errore. Ammette i suoi dubbi sulla Trinità e sull'incarnazione del Verbo, precisando però che questi dubbi nascevano sempre dall'applicazione del "lume naturale" e non intaccavano in nessun modo la dimensione del credere, della fede. Ma gli inquisitori mostrano di rifiutare, o di non comprendere, la distinzione tra le due sfere. In ogni caso, Bruno è favorito nel difendersi dal fatto che gli inquisitori hanno applicato scrupolosamente e diligentemente le procedure previste dai manuali inquisitoriali, fornendo all'accusato copia dei verbali con le sue confessioni e le accuse o le testimonianze di altri testi.
Bruno confida nel fatto che la Repubblica di Venezia ha una lunga e consolidata tradizione di autonomia dalla Santa Sede: è deciso a chiedere perdono ed è fiducioso sul proprio futuro. Il 30 Luglio 1592 confessa i propri errori gettandosi in ginocchio davanti agli inquisitori. Già questa ammissione di colpevolezza con conseguente richiesta di perdono dovrebbe allontanare da lui il pericolo di una condanna alla pena capitale, che viene data solo nel caso di rifiuto di pentimento e di perseveranza nell'errore.
Giordano Bruno pericoloso per la Chiesa
Ma i giudici sentono di trovarsi di fronte a un caso di rara difficoltà: l’accusato non è una persona qualsiasi ma un filosofo di raffinata preparazione, anche in campo teologico; un uomo che ha scritto opere dove argomenta a favore di una visione del mondo e del cosmo straordinariamente originale, che va contro tutte le tradizioni consolidate. Il tribunale di Venezia non si sente all'altezza di un caso così complesso. Ma c'è di più: dal 1581 i tribunali periferici devono far giungere al Sant'Uffizio romano delle sintesi di tutti i processi in corso, e per i casi più complessi è previsto l'invio di una copia completa degli atti. Il caso di Bruno non può non suscitare il massimo interesse del Sant'Uffizio romano, che chiede l'estradizione dell'inquisito a Roma.
Il 27 Febbraio 1593 Bruno entra nel palazzo dell'Inquisizione romana. Gli vengono comunicate le regole che dovrà rispettare nel carcere: vietato parlare o comunicare con i reclusi di altre celle, vietato leggere e scrivere alcunché, a meno che non si tratti di atti riguardanti la propria causa. Vietato spedire lettere dentro o fuori dal carcere. Il recluso ha anche dei diritti, che fanno delle carceri inquisitoriali un luogo mediamente piu' avanzato rispetto alle analoghe istituzioni della giustizia secolare: puo' chiacchierare con i compagni di cella, puo' cambiare la biancheria (lenzuola, tovaglia e asciugamani) due volte la settimana, puo' giovarsi di un bagno, del barbiere, di una lavanderia, ottenere rammendature per i capi di vestiario e una scorta di abiti. Il vitto e' piuttosto curato e non manca il vino. Inoltre, ogni detenuto puo' esporre regolarmente le sue specifiche richieste ai giudici del tribunale. Ogni mese circa, i giudici fanno visita a tutti i carcerati ascoltandoli direttamente su eventuali loro lagnanze.
Il processo continua contro Bruno
Nell'Autunno del 1593 avviene un fatto imprevisto che segnera' una svolta fatale nel processo bruniano: compare un nuovo testimone contro Giordano Bruno, un uomo che era stato suo compagno nel carcere di Venezia. E' Celestino da Verona, un frate cappuccino che verra' arso vivo in Campo dei Fiori il 16 Settembre 1599, pochi mesi prima del nolano. E' un eretico che passera' quasi un decennio nelle carceri dell'Inquisizione e che ritiene di essere stato danneggiato nella sua causa dalle testimonianze rilasciate da Bruno durante il suo processo. Le accuse di fra Celestino si riassumono essenzialmente in nuove bestemmie e offese alla persona di Cristo, invettive contro profeti e vari personaggi biblici, gli ecclesiastici e la Chiesa in generale, negazione dell'esistenza dell'Inferno e credenza nella trasmigrazione delle anime. Le cose si mettono molto male per Bruno, perche' finora il pilastro della sua difesa era consistito nel fatto che vi fosse un unico testimone: il Mocenigo. Ora, invece, si aggiunge Celestino e altri tre testi chiamati in causa dal frate, che confermano almeno in parte le accuse. Bruno si difende con vigore, respingendo con sdegno le accuse piu' offensive o irriverenti e ammettendo di aver detto certe cose sottolineandone pero' il contesto: ad esempio, afferma che era per scherzo se aveva detto che Caino aveva fatto bene a uccidere Abele perche' era un carnefice di animali.
Vengono preparati gli "articuli" ricavati da tutti gli atti processuali, contenenti i 23 capi di accusa. Una copia completa viene consegnata a Bruno, che ha deciso di difendersi da solo rifiutando l'avvocato d'ufficio. Bruno compila gli "interogatoria", un elenco di domande che i giudici proporranno ai testimoni registrando le loro risposte. La procedura e' studiata per evitare o ridurre al minimo possibili suggestioni sui testimoni da parte dei giudici o risposte generiche: ad esempio, ogni accusa deve essere suffragata da minuziose precisazioni circa le parole esattamente udite, l'ora e il luogo, il nome di altre persone presenti, le reazioni dei presenti, il tono di voce usato dall'accusato, i motivi della ritardata denuncia. Sono aspetti importanti che dimostrano come il processo inquisitoriale sia tutt'altro che un luogo di barbarie giuridica: al contrario, molte delle innovazioni piu' importanti del successivo diritto penale hanno origine proprio nelle procedure del Sant'Uffizio.
Dopo aver studiato tutti gli atti del processo, il 20 Dicembre 1594 Bruno consegna agli inquisitori le sue difese, in una memoria di 80 pagine. La causa sarebbe finita e bisognerebbe solo aspettare la sentenza, ma subentra un'altra svolta improvvisa: il papa in persona, Clemente VIII, fa notare che manca un'esatta ricognizione dei contenuti delle opere a stampa del filosofo, e ordina che venga realizzata. Si decide cosi' di sospendere la sentenza. La censura dei libri dura dal 1595 al '97, a causa dell'oggettiva difficolta' di reperire tutti i testi.
Anziche' accettare le censure che gli vengono mosse sui contenuti delle sue opere, Bruno avanza una serie di argomentazioni a favore della sua tesi filosofica centrale, quella relativa all'infinita' dei mondi. Insiste nel tenere distinti i due piani: quello della ragione naturale, impiegata per comprendere la natura, e quello della fede e della grazia, riferito alle cose divine. Gli inquisitori lo intimano di abbandonare queste opinioni eretiche. Il nervosismo dei membri del tribunale e' aumentato dal fatto che, delle numerose testimonianze contro Bruno, solo quella del Mocenigo e' del tutto valida: gli altri testimoni sono tutti eretici e perseguiti per vari crimini, e secondo le procedure inquisitoriali non devono essere considerati come pienamente attendibili, per cui il requisito delle due testimonianze per ogni capo d'accusa vi era solo formalmente, ma non sostanzialmente. In questi casi, l'unica via di uscita e' una piena confessione da parte dell'accusato, da ottenere al limite anche con la tortura.
Abiurare non basta?
All'inizio del 1599 ci si avvia alla conclusione della causa. Il caso e' uno dei piu' intricati che l'Inquisizione si sia mai trovata a gestire, e non a caso entra a far parte della corte giudicante anche il cardinal Bellarmino, colto e dotto teologo che sara' pochi anni piu' tardi protagonista dei processi a Galileo. Bellarmino propone di estrarre dagli atti un insieme di proposizioni sicuramente eretiche sulle quali invitare Bruno a esprimersi, chiedendogli di abiurarle. Vengono estratte dalle accuse otto asserzioni principali. Una copia e' consegnata a Bruno, e gli vengono dati 3 giorni di tempo per decidersi all'abiura.
Se Bruno decidesse di abiurare avrebbe salva la vita, e sarebbe probabilmente condannato a una detenzione di diversi anni, magari in qualche convento del suo Ordine: infatti malgrado sia colpevole di eresia non e' relapsus, ossia e' la prima volta che subisce una condanna. Se viceversa non abiura, ha la certezza di venir condannato a morte come impenitente. Allo scadere dei termini concessi, Bruno si mostra disposto all'abiura a condizione che i suoi errori vengano considerati tali solo hic ex nunc, ovvero errori compiuti circa una materia sulla quale la Chiesa non aveva ancora espresso un chiaro parere. Ovviamente, in questo caso la sua posizione sarebbe meno grave e potrebbe uscirne con danni minori. Ma i giudici non concedono a Bruno nessuna scappatoia, ribadendo che tutti gli errori e le affermazioni eretiche contestategli sono tali da sempre per la dottrina cattolica. Il 15 Febbraio 1599 il filosofo viene chiamato dinanzi ai giudici e invitato ad abiurare: se accetta di confessarsi pentito verra' poi preparato un testo molto piu' esteso per l'abiura conclusiva e pubblica; in caso contrario avra' i 40 giorni di tempo che vengono concessi ai pertinaci, prima di un esito inevitabilmente fatale. Bruno si arrende e decide di abiurare.
Ostinato nelle sue tesi
Ma c'e' l'ennesima svolta: il 5 Aprile, Bruno consegna ai giudici uno scritto in cui su due delle otto proposizioni sembra avanzare delle riserve. La causa subisce una nuova, lunga pausa e viene nuovamente discussa il 24 Agosto, alla presenza di papa Clemente VIII. Il papa ordina che venga invitato ad abiurare su un nuovo elenco di proposizioni. Il 10 Settembre il filosofo riceve il perentorio invito all'abiura delle nuove proposizioni, vedendosi assegnare il termine di 40 giorni. Sei giorni dopo si mostra disposto a riconoscere i suoi errori e dare corso a un'abiura completa, ma in quella stessa sede consegna un memoriale indirizzato a Clemente VIII in cui argomenta ancora a favore delle sue tesi. Il documento irrita profondamente il pontefice e i giudici perche' sembra attestare la definitiva ostinazione dell'inquisito.
Dopo gli ultimi sviluppi, viene dato a Bruno un ulteriore termine di 40 giorni entro i quali mostrarsi disposto a un'abiura piena e senza riserve. Il termine scade il 17 Novembre, ma il filosofo rimane nelle sue posizioni. La sua impenitenza e' ormai irriducibile. Non e' un bel colpo per l'Inquisizione, visto il valore dell'accusato e il suo essere noto a livello internazionale. Il 21 Dicembre 1599, in deroga al fatto che la causa sia ormai formalmente conclusa, il nolano viene di nuovo invitato a pentirsi; lo stesso invito gli viene rivolto dai due piu' importanti responsabili dell'Ordine domenicano. Se si pente, puo' avere ancora salva la vita. Ma Bruno ormai ha deciso, e non ritratta nulla.
La sentenza di morte
Il 20 Gennaio 1600 Clemente VIII ordina che si emetta la sentenza di morte e che il detenuto venga consegnato alla giustizia secolare come eretico pertinace e impenitente. Dopo che gli viene letta la sentenza, Bruno pronuncia le ultime parole di cui ci sia giunta testimonianza certa: Forse avete piu' timore voi nel pronunziare la mia sentenza, che io nel riceverla!
La mattina del 17 Febbraio 1600, Bruno viene condotto in piazza Campo dei Fiori, presso il teatro di Pompeo: il luogo dove venivano eseguite le condanne al rogo. La pira e' elevata al centro della piazza. Quando un monaco gli avvicina per l'ultima volta un crocifisso al volto, Bruno si gira dall'altra parte con lo sguardo sprezzante e carico di amarezza. Secondo quanto scrive Luigi Firpo, "diceva che moriva martire et volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso".