Francisco de Quevedo y Villegas (1580-1645) cresce in una famiglia borghese della piccola nobiltà fondiaria che viveva in città e che ancora faceva perno su antichi valori nobili, il privilegio del sangue e il disprezzo del commercio. La sua educazione fu di alto livello a corte, ove il padre svolgeva un modesto ufficio di segretario e la madre era dama della regina. Ventenne ebbe un brillante esordio letterario pubblicando i primi versinell’antologia cortigiana del 1604 vivendo il sogno di una vita ispirata agli ideali cavallereschi del disinteresse e dell’eroismo, allietata dai piaceri e dall’amore.
La realtà della camarilla era però ben diversa: intrighi, corruzione della corte e le prevaricazioni del potere, uno spettacolo che gli provocava il desiderio di fuga, inducendolo ad astrarre dalla storia e a mitizzare l’istituzione monarchica, e la classe aristocratica, quasi a costituirle quale inviolabile barriera atemporale contro il malgoverno e la generale rilassatezza dei costumi.
La satira
Verso il mondo Quevedo prova contrastanti emozioni, attrazione e repulsa, la sua coscienza si lacera insanabilmente tanto da far pensare ad un doppia personalità. La decadenza a cui assiste lo portano ad una crisi, da prima mitizzando il passato e facendo satire organizzate intorno alla burlesca finzione di un’universale Utopia riformatrice dei costumi, di cui il Disinganno si proclama legislatore. La tecnica satirica di Quevedo consiste nel coinvolgere scene e personaggi in un turbine vorticoso e grottescodi artifici e trovate verbali, paragonabile a uno spettacolo pirotecnico che brucia senza residui i propri materiali; se c’è qualche differenza fra le satire giovanili e quelle più mature, essa consiste nella sempre minor disponibilità dello scrittore a lasciarsi prendere, edonisticamente, al suo stesso gioco.
Le Prematicas mettono alla berlina, se volessimo tentare un’enumerazione puramente indicativa, ogni tipo di artigiani e professionisti, le donne, giovani e vecchie, oneste e disoneste, i mariti, compiacenti e no, e naturalmente i poeti. A costoro è dedicata un’intera satira, la Prematica del Desengano contra los poetas gileros (1605); in essa dietro al divertimento si intravede una preoccupazione per le fallimentari condizioni economiche della Spagna. Il tono è giocoso, l’impegno dello scrittore sembra risolversi nella spiritosa trovata di invitare i poeti a trasformare i sontuosi materiali metaforici che sogliono profondere nella descrizione delle bellezze delle loro dame in concreti investimenti valutari allo scopo di rimediare ai mali della patria:Poiché il secolo è povero e scarseggiano l’oro e l’argento, ordiniamo che si brucino le strofe dei poeti come si fa con le vecchie frange per trarne l’oroe l’argento in esse contenuti, giacché nei loro versi fanno le loro ninfe di tutti i metalli…
Altri generi letterari
Che non si trattasse però di una trovata gratuita e fine a se stessa lo dimostra il fatto che la prematica sia stata inserita, quasi alla lettera, nel romanzo picaresco Historia de la vida del Buscon allamado don Pabios, l’unica prova narrativa di ampio respiro tentata da Quevedo, la cui prima redazione risale probabilmente al 1604.
Dopo essersi cimentato con il modello strutturale della picaresca, Quevedo ricorrerà ad altri generi tradizionali per versarvi un messaggio pressante ed angosciato: il nuovo genere prescelto sarà quello della visione dell’aldilà, di ascendenza classica e cristiano-medie vale: come già nel caso delle prematicas, la labilità della cornice e del pretesto narrativo gli consente di costruire delle sequenze liberissime, affidate in gran parte alla perizia verbale, all’arguzia graffiante, all’equivoco concettista. Quevedo ha scritto cinque suenios, i primi tre composti fra il 1606 e il 1608; il quarto, El mundo por de dentro, nel 1612 al momento della prima crisi della sua vita; l’ultimo, El sueno de la muerte, (1622): tutti pubblicati soltanto nei 1627. Nel Sueno del infierno sono ancora di scena i poeti, scherniti perché le ricchezze metaforiche che profondono nei loro versi non valgono come pegno o garanzia ad ottenere anche il più piccolo prestito che ne allevii la penuria: Che cos’è mai vederli carichi di praticelli, di smeraldi, di capelli d’oro, di perle mattutine, di fontane di cristallo, senza trovare a cambio in tutto ciò denaro per una camicia, neanche impegnando tutto il loro ingegno.
Il Mundo por de dentro è un’allegoria ispirata alla apparenze fallaci, il Disinganno, accompagna il poeta attraverso una città fantastica, la cui via principale è intitolata all’Ipocrisia, mostrandogli quello che veramente si nasconde sotto le sembianze delle persone e l’aspetto esterno delle cose. In confronto ai precedenti suenos, la visione appare più organica, i mezzi espressivi più adeguati e stringenti. L’universo dei vizi è posto ora sotto l’unica rubrica dell’ipocrisia; di nuovo, ma in maniera più coerente, la cupidigia di danaro appare la molla fondamentale dell’agire umano, della spasmodica tensione verso il successo e l’ascesa sociale: gli uomini appaiono come altrettanti assurdi manichini, risibili gli uni agli occhi degli altri perché ciascuno mette inconsapevolmente in mostra il meccanismo interno che lo muove. Approdo di un pessimismo radicale, senza apparente riscatto.
La parentesi italiana
Quevedo verso il 1614 parte per l’Italia a seguito del duca di Osuna, destinato come viceré di Palermo. In Italia trascorrerà, pur con interruzioni, quasi sette anni, e vi maturerà un’esperienza umana e politica tale da improntare la seconda parte della sua esistenza.
Al ritorno nel 1619, in seguito alla sua caduta in disgrazia presso il duca di Osuna, trova ancora accesa la disputa suscitata dall’apparire dei poemi di Gongora e vi s’impegna con l’impetuosità: oltre ad attacchi personali contro il cordovano scrive alcuni trattatelli, come l’Aguja de navegar cultos e la Culta latinz Catecismo de vocablos para instruir a las mujeres cultas y hembrilatinas, nella quale si riferisce al vezzo salottiero del gongoreggiare, prendendosela specialmente con le dame della buona società in un’ottica aggressivamente misogina che già aveva adottato altrove. L’Aguja, da parte sua, utilizza diversi spunti allegorico-satirici allo scopo di ridicolizzare la facilità e il meccanicismo della stessa moda, non più nei salotti ma fra i poeti: oltre che alla finzione marinaresca del titolo, lo scrittore ricorre a quella di ricette medico-farmaceutiche grazie alle quali si possono, secondo lui, riscrivere le Soledades in un sol giorno e immaginando tutta una serie di fiorenti aziende commerciali in cui il poeta novellino potrà comprare bell’e pronte, e su misura, le metafore indispensabili alla sua arte: presso argentieri specializzati troverà per esempio «Cristalli fuggitivi» per i ruscelli, «monti di cristallo» per l’acqua spumeggiante, «campi di zaffiro».
Scrittore impegnato
Dopo il 1630 circa marginale è diventata in lui l’attenzione per le mode letterarie e la vocazione di critico delle categorie sociali e dei mestieri che era stata la molla delle satire giovanili. Temprato dall’esperienza negli affari di stato, delle delusioni morale di tanti uomini di governo e delle sue vastissime letture di storici e trattatisti Quevedo aspira ad un messaggio politico di portata universale. L’ascesa del conte-duca di Olivares e il suo allontanamento da Osuna sanciscono il suo isolamento, la sua esclusione dalla politica attiva, dal maneggio degli affari; contemporaneamente il coalizzarsi dei suoi nemici letterari, giunti in rinforzo a quelli politici, ottiene la messa all’Indice di alcune sue opere. E non deve ingannare la sua abile manovra di avvicinamento ad Olivares, grazie alla quale riceve un posto di segretario a corte (1632), né la sua nuova disponibilità a mettere la penna al servizio del favorito. Tra il 1630 e 33 la sua profonda crisi che porta alle stampe La cuna y la sepultura, di cui precedentemente aveva steso una redazione dal titolo di Doctrina moral e compone intanto la Virtud militante.
Per quanto non sia scrittore politico ricordiamo la Vida de Marco Bruto (1644) e la seconda parte della Politica de Dios y gobierno de Cristo, (1655).
La Politica s’iscrive nell’ampia corrente dell’antimachiavellismo europeo, che aveva preso le mosse dall’opera di Giovanni Botero. Se Machiavelli aveva separato la politica dalla religione, attribuendo in certi casi alla seconda la funzione di strumento rispetto alla prima, Quevedo sottomette la politica alla religione. Nelle pagine che commentiamo l’affermazione di tale dipendenza è così recisa e intransigente da apparire paradossale: il re, secondo lo scrittore, deve essere imitatore di Cristo, anzi semplice esecutore della Sua volontà perché il vero re è Cristo stesso e il monarca umano il Suo vicario; il governo è un pesante fardello che deve essere sostenuto e sofferto minuto per minuto come un’amara passione; la cura regia non è in alcuna misura condivisibile né delegabile. La parte più viva del libro è proprio in quest’accentuazione stoica della cura o responsabilità quotidiana del regnare, e nella proclamazione della sua intrasferibilità, ciò che equivaleva a una condanna senza appello della prassi seicentesca dei favoriti.
L'ultima opera
L’ora di tutti e la fortuna con cervello, è una delle opere più significative della sua maturità di forse il capolavoro di Quevedo. L’ora di tutti é un’opera a cornice allegorico-mitologica: nel prologo Giove si lagna, di fronte al concilio degli Dei, dell’ingiustizia che governa il mondo, incarica la Fortuna di ristabilire ovunque, in un’ora predeterminata, la verità e la giustizia, e si compiace poi, nell’epilogo, dell’ordine morale ristabilito. Fra il prologo e l’epilogo trovano posto quaranta episodi aventi riferimento alle più disparate situazioni morali e politiche del mondo, che la Fortuna viene ad un certo punto a ribaltare, secondo le istruzioni ricevute. La critica ha notato come l’artificio letterario utilizzato da Quevedo abbia a fondamento il topos folkloristico del mondo alla rovescia; ma ha notato ugualmente come il ristabilimento della giustizia proclamato da Giove nel finale non sempre trovi rispondenza nel contesto concreto dei singoli episodi.
Sotto il velo della mitologia si cela il discorso dei principi, del dover essere, la lucida consapevolezza dell’inarrestabile decomposizione dell’ideale universalista ispanico, ma perfino dei dettagli tecnici della bancarotta che incombeva sulla Spagna per colpa di Olivares. Il danaro rappresenta sempre, certo, la peggiore insidia per l’etica della sua classe, ma appare altresì come «Circe, che tutto ciò che le si avvicina o di lei si innamora, lo muta in varie forme». Lo scrittore guarda con distacco i relitti della sua illusione aristocratico-cavalleresca; presagendo la disgrazia presso il favorito cui duri anni di prigioone nelle segrete del convento di Leòn, da cui uscirà solo pochi mesi prima della morte.