Pene e torture in epoca barocca
Scritto da Stefano Torselli. Pubblicato in mirabilia
Il sistema giudiziario in epoca barocca, prevedeva una vasta gamma di punizioni. La pena pecuniaria, prevista per i reati minori, era una delle più frequenti, ma non sempre era possibile applicarla perché molti non avevano denaro a sufficienza per pagarla. In questo caso era prevista una pena corporale come i “tratti di corda”: l’autore del reato veniva legato con le braccia dietro la schiena e sollevato con una corda fissata ai polsi, che scorreva in una carrucola posta in alto, detta “girella”. Il peso del corpo in questo modo gravava sulla giuntura della spalla, provocando dolorose slogature e distorsioni. Quindi il cavo veniva lasciato di colpo, determinando i “tratti di corda”.
A seconda del reato variavano, il numero dei tratti di corda, la durata della sospensione e l’altezza dalla quale il malcapitato veniva lasciato cadere.
Il supplizio della corda era largamente usato anche per estorcere la confessione ad un presunto colpevole; in questo caso si trattava di una vera e propria tortura, che veniva applicata in un apposito locale del carcere, attrezzato per una procedura più lenta ed elaborata. La corda era considerata la regina delle torture e non erano molti quelli che riuscivano a sopportare i violenti dolori provocati dalla prevista “sospensione” di un’ora. Tanto che gli imputati, prima di essere sottoposti alla corda, venivano visitati da un medico che si accertava dell’idoneità fisica a quel tipo di tortura. Se l’imputato risultava non idoneo, veniva sottoposto ad altri tipi di torture meno devastanti.
C’erano tuttavia delinquenti che rimanevano sospesi alla “corda” per un’ora senza avvertire alcun fastidio, come se facessero esercizi di yoga; a quanto pare, esistevano palestre segrete dove i delinquenti abituali si esercitavano per affrontare senza alcun danno questa forma di tortura.
Altre punizioni , che potevano essere inflitte, anche in flagranza di reato, erano la “berlina” e la “fustigazione”.
La berlina veniva inflitta per crimini non molto gravi come il borseggio e la falsificazione di documenti, e consisteva nell’esporre il colpevole al pubblico, con un cartello appeso al collo, in cui era riportato il suo nome e la natura del reato commesso.
La fustigazione veniva inflitta alle cortigiane che trasgredivano gli obblighi previsti dai bandi.
Non meno dolorosa era la “veglia”, una forma di tortura bizzarra e complessa, che al dolore fisico univa l’impossibilità di abbandonarsi anche al più lieve torpore. La veglia durava 12 ore, e come concepita, pare partorita dalla mente di uno psicopatico.
L’imputato, veniva spogliato e depilato e posto con l’osso sacro sopra un trespolo, sul quale gravava con tutto il peso del corpo. Con le gambe divaricate e le braccia legate ad una corda legata in alto, doveva rimanere in quella posizione per 12 ore.
Come perdeva l’equilibrio, avvertiva atroci dolori provocati dalla corda che tendeva gli arti in direzione opposta. Pare impossibile ma non tutti cedevano: si racconta che il filosofo Tommaso Campanella dopo essere stato sottoposto a questo tipo di tortura, abbia confessato allo sbirro che lo riportava in carcere. “Non sono così coglione a dire ciò che penso”.
Accanto a queste torture c’erano pene assai più terrificanti, applicate per i reati più gravi: si poteva andare dall’amputazione di un arto all’esilio, dal carcere a vita alla galera e alla pena di morte.
L’esilio veniva inflitto in genere a ladri, vagabondi e impiegati infedeli ed era considerato piuttosto grave. Comportava l’abbandono della città, della famiglia, la confisca dei beni e la residenza forzata in luoghi sconosciuti senza alcun mezzo per vivere.
La galera era una pena molto temuta: poteva durare sette anni o tutta la vita. I forzati venivano completamente rasati e indossavano un’uniforme speciale; venivano sottoposti a visita medica e gli inabili venivano scartati e avviati ad una pena più adatta alle loro forze fisiche. Essi venivano utilizzati, talvolta anche per lavori di pubblica utilità ma stando a quanto racconta il Bouchard, i forzati nello Stato Pontificio, si davano alla bella vita, passeggiando liberamente per strada e frequentando bettole e osterie; nelle galere il passatempo più comune consisteva nel fare calzee berretti di lana e di seta. C’erano forzati che ne sapevano fare di bellissimi.
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