Il missionario nel periodo barocco
Scritto da Laura Savani. Pubblicato in uomo e società
In un’epoca, quella barocca, che aveva stemperato la dura polemica teologica dell’età della Riforma, il compito di rivolgersi a interlocutori lontani ed estranei ai conflitti tra cristiani e “infedeli”, aveva tutto il fascino irresistibile dell’esotismo.
La scelta di pesuadere con la dolcezza appariva la strada migliore; in questa ottica il lavoro del missionario risultava più seducente. L’arte della persuasione si affidava soprattutto alla mediazione della parola. Ma prima che si affermasse il metodo della dolcezza, anche le missioni avevano dovuto fare i conti col principio generatore dell’Inquisizione: la convinzione dell’unicità e dell’evidenza della verità religiosa, da cui discendeva la necessità di ricorrere alla forza per spingere i recalcitranti. Nella conquista dell’America, l’uso della forza era un dato di fatto.
Un bravo missionario prima di predicare il Vangelo e di pensare alle conversioni, doveva riuscire ad inserirsi e a farsi accettare nella società da convertire. E l’abito a questo punto diventava decisivo per il monaco. Molti oggi troverebbero ipocriti simili sistemi; ma si trasttava di un ipocrisia speciale, tutt’altro che priva di criterio morale.
L’esperienza dell’insondabilità delle coscenze arricchì il panorama delle istituzioni ecclesiastiche di una nuova presenza, aprendo il vaso di Pandora del rapporto tra intelettuale e masse. Il missionario diventa un intellettuale dalle molte abilità, esperto nell’arte della comunicazione, profeta, etnlogo, cospiratore, spia, sovvertitore dell’ordine costituito, maestro nell’arte di impadronirsi delle coscienze e di dirigerle ai suoi fini, che non erano i fini di un egoistico successo personale ma quelli del trionfo del regno di Dio, dunque capaci di giustificare qualsiasi mezzo.