La polifonia, strumento principe attraverso cui viene veicolato il messaggio controriformista, deve avere tuttavia delle caratteristiche di sobrietà, linearità e semplicità, come possiamo leggere nelle deliberazioni del Canone sulla musica da usarsi per la messa: «Tutto dovrebbe essere così ordinato che le messe, se sono celebrate con o senza canto, possano raggiungere tranquillamente le orecchie ed i cuori di quelli che ascoltano, nel momento in cui ogni cosa viene eseguita chiaramente e alla giusta velocità. Nel caso di quelle messe che sono celebrate con canti e organo, non lasciate che niente di profano si mescoli, ma solo inni e preghiere divine. L’intero progetto del canto dovrebbe essere costituito non per dare vacuo piacere alle orecchie, ma in modo tale che le parole siano chiaramente comprese da tutti. E così i cuori degli ascoltatori saranno attratti a desiderare armonie celesti nella contemplazione delle gioie del Santissimo. Si dovrebbe bandire dalla Chiesa tutta la musica che contiene sia nel canto che nell’organo cose che sono lascive o impure».
I grandi interpreti della Controriforma ed in particolare i maestri di cappella della Roma papale si orientarono quindi verso composizioni a non più di 3 o 4 voci e alla scelta di testi in lingua italiana. Uno degli esempi più mirabili di commistione di questi elementi fu di certo la Missa Papae Marcelli del 1555, in cui Pierluigi Sante da Palestrina dimostrò che il contrappunto, opportunamente bilanciato ed epurato da manierismi e inutili complicazioni, poteva essere il miglior interprete del nuovo messaggio cattolico. Palestrina, che aveva risentito personalmente dei provvedimenti controriformisti e che aveva perso il suo incarico presso il Vaticano in quanto sposato e compositore di musica profana oltre che sacra, dopo il successo della Missa Papae Marcelli fu acclamato come Princeps Muiscae e reintegrato al servizio del Papa, prima con la direzione musicale di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore, e poi con un suo rientro trionfante in Vaticano.
Palestrina assurse così a modello “autorizzato” per chiunque volesse cimentarsi nella composizione di musica sacra senza incappare nella censura della Chiesa e fondò una vera e propria scuola stilistica nota in tutta l'europa cattolica. Tra coloro che si ispireranno a questo stile, uno dei più illustri è senz'altro Orlando di Lasso (1532-1594), compositore fiammingo di scuola italiana che trascorse molto tempo a Roma insignito del titolo di maestro di cappella di San Giovanni in Laterano e che ebbe occasione di lavorare per anni gomito a gomito con Palestrina. Le sue messe e i suoi mottetti sono connotati da una forte espressività, da un'arte innovativa nell'utilizzo del contrappunto e dal significato delle singole parole sottolinato da accentuazioni ritmiche, modulazioni e inversioni armoniche, tutti caratteri già presenti nella Missa Papae Marcelli.
Tornando a Roma, sulla scia delle semplificazioni dettate dal Concilio di Trento ed attuate da Palestrina, si innesta l'opera del fiorentino Emilio de' Cavalieri (1550-1602), sovrintendente per la musica presso il cardinale Ferdinando I de' Medici e assiduo frequentatore della Camerata de' Bardi: dalla monodia all'opera lirica. Nominato direttore della Musica presso l'Oratorio del Crocifisso fondato da San Filippo Neri, presentò nel 1600 forse l'opera più rappresentativa ed emblematica del messaggio controriformista: la Rappresentatione di anima et di corpo, una composizione che fondeva i nuovi canoni della polifonia e testi in italiano con elementi e movenze teatrali e parti di canto solista, che saranno poi tipici della nascente opera lirica di Peri e Claudio Monteverdi. L'opera consta addirittura di un prologo parlato ed è divisa in atti, cosa del tutto nuova per l'epoca. La Rapresentatione non è altro che una sequenza delle prove a cui sono sottoposti l'anima e il corpo, che devono resistere alle insidie della carne, del Mondo e della vita mondana stessa. L’Intelletto e il Consiglio, personificati, indicano la via della salvezza nel cielo e invitano a fuggire l’inferno, descrivendone le pene; vengono interpellate le anime dannate e le anime beate, che illustrano la loro condizione, mentre il Tempo, presente per tutta la durata dell'opera, ricorda la caducità della vita e il carattere effimero delle cose del mondo. Nel finale Anima e Corpo desiderano ormai solo salire al cielo, ma prima invitano tutti a cantare e lodare il Signore: ha inizio una lunga sezione conclusiva, in cui canti a tre, quattro, cinque, sei voci culminano nell’ultimo, fiorito intervento dell’Anima e in un balletto cantato, anch'esso del tutto innovativo per il genere.
La Rapresentatione di anima et di corpo, nell'insistere sui temi dell'effimero, della Vanitas e della transitorietà della vita, salvata e riscattata solo dalla devozione, introduce elementi che saranno tipici della cultura del protobarocco, soprattutto nell'ambiente romano dove troveranno interpreti della levatura di Caravaggio nella pittura, Stefano Landi nella musica e in Michele da Bergamo in architettura.