Alla base del “pensiero debole” del filosofo torinese Gianni Vattimo c’è il dibattito intellettuale sulla crisi della ragione, in cui si osserva l’assenza di un filo rosso conduttore della storia e di una visione “vera” del mondo ottenuta assemblando i saperi particolari in un unico sapere totalizzante. In tale dibattito c'è chi ha cercato di salvarsi in calcio d’angolo costruendo arbitrariamente nuove forme sia pure parziali di razionalità e chi si è rassegnato ad un improbabile ritorno ai valori tradizionali. Vattimo è andato oltre.
Il suo pensiero debole abolisce i pensieri forti ancora sollevati dalla ragione, vecchi colpi di coda dell’illuminismo e del marxismo. Appoggiandosi a Nietzsche e Heidegger e nello stesso tempo mettendo in discussione anch’essi quando necessario Vattimo si libera dei fantasmi della ragione giungendo a un’idea di realtà più elastica, mobile, eterogenea e morbida, anche se meno rassicurante e meno “certa”, in quanto offre una tabula rasa del pensiero degli ultimi due secoli e non solo.
Ne deriva una filosofia dell’emancipazione dalle ideologie “forti” che però non come esse hanno fatto porta a una demistificazione del reale, ma viceversa porta a rivolgere uno sguardo più nuovo e più amichevole al mondo delle apparenze, in quanto più disteso e meno angosciato da esigenze metafisiche: mondo delle apparenze visto come “luogo di una possibile esperienza dell’essere” e che porta ad un atteggiamento più “spensierato” nei confronti del reale.
Il pensiero debole è una soluzione a quella impasse a cui è pervenuto il pensiero alla fine del suo tragitto metafisico, tragitto da ripensare e di cui esplorare le strade per poter andare oltre. L’orecchio, dice Vattimo, “si è reso disponibile” ad una numerosissima quantità di messaggi inviati dalla tradizione, anche se non si ricade nella tentazione di abbracciarla in toto: in quanto prima di ora il prezzo che ci faceva pagare la ragione era quello di limitare “il numero degli oggetti che si possono vedere e di cui si può parlare”.
Vattimo ribattezza il Superuomo di Nietzsche “Oltreuomo”, conferendogli il significato di uomo che si libera da etiche castranti – non solo quella cristiana, ed è qui la grande novità, ma anche quelle razionali, illuministe e marxiste – per esperire l’essere nel mondo tramite le apparenze: essere che a sua volta è più mobile e “poroso” di quello di Parmenide ed è liberamente e soggettivamente percepito da ciascuno. Lo stesso cristianesimo viene rivisto in sede relativista: l’uomo non crede più, ma “crede di credere”, e nel fare questo si forgia una religione personale tutta sua.