Una donna in Arcadia
Nel Settecento l'Arcadia (Accademia fondata a Roma nel 1690 da quattordici letterati che frequentavano il salotto della Regina Cristina di Svezia, stabilitasi nell’Urbe dopo aver abdicato in favore del cugino), ebbe il grande merito di aprire le porte ai maggiori letterati, ma anche filosofi, medici, scienziati, storici, dell’Italia dell’epoca, senza discriminazioni di ceto o e di sesso e con il semplice obbligo, per gli adepti, di attenersi allo pseudonimo pastorale (l'Arcadia è una regione pastorale dell’antica Grecia), assumendo un cerimoniale basato su un finto atteggiamento pastorale, comprendendo adeguati pseudonimi per gli affiliati e come emblema la zampogna del dio Pan.
Gli appartenenti all’Arcadia, provenienti da ogni parte d’Italia, tutti aristocratici, che continuarono ad adunarsi anche dopo la morte della loro protettrice, si prefissero un programma di rinnovamento, di superamento del decadimento letterario dell’Italia del Seicento, per romperne l’isolamento culturale ed elaborare una cultura nazionale; in opposizione alla magniloquenza, alla sfarzosità ed irrazionalità del Barocco, mirarono ad un maggiore equilibrio fra reale e ideale, nel rispetto della misura e della disciplina, e ricercarono una poesia semplice e chiara, anche se, poi, spesso, approdarono alla creazione di composizioni leziose ed inconsistenti.
Tra gli Arcadi ci furono molte donne intenzionate a sterminare il cattivo gusto del Barocco, tra cui Faustina Maratti, che adottò come pseudonimo quello di Aglauro Cidonia, e che nell’Arcadia, incontrò, insieme ad illustri colleghi, anche colui che le sarebbe divenuto marito, l'avvocato e rimatore Giambattista Felice Zappi, con il quale trascorse lunghi anni felici, offuscati solo dalla morte del figlio, avvenuta in tenera età.
La vita di Faustina Maratti Zappi
Faustina, figlia naturale del pittore Carlo Maratti, nacque a Roma nel 1680.
Trascorse la giovinezza applicandosi allo studio delle lettere, della musica e, forse, della pittura, frequentando i più eleganti e colti salotti romani, approdando in Arcadia nel 1704, nel 1705 sposò Giambattista Felice Zappi; insieme abitarono in una casa lussuosa, fornita di una ricca biblioteca, ed il loro salotto fu frequentato dai maggiori letterati dell’epoca.
Rimasta vedova, trascorse gli ultimi anni della sua vita in ritiro, soggiornando spesso ad Imola, nella città natale del consorte, confortata dal legame con Vincenzo Parravicini, un abate molto più giovane di lei, tormentata da depressione causata da una forma di esaurimento nervoso.
Morì a Roma nel 1745.
La poetica di Fautsina Maratti Zappi
Faustina, bella e colta, di temperamento forte, dimostrato anche in certi momenti particolari della sua vita (come quando si oppose ad un tentativo di rapimento nei suoi confronti da parte del duca Giangiorgio Sforza Cesarini invaghitosi di lei e quando affrontò il processo intentatole dal figlio dello stesso Cesarini, che voleva costringerla a dichiararsi sua madre, processo, poi, vinto nel 1744, dopo aver proclamato la sua innocenza in un memoriale indirizzato al pontefice Clemente XII e giurato solennemente in Campidoglio), fu autrice di sonetti petrarcheggianti, ma a volte anche d’ispirazione marinista, definiti virili, in opposizione a quelli del marito, più delicati e “femminili”, chiamati, ingiustamente, dal Baretti smascolati sonettini, pargoletti piccini, mollemente femminini tutti pieni d’amorini, nei quali, oltre alla natura, in autobiografismo ed introspezione (secondo una tendenza tipica dell’Arcadia femminile) cantò l'amore coniugale, gli affetti familiari e il dolore per la perdita del figlio, ma anche si cimentò in composizioni storiche, probabibilmente il meglio della sua produzione, come quelle in cui lodò sette eroine dell'antichità, da Porzia a Lucrezia.
Le sue “Rime”, in tutto una quarantina di poesie, furono pubblicate nel 1723 insieme a quella del marito sotto il titolo “Rime dell’avvocato Giov. Battista Felice Zappi e di Faustina Maratti sua consorte”.
Bacio l'arco e lo strale, e bacio il nodo,
in cui sì dolcemente Amor mi strinse,
e bacio le catene in cui mi avvinse,
auree catene onde vie più mi annodo.
E il suo bel foco, e la sua face io lodo,
che a un così puro ardor l'alma costrinse:
soave ardor ch'ogni mia pena estinse,
tal che vivendo io ardo, e ardendo io godo.
Tempo già fu, che in lagrimosi accenti
d'Amor mi dolsi, e non sapea che sono
nunzi del suo piacer pochi tormenti.
Ora al Nume immortal chieggo perdono:
e voi tutti obliate i miei tormenti
«voi che ne udiste in rime sparse il suono».
*
Se mai degli anni in un sol corso andranno
al guardo de’ nipoti i versi miei,
meravigliando essi diran:” Costei
come sciogliea tai carmi in tanto affanno?”
Ben rammentando ogni crudel mio danno
tesserne istoria alle altr’età potrei;
ma piacer nuovo del mio mal darei
al cor degli empi, che gran parte v’hanno.
Talché racchiudo per miglior consiglio
mio duol nel seno, e vo contro la sorte.
Con alta fronte e con asciutto ciglio.
E s’armi pur fortuna, invidia e morte,
ché mi vedrai su l’ultimo perielio
morir bensì, ma generosa e forte.
*
Dov’è, dolce mio caro, amato figlio,
il lieto sguardo e la fronte serena?
Ove la bocca di bei vezzi piena
e l’inarcar del grazioso ciglio?
Ahimé, tu manchi sotto il fier perielio
di crudel morbo, che di vena in vena
ti scorre, e il puro sangue n’avvelena
e già minaccia all’alma il lungo esiglio.
Ah, ch’io ben veggio, io veggio il tuo vicino
ultimo danno e contro il ciel mi lagno,
figlio, del mio, del tuo crudel destino!
E il duol tal del mio pianto al cor fa stagno,
che, spesso al tuo bel volto io m’avvicino
e né pur d’una lagrima lo bagno.
*
Amato figlio, or che la dolce vista
sicuro affiggi nel gran Sole eterno,
né tema hai più di cruda state o verno,
né gioia provi di dolor commista,
vorrei che a quel pensier, che sí m’attrista,
della perdita tua dessi governo;
ché quantunque dal falso il ver discerno,
tropp’ei l’anima mia turba, e contrista.
E non vorrei pel duol, ch’ogni altro avanza,
essere a te men cara appresso Dio,
poiché già non piang’io tua lieta sorte:
piango solo la morta mia speranza
di qua vederti, e tanto è il desir mio
che dolce e bella mi parrebbe morte.
*
Poiché narrò la mal sofferta offesa
Lucrezia al fido stuol, ch’avea intorno,
e col suo sangue di bell’ira accesa
lavò la sua non colpa e il proprio scorno,
sorse vendetta, e nella gran contesa
fugò i superbi dal regal soggiorno,
e il giorno, o Roma, di sì bell’impresa
fu di tua servitù l’ultimo giorno.
Bruto ebbe allor eccelse lodi e grate;
ma più si denno alla femminea gonna
per la grand’opra inusitata e nuova.
Ché il ferro acquistator di libertate
fu la prima a snudar l’inclita donna,
col farne in sé la memorabil prova.
Riferimenti
G. Passarello, E. Janora, S. Passarello, Il tempo della memoria: Medioevo ed età moderna, SEI, Torino, 1986
Curatore G. Spagnoletti, Otto secoli di poesia italiana, Newton, I Mammut, Roma, 1993
C. Segre_ C. Ossola- Antologia della poesia italiana, vol.III, Einaudi, Torino, 1997
S. Raffo, Donna, mistero senza fine bello, Newton, Roma, 1994