Vittorio Amedeo II
Vittorio Amedeo aveva solo 9 anni quando il padre morì ma dovette aspettare i 14 per assumere personalmente le redini dello Stato. A corte erano in molti a scommettere che il giovane duca sarebbe morto prima della maggiore età: era pallido, fragile, mingherlino; non poteva fare nessun tipo si sforzo fisico; passava lunghi periodi a letto, circondato da medici e stregoni.
Per anni gli furono propinate le terapie più strane finchè un giorno, un medico, certo Petecchia, consigliò alla Duchessa madre di dargli da mangiare alcuni bastoncini di farina chiamati grissini. Gli storici assicurano che in poche settimane il piccolo Vittorio Amedeo rifiorì. Giovanna Battista ne fu felice come madre ma non come reggente e per scongiurare che il figlio, raggiunta la maggiore età, rivendicasse i propri diritti estromettendola dagli affari di Stato, allevò Vittorio nella bambagia, proprio come la suocera aveva fatto con il defunto marito. Lo affidò a governanti smidollate e a precettori ignoranti e in seguito lo circondò di dame di facili costumi.
All’inizio Vittorio si abbandonò ai piaceri della mensa, dell’alcova e della caccia, frequentando compagnie dissolute. Non mosse obbiezioni quando la madre lo fidanzò all’infanta di Portogallo, unica erede di quel paese. Ma il progetto sfumò, causa la corte che non vedeva di buon occhio un’unione che avrebbe potuto mettere lo Stato Sabaudo alla mercè della corona portoghese. La Duchessa dovette quindi cercare un altro partito per il figlio. La scelta cadde su una nipote di Luigi XIV, Anna d’Orleans.
Nel 1684 si celebrò il matrimonio. Alla vigilia del suo matrimoio, Vittorio Amedeo annunciò che avrebbe assunto i pieni poteri, detenuti fino ad allora dalla madre che uscì dalla scena politica. Il gracile e svagato ragazzetto aveva deciso di mettere la testa a posto. La reggenza era durata troppo a lungo e i suoi effetti erano stati deleteri anche perché Giovanna Battista aveva fatto dello Stato Sabaudo un satellite parigino e per oltre dieci anni gli ambasciatori francesi avevano trattato il suolo piemontese come terra di conquista.
Il primo problema che il Duca dovette risolvere fu la libertà di manovra del Piemonte. Ma ciò, finchè le guarnigioni francesi restavano a Casale e a Pinerolo non sarebbe stato possibile. Per cacciarle era necessaria una guerra ma una guerra contro la Francia era resa difficile dal fatto che nella stessa Corte del duca vi erano tre partiti filofrancesi: quello della madre, quello della moglie, e quello della sua amante, una Luynes francese anch’essa. Alcuni sostenevano che quest’ultima fosse addirittura una spia di Luigi XIV.
Questa difficile situazione domestica, contribuì a rendere diffidente Vittorio Amedeo. Le decisioni prese dalla Francia si ripercuotevano sul Piemonte. La revoca del trattato di Nantes contro gli ugonotti scatenò un terribile pogrom delle popolazioni valdesi, che abitavano sul versante orientale delle Alpi Cozie.
La questione valdese
I valdesi erano sempre stati trattati con sospetto e con disprezzo dalle autorità e dalla popolazione cattolica e avevano subito in passato feroci persecuzioni, malgrado l’editto di tolleranza. Tuttavia grazie alle proteste della Svizzera, dei Paesi Bassi, della Germania e della stessa Francia c’era stata una relativa tregua che durò fino al 1685, quando appunto l’editto di Nantes venne revocato. Vittorio Amedeo, sotto la pressione del Re Sole, abolì gran parte dei diritti che avevariconosciuto ai valdesivietando le loro riunioni e ordinando la distruzione dei loro templi. I tentativi di alcuni governi stranieri di indurre il duca alla clemenza furono vani. Ai valdesi non rimase che scegliere tra l’esilio e la guerra ed essi scelsero di combattere. La loro resistenza durò tre mesi; alla fine dovettero arrendersi e consegnarsi al nemico. Dodicimila furono fatti prigionieri; altri, un centinaio, si diedero alla guerriglia. Il Duca non riuscì più a venire a capo della situazione e alla fine decise di scendere a a patti con i ribelli. Liberò i prigionieri ma pretese che tutti lasciassero il Piemonte. I valdesi presero allora la strada per la Svizzera dove i calvinisti gli accolsero fraternamente. Due anni dopo alcuni di loro vollero tornare nelle natie valli piemontesi e nell’agosto del 1689, si diedero convegno sulle sponde del lago Lemano, dove alcuni battelli li condussero in territorio savoiardo. Si installarono in Val San Martino dove passarono indisturbati l’inverno. In primavera alcune truppe francesi scovarono il loro nascondiglio che sottoposero ad un nutrito fuoco di artiglieria. I valdesi si diedero alla fuga tra rocce e boscaglie invano inseguiti dai francesi che non conoscevano i luoghi.
Pochi mesi dopo, nel giugno del 1690, il Duca di Savoia aderì alla lega di Augusta contro Luigi XIV e si riconciliò con i valdesi, permettendo loro di tornare nei loro territori, con grande disappunto del papa. Ma il duca aveva più a cuore lo Stato che la fede e in quel momento era sceso in guerra con la Francia. Negli ultimi tempi i rapporti tra Piemonte e Francia si erano guastati e il Re Sole aveva contro mezza Europa. Luigi XIV fece invadere il Piemonte da Catinat e le truppe piemontesi si ritrovarono a combattere una curiosa battaglia (che perse) a Staffarda. Il duca fece arruolare in fretta ventimila uomini e si rituffò nella mischia, subendo però pesanti rovesci. Fu allora che Vittorio Amedeo avviò trattative segrete con la Francia e ottenne i trattati di Torino e di Vigevano. La Francia del resto aveva capito che era meglio negoziare con il Piemonte, un avversario battibile ma cocciuto.
Luigi XIV s’impegno a sgomberare Casale e Pinerolo e in cambio il Duca diede in sposa la propria figlia Maria Adelaide al nipote del Re Sole. Il Piemonte si ritrovò così libero da presidi stranieri. Una clausola del trattato impegnava la Francia a rinunciare a qualsiasi interferenza negli affari interni del Piemonte. Quando l’ambasciatore francese portò a Vittorio Amedeo le credenziali questi disse senza mezzi termini: “ Dite al vostro re che ci lasci in pace nelle nostre case, con le nostre madri, le nostre mogli e le nostre amanti.” La Luynes portò via con se ciò che la riguardava e fuggì.
Da alleati ad assediati dei francesi
Con il trattato di Ryswick del 1697, i trattati di Torino e di Vigevano furono riconosciuti ufficialmente e Vittorio Amedeo potè orientare la sua politica come meglio gli conveniva. Con la successione al trono di Spagna il Duca cominciò a trattare segretamente con l’Austria e la Francia per vedere chi gli prometteva di più. Ma quando il doppio gioco venne scoperto, la Francia disarmò ed internò la guarnigione piemontese di S. Benedetto Po. Ciò spinse il duca a schierarsi dalla parte degli austriaci che in cambio promisero al Piemonte il Monferrato, una bella striscia di Lombardia, la Lomellina, la Valsesia, Vigevano e un pezzo della provincia di Novara. Vittorio Amedeo dovette prepararsi ad un’ennesima guerra: tre eserciti francesi conversero su Torino rovesciando le resistenze di Susa, Vercelli ed Ivrea. Il Duca provvide subito a far partire la madre, la moglie e i figli dalla capitale, messa sotto assedio. Lasciò poi, dopo una breve resistenza, il comando ai suoi generali, per andare incontro al principe Eugenio di Savoia, che stava accorrendo in suo aiuto alla testa di forze austriache.
I piemontesi reagirono ai bombardamenti con disperato coraggio, tentando anche delle sortite. La più famosa, passata alla storia, è quella di Pietro Micca, un giovane minatore che, penetrato di una galleria, fece scoppiare una mina sotto i piedi dei francesi saltando in aria insieme ad essi come un kamikaze. Vittorio Amedeo ed Eugenio di Savoia arrivarono a Torino, quando ormai la città era ridotta allo stremo, dopo 117 giorni di sangue e di fame. I due Savoia avevano solo 30.000 uomini contro i 47.000 francesi, ma fu il genio tattico e strategico del Principe Eugenio di Savoia ad avere la meglio.
La battaglia fu un capolavoro che si risolse in poche ore con la completa rotta dei francesi.
Il Duca ed il Principe entrarono a Torino accolti da una lunga ovazione diretti al Duomo dove venne celebrato un Te Deum di ringraziamento. In seguito a quel trionfo, sette anni dopo, a Utrecht, il Duca si annetteva tutti i possedimenti che la Francia deteneva ancora sul versante italiano delle Alpi da Fenestrelle a Bardonecchia, più le terre che l’Austria gli aveva promesso con il coronamento di un sogno che per i Savoia durava da secoli: il titolo di Re di Sicilia.
La Sicilia però, troppo lontana e molto depressa, rappresentava per il Duca più un peso che un vantaggio. Tuttavia la corona di re fu una promozione di incalcolabile valore: l’Italia aveva un Re, che pur non essendo Re d’Italia, era tentato di diventarlo, dal momento che nella penisola, tra tanti potenti, a lui spettava il posto di vertice.